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Autore: Adele Morasci
Anne Staad non è un'illusa
Romance
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Anne Staad non è un'illusa
Una sagoma nera scivolò rapida lungo il Muro.
Il Leutnant Stein era di pattuglia anche quella notte, come lo era stato molte altre notti di quello stesso mese.
Imbracciava pigramente il suo AK-74 con il braccio destro e tra le dita dell'altra mano stringeva una sigaretta da cui inalava avidamente il fumo nella speranza di racimolare un po' di calore.
Faceva un freddo cane e l'illuminazione era scarsa in quel punto, la luce più vicina proveniva dalla brace della cicca.
Intorno al tenente non c'era anima viva ma solo sagome di cartone: erano in due a gestire un tratto che avrebbe avuto bisogno di almeno sei uomini.
Il tenente sentì un fruscio, immediatamente lanciò un'occhiata verso il basso ma non vide nulla.
Pensò che si trattasse di un gatto o di un cane randagio, poi la luna catturò per un momento il suo sguardo. Il soldato si sorprese a pensare a quanto fossero luminose quelle piccole stelle che punteggiavano il cielo nero.
Poi udì di nuovo quel rumore: erano passi, stavolta ne era certo.
Poi la vide.
Un'ombra scura camminava rasente il lato di Berlino Est. Provò a sporgersi per vederla meglio, ma la sagoma era già scomparsa, inghiottita dall'oscurità.
La vide riaffiorare pochi secondi dopo dall'altra parte.

Un brivido freddo pervase il corpo di Gertrude destandola improvvisamente. La prima cosa che vide aprendo gli occhi fu la coperta di lana in cui si era avvolta la sera prima giacere aggrovigliata sul pavimento.
La pallida luce di fine inverno filtrava dalle persiane chiuse rivelando oggetti a caso nella piccola stanza.
I timidi raggi bianchi sembravano dei riflettori: illuminavano alcuni libri del ripiano centrale della libreria, puntavano il ghigno di Al Pacino che imbracciava un mitra sul poster di Scarface attaccato alla parete ed infine una barca in bottiglia, la più grande delle cinque costruite dal fratello, che adornavano la mensola sopra il suo letto già vuoto.
Da fuori arrivava il rombo dei motori delle macchine e una sirena lontana, dentro casa, invece, si udiva il leggero ticchettio della sveglia sopra il comodino e il vociare monotono della televisione accesa.
Gertrude s'infilò le pantofole e tutta arruffata si diresse in cucina, dove si lasciò cadere su una sedia dall'imbottitura rossa.
- ‘Giorno Jack – salutò sbadigliando il fratello.
- Ciao Gert - le rispose questi sollevando per un attimo lo sguardo dal giornale.
- Oggi sei di turno? - gli chiese.
- Sì, attacco alle dieci – confermò distrattamente.
La televisione era sintonizzata sul notiziario locale: 24 febbraio 1989 riportava la data in sovraimpressione.
- Papà? - domandò la ragazza addentando un biscotto.
- Dovrebbe rincasare a breve, staccava alle otto - rispose Jakob - Mamma è già da Ada - aggiunse anticipando la domanda della sorella.
- Sì, tra poco la raggiungo – affermò versandosi un po' di latte. Lo bevve con calma e andò a prepararsi. Lavorava in una sartoria a Berlino Ovest insieme alla madre.
La vita scorreva tranquilla da quel lato del muro e Gertrude, che era nata dopo la sua costruzione, era abituata a quell'imponente presenza di cemento.
Spesso le capitava di immaginare come fosse Berlino quando ancora non era divisa. Tutte le volte che si recava dall'altra parte, stentava a credere che un tempo quella città fosse unita.
Le due metà non potevano essere più diverse.
Innanzitutto i plattenbauten le mettevano da sempre soggezione. Quei palazzi altissimi, costruiti secondo le direttive dello stile socialista erano talmente alti da lanciare ombre scure che arrivavano dall'altro lato della strada. Erano tutti orribilmente uguali e anonimi, così come i vestiti che balzavano subito al suo occhio da sarta con i loro colori scialbi ed i tagli semplici. Ad Ovest i colori erano sgargianti e le fantasie psichedeliche dominavano i capi.
Ad Est c'erano molte meno automobili e i modelli erano antiquati; le pubblicità erano quasi inesistenti, mentre il suo lato ne era costellato. Cartelloni delle grandi multinazionali come la Coca-Cola o Burger King invadevano le facciate dei palazzi e persino le marche dei prodotti nei supermercati erano diverse. Non che fosse mai stata in un supermercato dell'Est, poiché quando andava al di là del Muro si limitava a recarsi a casa della cugina, ma, proprio nella dispensa di Ursula aveva visto prodotti che ad Ovest non c'erano.
Quando Gertrude uscì di casa, le lancette dell'orologio segnavano le nove del mattino, il cielo era coperto ma non minacciava pioggia.
Si diresse verso la stazione della metropolitana più vicina e, con sole cinque fermate, raggiunse la sartoria di Charlottenburg .

