24 dicembre.
Il sole opaco tentava invano di donare calore alle strade innevate. Sulla collina della Ville Lumière svettava la cupola della Basilica del Sacré-Cœur con la sua forma inconfondibile. Le strade erano sepolte sotto un candido manto che pareva glassa di zucchero, la neve aveva addolcito i contorni di tutte le superfici, persino le più spigolose. I viottoli in salita e le numerose scalinate erano affollate da un lento via vai di persone infagottate in cappotti scuri, sciarpe e berretti per ripararsi dal freddo che penetrava nelle ossa. Si udiva appena lo scalpiccio dei cavalli sul terreno nevoso. Ai lati delle strade c'erano venditori di cibo, chincaglieria e cestini di vimini con i loro banchetti. In cima ad una salita si intravedeva l'insegna di un locale con un'ampia vetrata tirata a lucido. Il nome la Fée Verte, scritto in corsivo, a grandi lettere, si stagliava su un'asse di legno che dondolava appena. Il suono di un violino si librava nell'aria assopita. Era la vigilia di Natale del 1899 e il quartiere parigino di Montmartre, eletto a dimora degli artisti, era per eccellenza il luogo d'incontro dei bohémien. Davanti al Sacré-Cœur c'era il suonatore, un ragazzo sui venticinque anni coperto quasi completamente da un lungo cappotto scuro rattoppato in più punti. Indossava un berretto di lana grezza calcato fino alle sopracciglia e una sciarpa spessa e scura. I palmi delle mani erano coperti da vecchi guanti tagliuzzati all'altezza delle nocche ma le dita nude danzavano agili sulla tastiera d'ebano. Il violinista teneva gli occhi chiusi mentre suonava ma, quando li apriva tra un brano e l'altro, si indovinava il loro colore nocciola chiarissimo, con delle pagliuzze dorate che parevano vorticare disordinatamene al loro interno. Aveva poggiato un logoro basco sul lastricato di marmo e alcuni passanti generosi avevano lasciato qualche spicciolo prima di entrare in chiesa per accendere una candela o recitare una preghiera. Nonostante il freddo, un gruppo di persone si era fermato ad ascoltare il musicista; sulla piazza qualche bambino giocava a campana, altri rincorrevano una palla fatta di stracci e i piccioni, numerosi come sempre, beccavano per terra indisturbati. Il belvedere sovrastava la città immersa in un sottile strato di nebbia. I tetti innevati, le carrozze, le rare automobili, i cavalli e le persone che attraversavano le grandi vie parigine sembravano formiche da lassù. La campana Savoyarde suonò il primo rintocco del mezzogiorno e il violinista smise di suonare per lasciare il posto ai dodici rintocchi, dopodiché fece vibrare l'archetto introducendo l'ultimo brano di quella mattina, Adeste Fideles. Mentre suonava quella melodia, una lacrima scivolò dal suo occhio destro, ma forse era solo colpa del freddo. Quando era piccolo, nel cottage che i suoi genitori possedevano nel Kent, tra i prati verdissimi, si respirava un'aria estremamente festosa. Sua madre si dilettava a decorare i camini con ghirlande di agrifoglio e tutte le stanze della casa erano adornate da composizioni di foglie secche, bacche e pungitopo. Era una donna che amava la bellezza e riusciva a mettere un tocco di romanticismo in tutto. Era stata lei a trasmettergli l'amore per la musica, suonava infatti il pianoforte e cantava con voce armoniosa. Suo padre invece, era un uomo di natura pratica: allevava e addestrava cavalli ma amava profondamente la moglie e ne lodava le doti musicali. Il violinista sollevò l'archetto e l'ultima nota di Adeste fideles smise di risuonare nell'aria, dopo un profondo inchino corredato da un sorriso, riprese il basco dal gradino e constatò con piacere che era quasi pieno di tintinnanti monetine. Si diresse verso il posto che lì a Parigi chiamava casa: una stanza in un edificio pieno di giovani artisti che, come lui, avevano intrapreso il viaggio alla ricerca di se stessi. L'affitto costava una sciocchezza poiché il proprietario dello stabile era un amante dell'arte e faceva credito ai giovani spiantati. Finalmente ragazzo varcò il portone ed entrò nell'atrio, illuminato fiocamente da una lampada a petrolio. Salì otto rampe di scale per raggiungere il quarto piano, girò la chiave nella serratura e posò lo strumento sul tavolino che era proprio al centro della stanza. Si tolse il berretto scoprendo una folta chioma scura spettinata e si lasciò cadere sul letto molle. La carta da parati era un po' ammuffita e aveva iniziato a scollarsi dai muri in più punti. Lanciò un ultimo sguardo alla stanza ormai familiare, col tavolo di legno scuro, la cassettiera con la ribaltina e il baule con cui era arrivato a Parigi, poi chiuse gli occhi e scivolò nel sonno.
