Rimase fermo senza fiato sull'erta che portava a Sant'Amasio, una frazione di Arpino nella Alta Terra di Lavoro, all'epoca sotto la provincia di Caserta. Si sedette sul sasso che per tante ore gli aveva dato compagnia quando pasceva le pecore da bambino, e l'emozione lo colse. Aveva creduto di non poter rivedere quei posti rimasti lontani, per lui, nel tempo e nello spazio. Ripensò alla sua infanzia quando, seduto proprio in quel punto, immaginava cosa potesse esserci oltre la riga dei monti, là dove la luce schiariva. Bevve con lo sguardo il familiare orizzonte come un assetato. Gli sembrò stretto rispetto a come se lo ricordava. Le sassose cime azzurrine che chiudevano la gola erano aride come nel passato. Riconobbe da lontano il biancheggiare di quel rado gruppo di case, quasi ovili, solo ripari per uomini e bestie. Dimore arroccate su una pietraia dove le pecore, confondendosi con i massi, non trovavano altro che sterpi da brucare. Lassù, il vento sradicava i semi vuoti appena li piantavi in quella terra a strapiombo sul Rapido, un torrente in secca il resto dell'anno, come tutto il resto intorno. La sua famiglia stava al Pilota, un casale del proprietario delle greggi, affossato in una valletta proprio sotto la chiesa del santo protettore la contrada. Ne occupavano solo una stanza, come ciascuno dei nuclei familiari di altri lavoranti che vi abitavano. La zona era chiamata così forse perché da qui partivano tutti gli ordini del padrone. Ci vivevano altre famiglie, una per stanza, assieme agli animali; nell'aia, un pozzo spesso asciutto. Michele era ormai vicino e vedeva il fumo uscire dal lato della casa dove stavano i suoi. Cominciò a tremare. Una folata d'aria gli riportò tutto in mente, e gli occhi presero a bruciargli, ma non per la polvere. Quanto tempo era passato da quando era partito. L'uomo, sopravvissuto alla Prima guerra mondiale, era stato congedato il 24 agosto del 1919 dopo aver raggiunto, da Como, Civitavecchia, sede del reggimento. Gli avevano pagato il premio di congedamento con quasi trecento lire e un pacco di vestiario. Decorato con due croci di guerra e tre medaglie, da soldato semplice era stato promosso Sergente istruttore degli Arditi per i meriti conseguiti durante la Grande Guerra. Con tutte queste novità, sperava di poter trovare nella sua famiglia un po' di calore. Stava tornando a casa dopo tante peripezie, con il piccolo meritato gruzzolo, certo che, immaginando la situazione disastrata dei suoi familiari, almeno per questo sarebbe stato riaccolto con gioia. Era un civile, adesso, la guerra era finita. Tuttavia sentiva di aver perso status, potere sociale e identità, lontano dal mondo militare, dai commilitoni, dai compagni con cui aveva condiviso pericoli e sofferenze e con cui aveva vissuto senso di appartenenza e legami profondi. Sopravvivere senza certezza del domani era pane di tutti i giorni, allora. Bastava respirare, essere rimasti vivi aspettando l'alba di un altro giorno, ignorando se fosse l'ultimo. Senza divisa e senza gradi non aveva autorità, era nudo, impotente e indifeso come un neonato. Ora c'erano altre incertezze: il futuro, non quello immediato. Adesso poteva, doveva pensare a questo tipo di futuro, ed era l'incognita maggiore. Aveva una nuova sfida da affrontare, ma si sentiva forte, aveva una ragione per lottare: un amore. Erano in tanti a casa sua. Sperava che qualcosa fosse cambiato tra loro adesso. L'ondata di ricordi gli tolse il respiro come la salita che non finiva mai. Era il primogenito, l'orgoglio del padre. Che fosse il prediletto, il padre glielo dimostrava in segreto, da quando si era risposato. Quanti progetti aveva fatto su di lui: da grande lo avrebbe mandato a studiare al Tulliano da convittore, se fosse riuscito a risparmiare. Il collegio fondato da Gioacchino Murat aveva grandi tradizioni umanistiche. Ci avevano insegnato Barnabiti e Gesuiti. A quel prestigioso Convitto, ad Arpino, ci andavano i figli di famiglie potenti per diventare a loro volta persone ricche e importanti. Michele