Δ

Erano le nove del mattino quando Leopold staccò dalla ronda. Passò dalla torre di vedetta per riprendere la sacca dove aveva messo del cibo per uno spuntino e la borraccia ormai vuota.
C'era anche uno spartito: durante quelle notti lunghe e noiose, il ragazzo leggeva la musica nei momenti morti, ma solo con la compagnia giusta, ovvero quando con lui era in servizio il tenente Hans Keller, suo buon amico e coinquilino.
Leopold era nato un anno dopo la costruzione del Muro e abitava ancora nello stesso quartiere di quando era piccolo.
Il socialismo della DDR si vantava di poter migliorare la vita della gente.
Leo non era particolarmente ideologista, ma si faceva andar bene il socialismo, del resto non conosceva altro. I presupposti erano lodevoli ma la messa in pratica era lacunosa. Ogni giorno pensava con insistenza che quel muro fosse stupido ed era sempre più curioso di sapere cosa ci fosse ad Ovest. Lui non c'era mai stato. Per un tedesco orientale era difficile ottenere un visto per l'Altra Berlino. Chi ci riusciva, attraversava i varchi e si sottoponeva ai controlli delle guardie di frontiera. I berlinesi occidentali varcavano il muro un paio di volte l'anno per recarsi dai parenti, ma, per chi come lui veniva da est, la situazione era assai diversa. Nel corso degli anni, nonostante la sorveglianza armata, tanta gente aveva provato a fuggire al di là del Muro e qualcuno c'era riuscito, calandosi nelle fogne coi ratti o scavando tunnel sotterranei. Fuggire era vietato: le gallerie furono demolite e i tombini inchiodati al suolo.
Col passare del tempo, molti cittadini della DDR produssero domanda di espatrio e passavano anni in attesa del responso. Chi finalmente otteneva il visto, raggiungeva il Tränenpalast con pochissimi averi, lieto di potersi lasciare quella realtà alle spalle.
Nonostante l'Est continuasse a raccontare alla sua gente di quanto invivibile, corrotto e di dubbia morale fosse l'Ovest, Leopold era certo che la vita nel lato occidentale offrisse maggiori prospettive economiche e sociali. Non osava pronunciare questo pensiero ad alta voce poiché un soldato come lui non poteva permettersi di avere idee così sovversive.
L'Est aveva costruito il Muro per proteggere i cittadini orientali dall'infido capitalismo e la vita da quel lato non era male: lo Stato offriva sovvenzioni ai meno abbienti, procurava lavoro ai disoccupati e metteva a disposizione alloggi nei casermoni di Honecker.
Il tenente Stein amava la musica e la sua vera passione era il pianoforte, si limitava ad eseguire gli ordini e si rifugiava nel suo mondo appena aveva la possibilità di farlo.
I suoi capelli erano biondo scuro e vantava una corporatura imponente.
Lo reputavano strambo poiché aveva gli occhi di due colori diversi. Di giorno indossava il più possibile gli occhiali da sole per coprirli e di notte quelli da vista, anche se non ne avesse realmente bisogno. Tuttavia, con il riflesso dato dalle lenti, questa caratteristica non si notava immediatamente.
A causa della sua particolarità, chi lo incontrava per la prima volta - e non solo - lo guardava con un misto di ribrezzo e diffidenza e, a Leopold, che odiava mettersi in mostra, pesava non avere entrambi gli occhi dello stesso colore.
Il suo amico Hans non badava all'aspetto esteriore, era senza dubbio un tipo intraprendente e non mancava di curiosità. Anche lui tenente, portava i capelli neri a spazzola, aveva gli occhi grigi come l'acciaio e un'insana passione per gli scacchi.
Nonostante fossero molto diversi caratterialmente, Leopold e Hans erano migliori amici. Entrambi ligi al dovere, svolgevano il proprio servizio in modo impeccabile.
Hans tendeva a dire tutto quello che gli passava per la testa, mentre Leopold era più taciturno, pesava sempre le parole e, per questo, non appariva molto spontaneo.
Non ne facevano parola in pubblico ma erano incuriositi dall'Ovest e confidavano di vederlo presto. Già dall'inizio di quell'anno, infatti, sempre più persone sostenevano che il Muro non avrebbe retto ancora a lungo. Giorno dopo giorno, il malcontento delle due Berlino si faceva sempre più vivo.