***
La ruota bucata proprio non ci voleva! pensò Nicole camminando più veloce che poteva verso l'Accademia di Restauro. Sperava di trovare qualcuno che le aprisse, ormai mancava solo una manciata di metri. Guardò sollevata il cancello aperto, imboccò il vialetto e si ritrovò nel cortile vuoto. Salì a due a due i gradini ed entrò nell'imponente portone per ritrovarsi faccia a faccia con Monsieur Dubois, l'arcigno custode. - Bonjour - disse Nicole rossa in viso abbozzando un sorriso. - Bonjour, mademoiselle - grugnì l'uomo. - La prego, mi scusi so che è il 24 dicembre ma devo entrare! È ... è importante - balbettò in un tentativo scarsamente convincente. Il bidello sembrava essere lì apposta per ostacolare l'accesso in Accademia, pareva un mastino ben addestrato. - Non si può, di qualsiasi cosa si tratti dovrà aspettare fino al 26 dicembre - le disse con un tono che non ammetteva repliche puntando l'indice della mano destra in direzione dell'uscita. - Ma...io...è importante la prego, mi sono dimenticata il materiale per restaurare la mia tavola, la mostra sarà tra pochissimi giorni e... - tentò di ribattere la ragazza. - Le regole sono regole e non si fanno eccezioni. Torni il 26 – bofonchiò sputacchiando saliva qua e là. Nicole aprì la bocca per replicare ancora ma poi la richiuse: ogni suo tentativo si sarebbe rivelato vano. Si voltò, scese le scale un gradino alla volta e uscì dall'edificio. Andò verso il palo dove legava sempre la bicicletta con una pesante catena rossa ma si ricordò di essere a piedi. Si era accorta solo quella mattina di avere la ruota posteriore completamente a terra e non l'aveva cambiata, non ne era capace. O, meglio, sapeva come si faceva in teoria, ma non ci aveva mai provato. Quando aveva problemi con la bicicletta si rivolgeva ad una ciclofficina non molto distante da casa. Antoine, il ragazzo che la gestiva, era piuttosto carino ed erano usciti insieme un paio di volte. Non si erano ancora dati nemmeno un bacio, ma sembrava un ragazzo molto alla mano. Nicole decise di fermarsi a fare colazione prima di rientrare a casa. Vicino l'Accademia c'era un bar ultramoderno che adoravano tanto i suoi colleghi di corso ma non la attirava perché era sempre affollato, era bianco e grigio e la musica che trasmettevano era troppo alta. Il fatto che fosse bianco e grigio, agli occhi della ragazza era un vero e proprio difetto poiché Nicole amava i colori al punto da ritenere che ciò che era troppo neutro nemmeno valeva la pena di essere considerato. Meglio un accoppiamento di colori sgargianti, anche audace così o piaceva o non piaceva, i posti sterili non le dicevano proprio niente. Decise di provare un bar dove non era mai stata, sperava di trovarne uno raccolto per mettersi a leggere. Non conosceva ancora tutti i vicoletti di Montmartre e iniziò a vagabondare per le salite e le discese. Con la bicicletta faceva sempre gli stessi percorsi, ma a piedi era anche bello perdersi. Ripensò ad Antoine, era un bel ragazzo, alto coi capelli biondi e gli occhi azzurri, sembrava proprio un principe delle fiabe, ma non sentiva svolazzare le farfalle nello stomaco quando lo vedeva, era rimasta troppo scottata dalla storia importante che aveva avuto con un ragazzo di Dublino e spesso ripensava a cosa non avesse funzionato tra di loro. Si chiese se si sarebbe innamorata ancora o se il suo cuore era chiuso per sempre, quando prese l'ennesimo vicolo in salita. Si accorse che era più ripido di quanto non sembrasse