era sveglio e intelligente e il padre, con grandi aspettative su di lui, glielo aveva promesso quando stavano soli, sui pascoli, mentre gli accarezzava la testa. Non poteva far vedere alla sua matrigna quanto gli voleva bene. Intanto l'uomo metteva da parte per quel grande momento, facendo la cresta sui soldi del cacio che rivendeva. Li teneva nascosti sotto un masso al pascolo, per non farseli prendere dalla moglie. Sempre a insaputa della donna, aveva chiesto al parroco, don Antonio, di insegnare il latino al figlio, quando andava a servire messa o dopo il catechismo. La scuola era una camera su una stalla a Casalvieri, dove s'imparava soltanto a leggere, scrivere e far di conto, e il ragazzo vi andava a malapena quando faceva brutto tempo e non usciva con le pecore. Don Antonio non se lo fece dire due volte. In segreto sperava che Michele, dagli occhi brucianti e vivi, entrasse in seminario e si facesse prete. Assieme all'antica lingua, il vecchio sacerdote gli spiegava la liturgia, leggendogli passi della Bibbia, preparandolo spiritualmente, in cuor suo, per l'ordinazione. Michele aveva tredici anni quando un giorno, appena rientrato dal pascolo, vide una valigia di cartone pressato fuori dalla porta, con una sacca di tela attaccata al manico. Si chiese stupito chi fosse arrivato. Dentro la cucina, che era quasi tutta la casa, c'era solo Maria, la matrigna, con un signore. Lo aspettavano. La valigia era per lui. La donna ci aveva piegato il suo vestito della Prima Comunione, la Bibbia regalo di don Antonio di quell'occasione, panni da lavoro, gli scarponi che il padre gli aveva comprato a Natale e il Rosario della sua povera madre. Credendo che lo mandassero a studiare al Tulliano, seguì quel tale: lo chiamavano zi' Mimme, nessuno sapeva il vero nome. - È venuto direttamente a prenderti a casa - disse la donna con enfasi, dando importanza a questo particolare di non poco conto. Mentre parlava con il signore, Maria si era messa in petto un rotolo di banconote che l'uomo le aveva allungato. Lo fece con una mossa tanto rapida che a Michele sembrò si mettesse a posto il busto. Discutevano sui soldi. Diceva zi' Mimme: - Nun ti pozze da' centocinquanta lire, mo' i so' uiste: è piccirille. Ci passo guai - . Maria trattava: - Ma chiste è forte, fatìa assai! Ci vale, ci vale - . - E 'uà bo'. Firma qua i' contratte. - E tirò fuori dalla tasca un foglio spiegazzato. Maria, con le dita a pinza impugnò una specie di matita consumata, umettò la punta spuntata con la saliva per rende- re chiaro il segno e con decisione stampò una croce, dove le indicava l'uomo col dito. Si voltò verso la madia del pane, l'aprì frugando nel fondo, e tirò fuori un pezzo di carta sgualcito, scritto a mano e glielo porse: - Ecc' gl'certificate nascita che mi avete chiesto. So' fatte subbite ai Commune. So' ita a chiglie che mi site ditte Vui. Quando vi ho nominato, zi' Mimme, subito mi ha fatto la carta. Mo' sta scritto che u' uaglione ha sedici anni, e non tredici, come volevate5 - . Parlava un po' dialetto e un po' italiano. L'uomo aggiunse, guardando a terra: - Questo è l'acconto. Se il ragazzo si porta bene, e non mi dà altre spese, ricevere- te una rendita mensile - . Poi, schiarendosi la voce: - Sempre se, voi capite... gli imprevisti, vitto e alloggio, il vestiario, una malattia... Insomma, manderò, se potrò - . Con fare mellifluo, prese Michele per mano e gli disse: - Sei un ragazzo fortunato, vieni in Francia con me a fare la fortuna tua e della tua famiglia - . La fame, quella nera, imperava. Michele, stupito e inorgoglito per il ruolo da primogenito, era però sospettoso per la cura che ci metteva Maria nel mandarlo via. Lei era tanto scorbutica con lui. Ciononostante seguì l'uomo. Suo padre non c'era o almeno, in quel momento, non si trovava o non si voleva far trovare. Certi “lavori sporchi” si lasciavano fare alle donne. Il ragazzo non poté salutarlo mentre lo sconosciuto gli metteva furia sollecitandolo.
Maria Antonietta Rea
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