Δ

Una volta a settimana - di solito il venerdì - Gertrude andava ad Est a trovare Ursula. La ragazza era la figlia della sorella del padre, l'unica parente che le rimaneva da quel lato della famiglia.
Si era trasferita da poco a Prenzlauer Berg, a nord di Alexanderplatz, insieme alla figlioletta Emmeline che ad aprile avrebbe compiuto tre anni.
Quando Gertrude andava a trovarle, portava sempre alcune medicine per Ursula, che era affetta da diabete.
La cugina, dopo aver sofferto di diabete gestazionale negli ultimi quattro mesi di gravidanza, sembrava essere guarita.
Quasi un anno dopo il parto, invece, svenne sul posto di lavoro. Quando si risvegliò, fugato il dubbio che fosse nuovamente incinta, si sottopose ad alcuni accertamenti al policlinico. I medici scoprirono che la malattia non era scomparsa affatto: si era solo nascosta, riacutizzandosi all'improvviso.
Le comunicarono che l'avrebbe accompagnata per tutta la vita e la ragazza avrebbe dovuto imparare a fare i conti con la sua nuova realtà. Oltre a seguire una dieta specifica, Ursula si sottoponeva ad alcune iniezioni di insulina.
Nel suo nuovo palazzo, viveva una giovane di nome Paula che stava finendo gli studi come infermiera. Iniziò ad aiutare la vicina con la bambina e con le iniezioni e divenne presto una buona amica.
Gertrude aveva iniziato proprio sotto consiglio di Paula a portare l'insulina dall'Ovest, poiché ad Est era molto più cara e la posologia che era stata prescritta alla cugina non sembrava sufficiente a farla stare bene.
- In questi casi bisogna procedere per tentativi finché non si capisce il giusto dosaggio - spiegò l'infermiera a Gertrude quando si incontrarono la prima volta. Dapprima con due e poi con tre iniezioni al giorno -una prima di ogni pasto - Ursula si era stabilizzata. Nonostante la malattia conduceva una vita normale: era una mamma single e lavorava part-time alle poste.
Emmeline non aveva ancora raggiunto l'età scolare e quando Ursula era al lavoro, Paula o sua madre Greta, badavano a lei.