dalla via principale. Scorse sulla sinistra un piccolo locale. L'insegna ondeggiava leggermente e il nome della caffetteria era scritto in bianco su un'asse di legno sostenuta da due catenelle un po' arrugginite: la Fée Verte, la “Fata Verde”, lesse, un nome molto carino. Pensò anche che era così che si chiamava l'Assenzio, tanto in voga ai tempi dei bohémien. Sbirciò quindi all'interno: c'erano numerose decorazioni di pungitopo e foglie secche, c'erano pigne e candele, pareva antico e non era molto illuminato. I muri erano rivestiti di legno, al punto che sembrava voler ricreare l'atmosfera di inizio Novecento. Il bancone di legno scuro era sommerso da ritagli di giornali d'epoca. Questo posto sì che ha carattere, pensò la ragazza. Almeno qui o piace o non piace e a me piace, decise. L'atmosfera sembrava accogliente, c'era persino un caminetto acceso e fuori l'aria era davvero pungente. La campanella posta sopra la porta accompagnò il suo ingresso. Una volta dentro, Nicole si guardò intorno. Gli avventori erano un po' strani, c'erano soprattutto uomini. Alcuni indossavano lunghi cappotti scuri rattoppati qua e là e anche le capigliature parevano fuori moda, non anni '60 o punk, ma un po' impomatate e quasi tutti avevano la barba. Scorse tre donne: due ragazze procaci con il seno strizzato nei corsetti che lo mettevano bene in vista, accompagnavano due gentiluomini e anche la barista era una donna. Nessuno si voltò al suo arrivo, gli avventori continuarono a bere come se l'uscio non si fosse mai aperto, nonostante Nicole fosse entrata lasciando passare una folata di gelo. La ragazza prese posto ad un tavolino vicino al caminetto acceso. Le fiamme danzavano sul ceppo e il calore le riscaldò piacevolmente il viso. Posò lo zaino viola su una sedia di vimini e prese posto su quella accanto. Tirò fuori un libro e lo aprì. - Cosa ti porto, mademoiselle? - le chiese la barista, che sembrava anche la proprietaria del locale. - Una cioccolata calda, per favore - le rispose Nicole. La osservò per un momento. Era una giunonica donna sui sessant'anni con i capelli bianchissimi raccolti in uno chignon basso, indossava una camicia a righine bianche e blu e una lunga gonna sopra alla quale era annodato un grembiule rosso scuro. - Arriva subito – fece la signora con un sorriso cordiale e sparì dietro il bancone. Riapparve poco dopo con un'enorme tazza fumante di porcellana bianca. - Ecco qui - le disse posando la tazza sul tavolino. - Io mi chiamo Marie - si presentò. - Io sono Nicole - rispose la ragazza. - Di cosa ti occupi, Nicole? - le domandò Marie con garbo. - Sto frequentando la scuola di specializzazione di restauro dei dipinti, sono a Parigi con mia sorella Ann - rispose. - Parli molto bene il francese, hai una buona pronuncia - si complimentò la donna. - Grazie, sono solo pochi mesi che sono qui, diciamo che ce la metto tutta ma posso migliorare - le rispose Nicole sempre molto critica con se stessa. - Da dove vieni? - le domandò. - Da Dublino - rispose la ragazza. - Goditi la tua cioccolata, ora devo andare - le disse Marie prima di allontanarsi per servire un cliente che era appena entrato. Nicole aprì il romanzo che aveva acquistato un paio di giorni prima, leggeva principalmente dal kindle ma l'odore della carta era impagabile e ogni tanto si concedeva un libro cartaceo, ma ne aveva collezionati talmente tanti che non aveva più spazio. Non sapeva nemmeno se li avrebbe riportati tutti a casa una volta finito il corso, due settimane dopo. Dublino le mancava molto ma il pensiero di ripercorrere quelle strade che aveva percorso con lui la faceva rabbrividire. Non escludeva di restare a Parigi, ma doveva presentarsi un'occasione che avesse a che fare col suo lavoro di restauratrice. Le piaceva la capitale francese e la lingua non costituiva un ostacolo. Sotto alcuni aspetti Parigi e Dublino si assomigliavano: innanzitutto il clima era quasi identico, entrambe le città erano percorse da un fiume, c'erano i suoi negozi preferiti, i mezzi pubblici garantivano ottimi collegamenti con ogni punto della città e aveva conservato l'abitudine di girare in bicicletta e poi, dal momento che viveva con la sorella aveva con sé un pezzo di famiglia. A Dublino, dopo la laurea in storia dell'arte, lavorava freelance come guida turistica alla National Gallery of Ireland. La sua passione era dipingere e sperava che a Parigi avrebbe trovato la giusta ispirazione, ma fino a quel momento, a parte passare lunghissimi pomeriggi a riprodurre le opere del Louvre, non aveva dipinto niente di suo. Nei fine settimana metteva un banchetto a Place du Tertre insieme agli altri artisti e ritraeva i turisti. Strano questo bar pensò ancora Nicole, pare una cartolina degli inizi del Novecento... Ci sarebbe tornata presto, di questo ne era certa. Le piacevano i luoghi fuori dall'ordinario e la proprietaria, Marie, le era parsa una persona squisita. Tutti la trattavano con rispetto e lei dispensava consigli e bevande calde. Nicole chiuse il libro, lo ripose nello zaino e si diresse verso il bancone. - Mademoiselle va via? - le chiese la signora e, vedendo che la ragazza aveva in mano il portafoglio scosse la testa e disse - Chérie, offre la casa, è stato un piacere averti ospite nella mia caffetteria -. Nicole ringraziò un po' imbarazzata e Marie le porse una bustina di carta scura e un po' unta. - Buon Natale, chérie. Sono solo dei dolcetti - aggiunse veloce prima che la ragazza potesse ribattere, presa alla sprovvista da quell'atteggiamento premuroso e insolito per una grande città come Parigi. Salutò la proprietaria e varcò la porta. Scese sulla strada principale dove il traffico era regolare e l'insignificante bar alla moda era affollato come sempre. Nicole guardò l'orologio: le 11.50. Si ostinava ad usare quello con le lancette invece di portare come tutti uno smartwatch al polso che conta anche i passi. Era molto affezionata a quel sottile orologio d'acciaio col quadrante rosa pallido perché glielo aveva regalato la nonna per il suo ventesimo compleanno, cinque anni prima. La cara nonna Mary era morta l'anno prima, pochi giorni dopo che Nicole aveva ricevuto la lettera d'accettazione per il corso di restauro. Mentre camminava strinse tra il pollice e l'indice il ciondolo a forma di cuore che teneva sempre al collo, lo faceva spesso, quasi a volerne trarre conforto. Il cuore penzolava da una sottile catenella con una curiosa chiusura a forma di quadrifoglio, era grande circa due centimetri e al centro era incastonata una minuscola pietra verde dal contorno irregolare. Aveva tante venuzze e sfumature cangianti, forse era malachite, ma Nicole non si intendeva molto di minerali. Quando la nonna morì, sua madre chiese a lei e a sua sorella di scegliere un gioiello in suo ricordo e lei scelse quel ciondolo. C'erano monili di valore, pietre preziose, oro e platino ma Nicole volle quel ninnolo, le parve semplice e stupendo. Sua sorella, molto più materialista di lei, aveva