Alle tre del pomeriggio, Gertrude era in fila per i controlli al Tränenpalast , col passaporto in mano, un sacchetto della farmacia in bella vista e la chitarra in spalla che a volte portava con sé per divertire la piccola Emmeline.
Quando arrivò il suo turno entrò in uno degli stretti cunicoli. Appena fu dentro la porta che aveva attraversato sbatté alle sue spalle. Davanti a lei, una seconda porta la separava dalla parte est della città. Avrebbe dovuto aspettare il benestare dell'impiegato per raggiungere la cugina. Il soldato dietro il vetro aprì il documento e la squadrò meticolosamente confrontando il suo aspetto con quello della fototessera.
I capelli ramati della ragazza erano più corti: nella foto le arrivavano oltre le spalle, ora invece le sfioravano il collo, erano più ricci ed aveva la frangia.
- Scopra la fronte per favore – le ordinò l'uomo dallo sportello.
Gertrude ubbidì.
Il militare la guardò ancora qualche secondo prima di lasciarla finalmente passare.
Gertrude spinse la porta e fu dall'altra parte, ma non era finita lì e lo sapeva.
Entrò in una delle stanzette destinate alla perquisizione dove, dopo appena un paio di minuti, un soldato la raggiunse per controllare gli oggetti che portava con sé.
Era un ragazzo alto e i suoi occhi grigi e attenti indagarono sulle scritte dei medicinali, estrasse poi la chitarra dalla custodia leggera per esaminarne l'interno. Infine, accordò alla giovane il permesso di di passare dall'Altro lato e le restituì il documento con il timbro e la data di quel giorno.
Quando raggiunse finalmente la strada, Gertrude alzò il bavero della giacca perché, nonostante la sciarpa, l'aria fredda continuava ad insinuarsi prepotentemente sul suo collo. Salì sul tram per raggiungere la casa della cugina.
Per fortuna non abita più in un plattenbau! Pensò raggiungendo il fabbricato alto quattro piani dove vivevano ora Ursula ed Emmeline. Suonò il citofono e sbirciò oltre il portone di vetro.
Suonò una seconda volta perché non aveva ottenuto risposta. Trafelata, comparve Ursula con la figlia in braccio che la fece entrare nell'atrio.
- Il citofono è di nuovo rotto – spiegò.
- Come va? - le chiese Gertrude baciandola sulle guance.
- Stiamo bene, vero piccoletta? - rispose la cugina rivolgendosi ad Emmeline che spalancò le braccia in direzione dell'ospite.
- Chitarra! - esclamò la bambina scivolando in braccio a Gertrude.
- Sì piccola, hai visto? – sorrise la ragazza.
- Suoni zia Gert? - domandò la bimba.
- Certo Emme, con piacere – rispose Gertrude guardando i suoi occhi verdi imploranti.
Il terzetto salì le scale ed entrò nell'appartamento al primo piano dove Ursula abitava da quasi quattro mesi.
Era un bilocale composto da un salottino con un cucinotto a vista, una camera da letto ed un bagno illuminato da una piccola finestra.
Gertrude adagiò la bambina sul divano beige e si sfilò la tracolla della chitarra. Mise le medicine sul tavolo e si sedette accanto ad Emmeline.
- Vuoi un po' d'acqua? - le chiese Ursula.
- Sì, grazie –
- Anch'io mamma – fece la bambina.
- Com'è andata la giornata? - domandò Gertrude alla cugina accettando il bicchiere di vetro che le offriva.
- Solito, e tu? Che notizie mi porti dall'Ovest? - domandò l'altra mentre porgeva un bicchiere alla figlia.
- Sono usciti alcuni modelli di vestiti bellissimi, se ci riesco ti porto una rivista la settimana prossima. Ho alcuni schizzi che ho fatto io ma non rendono quanto le fotografie. Per caso hai qualcosa da farmi riparare? - le chiese.
Ursula aveva messo in una borsa di tela una camicetta a righe senza bottoni e col colletto scucito, un vestitino di Emmeline e un pigiama. Sapeva rammendare ma non possedeva una macchina per cucire. La cugina avrebbe fatto un lavoro migliore.
Dopo aver riposto gli indumenti da sistemare nella sua borsa capiente, Gertrude estrasse la chitarra dalla custodia e si mise a suonare un paio di canzoni di Donna Summer.
La bambina la ascoltava estasiata e anche Ursula, sebbene apparisse molto stanca, era felice di quella compagnia.
Nonostante il suo permesso fosse valido fino alla mezzanotte, come d'abitudine, poco prima delle sette, Gertrude salutò la cugina e la bimba e si riavviò verso casa.
- A venerdì! - disse loro mentre usciva dall'appartamento sventolando la mano.

Era passata una settimana.
Puntualissima, Gertrude si mise in fila al controllo passaporti.
Quando lo sportello si chiuse sgraziatamente alle sue spalle, imprigionandola nel cunicolo, un soldato diverso la scrutò con l'identica attenzione dei colleghi delle volte precedenti e fece cenno a Gertrude di aspettare la perquisizione.
Mentre scarabocchiava sul suo immancabile blocco, la ragazza si sorprese a pensare a quanto Ovest ed Est fossero vicini e all'assurdità di quei controlli per attraversare una manciata di metri. Le finestre del Tränenpalast erano grandi e luminose ma permettevano una vista parziale del mondo esterno: mostravano il cielo ma non la strada. Pensò che l'architetto le avesse progettate così per dare a chi transitava all'interno dell'edificio un'idea di libertà parziale. Anzi, ne era certa. Poi, la porta si aprì interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Comparve un giovane tenente, Gertrude ne capì il grado dalle spalline bordate di blu con due rombi gialli. Era alto ed indossava gli occhiali da vista con una montatura spessa e scura.
- Fräulein Vogel, spiacente, permesso negato – disse porgendole il documento.
- Perché? - domandò la ragazza.
- Ordini dall'alto, stavolta non può passare – rispose il soldato mantenendo un'aria impassibile.
- Ma io... - insistette timidamente Gertrude.
Il tenente la interruppe: - Nessuna eccezione, torni a casa – disse categorico.
La ragazza rimase immobile, indugiando prima di alzarsi dalla sedia. Quando finalmente si mise in piedi, scrutò il soldato perplessa e notò che, dietro le lenti, aveva gli occhi di due colori diversi: uno azzurrissimo da sembrare di ghiaccio e uno marrone talmente chiaro che pareva miele.
Con la complicità del sole che filtrava dalle grandi finestre, quei colori tanto nitidi le si impressero nella mente.
Oltrepassò delusa l'uomo e ritornò a Berlino Ovest.

Adele Morasci

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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