optato per un paio di pesanti orecchini d'oro a cerchio che sembravano tempestati di rubini - e probabilmente lo erano davvero -. Il cuore d'argento era in fondo al portagioie, quasi dimenticato. Era anche un po' annerito ma Nicole lo ripulì e da quel momento non se lo tolse più dal collo, nemmeno per fare la doccia. Quell'anno, il primo dalla scomparsa della nonna, i loro genitori sarebbero andati a fare una crociera nei Fiordi e Nicole avrebbe trascorso le festività nella sua casa parigina insieme alla sorella minore. Ann aveva seguito un corso di sartoria e si dilettava a confezionare vestiti ottocenteschi commissionati da compagnie teatrali. Ann e Nicole si passavano solo un paio d'anni, erano molto unite ma molto diverse caratterialmente. Era probabile che la sorella avesse in programma di trascorrere del tempo con il ragazzo francese di cui si era invaghita, Jean-Claude che, secondo Nicole, era più vuoto del guscio di una noce. Durante le festività avrebbero offerto due concerti e poi ci sarebbe stato un importante evento dell'Accademia di Restauro e Nicole avrebbe usato quei giorni per lavorare e studiare. La ragazza era a Parigi da nove mesi ormai e, pur camminando molto e girando in bicicletta, si ritrovava sempre negli stessi posti. In compenso, però conosceva a menadito tutti i musei più importanti. Aveva trascorso pomeriggi interi al Louvre a riprodurre i quadri che amava di più come La libertà che guida il popolo di Delacroix, La zattera della Medusa di Géricaux, Le nozze di Cana del Veronese e La vergine delle rocce di Leonardo. Guardò le notifiche sul cellulare, era un po' che non lo prendeva in mano. Un messaggio di Ann e una foto da parte di sua madre, la aprì. Era un selfie dei suoi con alle spalle le scogliere, dalla loro espressione sorridente sembrava si stessero divertendo un mondo. Nicole sospirò, sollevata che stessero bene. Non partivano mai e quell'anno era stato particolarmente duro per sua madre. Tuttavia pensò non si era persa molto nonostante fossero due ore che non lo guardava. Non faceva spesso post su Instagram ma pensò che quel bar meritava di essere immortalato: pubblicizzandolo avrebbe aiutato anche Marie con nuovi clienti, quindi decise di tornare indietro. Anche se Montmartre era un dedalo di vie e scalinate, la ragazza aveva un ottimo senso dell'orientamento. Invece di percorrere a ritroso la strada appena fatta, decise di riavvicinarsi alla caffetteria prendendo la ripida scalinata di una via vicina. In linea d'aria doveva essere proprio lì. Macchine parcheggiate, piccoli locali, un murales di tanto in tanto. Non aveva fatto caso al nome della strada, ma la caffetteria doveva trovarsi nei dintorni. Nicole alzò lo sguardo e lesse Rue Eugène Sue sulla placca blu tipica delle strade parigine. Il bar non era lì ma non doveva essere lontano, magari era nella via accanto. Percorse più e più volte le strade lì intorno, avanti e indietro, ma niente. Si era persa. Non riusciva più a trovare Marie o la Fée Verte. Chiuse istintivamente la mano attorno al cuore d'argento e rimase immobile qualche istante. Si trovava su una via residenziale con le macchine parcheggiate all'interno delle strisce, c'erano i tipici palazzi parigini e, al livello della strada, qualche bar carino. Ma non c'era traccia di luoghi da cartolina di inizio Novecento. La Savoyarde rintoccò il mezzogiorno e Nicole si diresse verso casa, ma decise che sarebbe tornata a cercare la Fée Verte e a fare quella fotografia.
***
Era giorno inoltrato quando Christopher aprì gli occhi e scorse il pallido sole fuori dalla finestra polverosa. La campana della chiesa di st Pierre, non molto distante, iniziò a rintoccare in quel momento. Don, don, don. Le tre del pomeriggio, il ragazzo non aveva pranzato e aveva dormito quasi tre ore. Questa vita, senza orari, così diversa da quella a cui era abituato in Inghilterra, lo rendeva finalmente felice. Poteva suonare quando desiderava, non doveva sottostare al volere della zia e ai capricci della cugina. Dopo tanto tempo aveva ripreso a ridere in modo genuino. Era arrivato a Parigi per suonare ma anche per comporre la sua musica. L'ispirazione però non era ancora arrivata. Si alzò dal letto e rabbrividì sciacquandosi il viso nel catino ricolmo di acqua fredda. Finalmente era sveglio. Lanciò un'occhiata fugace allo specchio per guardare il suo riflesso. Era un bel ragazzo, alle donne piaceva e non ne era digiuno, ma non si era mai innamorato. Il sesso era divertente ma non aveva ancora incontrato qualcuna che lo bruciasse da dentro come recitavano le opere di Shakespeare o le poesie di Baudelaire. Aveva persino iniziato a chiedersi se le sensazioni tanto decantate da quegli autori esistessero veramente. Raggiungeva quasi il metro e novanta, aveva le spalle larghe e lo sguardo buono anche se un'ombra viveva dentro i suoi occhi quasi del colore dell'ambra, così simili a quelli di un lupo. I capelli nerissimi erano perennemente scompigliati, aveva una cicatrice che gli tagliava di netto il sopracciglio sinistro e una più piccola sul labbro inferiore. Una leggera barba gli disegnava la mascella squadrata. Si vestì con calma, prese la custodia del violino e si mise la tracolla in spalla, afferrò il basco e chiuse la porta. Scese le scale a passo svelto e s'incamminò per la strada imbiancata senza una meta precisa. Prima di trovare il posto giusto per suonare, decise di passare da Marie per mettere qualcosa nello stomaco. La proprietaria de la Fée Verte era diventata una zia per lui. Era una delle due persone che sapevano chi fosse veramente.
L'insegna de la Fée Verte aveva preso a cigolare. Assorto nei suoi pensieri, Christopher non aveva notato che aveva ricominciato a nevicare: i fiocchi candidi scendevano dal cielo bianco, danzando dolcemente. Una folata di vento gelido gli sferzò con violenza il viso. Il ragazzo si rifugiò nel piccolo locale dove tutti lo conoscevano. A Montmartre lo chiamavano “archet d'argent” per la dolcezza con cui suonava il suo strumento. Sapevano che veniva dalla Normandia e che suo padre era francese ma la madre era originaria delle isole britanniche. Il ragazzo aprì la porta a vetri del locale e la piccola campanella sopra l'entrata annunciò agli avventori il suo arrivo. - Chris, bonjour! – lo salutò Marie. - Buon Natale Marie! - le rispose il ragazzo. Un paio di uomini, seduti davanti ad enormi boccali di cui ingollavano avidamente il contenuto, gli rivolsero un cenno del capo. Avevano abiti rovinati, come tutti a Montmartre, del resto, e l'espressione vacua. - Ragazzo mio, ho una cosa per te - disse la donna porgendogli un lungo involto. Era incartato con la carta da pacchi marrone e legato con uno spago. Chris lo aprì e rimase senza parole davanti al contenuto. Era un archetto bellissimo, di legno scuro con i crini bianchissimi e sul tallone riluceva una pietra verde dalle mille sfumature. - Grazie Marie è meraviglioso - le disse Chris abbracciandola con affetto - non dovevi - aggiunse. - È un piacere per me, sei un musicista bravissimo, buon Natale di cuore - gli disse la donna e il ragazzo notò che aveva gli occhi lucidi. Che fosse il suo? Si chiese. Chissa se anche lei suonava il violino e per questo lo aveva preso così a cuore. La donna non parlava mai del suo passato, il suo sguardo, sebbene ben mascherato da sorrisi e affabilità, a un osservatore attento come Chris appariva velato da una tristezza lontana. Ma per qualche ragione, il ragazzo si fidava di quella donna, così le aveva rivelato la verità circa la sua vera identità. Non se la sentiva di porle domande indiscrete. Se Marie non gli aveva detto nulla sull'archetto o sul fatto che suonasse il violino, probabilmente non aveva voglia di parlarne. - Non mangio nulla da ieri sera, avresti qualcosa per me? - chiese Chris col suo fare ammaliante. - Non ti preoccupare ragazzo mio, vatti a sedere che ci penso io a te - gli rispose Marie premurosa come le zie sanno essere.
Il ragazzo aprì la custodia sopra al suo tavolino preferito e ripose l'archetto nell'incavo dell'imbottitura, sorrise e la richiuse. Il tavolino era accanto ad un camino dove ardeva un bel fuoco scoppiettante. Chris si lasciò cadere sulla sedia di vimini e s'incantò un attimo a guardare le piccole fiammelle gialle e arancio che saltellavano allegre tra gli stretti alari. Marie arrivò poco dopo porgendogli una tazzina fumante di café au lait, un'omelette, un pezzo di pane, un bicchiere di vino rosso e una caraffa di acqua. Nonostante il nome del locale facesse pensare che servisse solo alcol, era quasi un ristorante. Marie cucinava per i suoi clienti piatti veloci e dolci. Il ragazzo ringraziò la donna pregustando il cibo. - Allora Chris, dove andrai oggi? - gli chiese Hadrian Weber, lasciandosi scivolare sulla sedia più vicina alla sua. Si sfilò il cappotto con un gesto fluido e lo adagiò sullo schienale. Era il suo migliore amico, un ragazzo biondo di ventitré anni col viso quasi completamente coperto di lentiggini. Era di origine tedesca e ostentava dei denti bianchissimi sempre spiegati in un enorme sorriso. Il suo buonumore poteva risultare irritante, ma chi lo conosceva sapeva che era proprio così di indole. - Se ti va posso accompagnarti - propose il nuovo arrivato, esitò un momento - Ho la mia cara Evelyn - aggiunse estraendo un'armonica a bocca dalla tasca del cappotto. Suonò un accordo e per un momento tutti gli avventori del bar tacquero ma erano talmente intontiti dall'alcol che non ebbero altre reazioni. - Certo, Had. Non hai bisogno di chiedermelo - gli rispose accennando un sorriso a mezza bocca - Quante volte te l'ho detto che è un nome assurdo per un'armonica! - disse un attimo dopo alzando gli occhi al cielo. - Domani siamo tutti invitati a casa di Daniel per pranzo - gli ricordò Hadrian ignorando la smorfia. - Davvero? Benissimo grazie - rispose il ragazzo con un pezzo di pane in bocca. - Vengono anche François e Edouard, forse riesco a portare Giselle...ci dovrebbe essere anche André...ma non ne sono sicuro - aggiunse un po' esitante Hadrian. - Meglio se non c'è - disse Chris scuotendo la testa. - Suvvia, amico, ormai è acqua passata - iniziò. - Non ricominciare, Hadrian... - lo zittì il ragazzo prendendo un sorso d'acqua. - Pace? - gli chiese il tedesco dopo qualche istante porgendogli la mano. - Certo che sì! – disse Christopher afferrandola e si dimenticò in fretta della momentanea arrabbiatura. - Andiamo che si sta facendo tardi - aggiunse lasciando alcune monete sul tavolo. Recuperò il violino e se lo mise in spalla. - Ciao Marie! A più tardi! - urlò il ragazzo alla donna dietro al bancone intenta a versare una bevanda di colore rosato in alcune tazze. - Buona giornata, ragazzi – li salutò la proprietaria del bistrot.
Adele Morasci
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