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Autore: Fiore Forti
La vita oltre la paura
Romanzo Formazione
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La vita oltre la paura
I fantasmi si muovono tra di noi come solitarie anime in pena, essenze che oscillano tra il mondo assegnato ai giusti e il nostro, fatto di inferno. Privati del loro corpo di carne, nudi spiriti colmi di inquietudine: alcuni sono in catene, e solo quando il buio cade come un velo diventano liberi di andare, lasciando al loro passaggio stridori e spaventi; altri sono arrabbiati, così furiosi che è un rischio avvicinarsi al luogo dove abita quel che rimane della loro anima. Poi ci sono quelli mesti, quelli senza voce e quelli in carne e ossa, come ero io.

Parte prima

La stanza era calda e un raggio di sole trapelava dalla finestra semiaperta. Mentre l'osservavo, una folata di vento aveva fatto ballare per un momento le tendine di lino bianco che Sofia aveva cambiato il giorno prima, per poi invadere col suo soffio la stanza. La finestra si era spalancata portando le voci confuse della strada sottostante. Per me l'estate era tutta in quell'invadente fascio di luce che non chiede permesso.
Avevo chiuso la finestra disturbata da quella vita che era entrata prepotente per mezzo di voci stonate.
Nessuno era venuto a trovarmi, né aveva squillato il telefono in segno di ricerca, così quella mattina avevo chiamato Paolo, il mio migliore amico. Anche lui come molti era al mare, accolto da quell'isola che dalla mia stanza appariva come il luogo incantato di un libro lasciato a dormire sulla mensola.
Dicono che Capri è bellissima: una regina di roccia, una donna dai lunghi capelli di mare a cui piace farsi ammirare.
Mi immaginavo Paolo, di fretta, in attesa di fare quel giro in barca di cui mi aveva parlato prima di chiudere la telefonata, lasciandomi di nuovo sola. Lo pensavo alto e sempre più biondo, fiero come tutti i bellissimi che senza volerlo impongono quel velo di timidezza a chiunque li sfiori con lo sguardo. Nessuno però sapeva delle sue lacrime nell'ora blu, quel momento della sera in cui cadono le maschere e rimaniamo nudi col solo vanto del nostro cuore.
Paolo rinnegava il suo essere sé, non riuscendo a trovare il sorriso della libera scelta, non essendo capace di buttare in mare tutto il fittizio, l'artefatto, l'inganno che costringe l'amore ad essere odio.
Caro Paolo, siamo quel che siamo.

Quella mattina l'avevo trascorsa restando in camera, come del resto facevo sempre.
La mia stanza era il mio nido, me l'ero costruita giorno per giorno con pezzi di varia natura e funzione.
Avevo una lampada da tavolo in alluminio arancione che faceva un angolo di novanta gradi perfetto. La sua luce ricadeva dritta sulla scrivania, allargandone i confini. Mi piaceva il calore che emanava, mi ricordava i tramonti, e le albe: quell'emozione sottile provata in loro contemplazione, che forse era l'unica sensazione viva che avevo ancora attaccata addosso a mia insaputa. Forse l'avevo scelta arancione proprio per questo.
Vicino alla finestra avevo sistemato con cura una pianta. Questa! Avevo pensato appena l'occhio si era posato sulla sua immagine incastrata tra le altre. Erano tutte piante molto belle, tutto il giornale era bello. L'avevo trovato in salotto: era il secondo della pila di riviste sistemata all'angolo del tavolino di vetro. Lo avevo preso in mano e aperto con indifferenza, poi avevo seguito uno per uno i fiori, come fossero i passaggi della storia di un fumetto, infine l'avevo trovata, senza neppure cercarla: Maranta.
Sofia era tornata a casa il giorno seguente con una Dracena, una specie di palma dalle foglie lunghe e appuntite, così diversa dalla mia scelta.
Il fioraio le aveva detto che non aveva la Maranta, ma era certo un'ottima alternativa anche quel bellissimo Tronchetto della felicità appena arrivato dal vivaio, e lei lo aveva comprato. Avevo proprio bisogno di un po' di felicità.
Così in camera non avevo una Maranta, né un Tronchetto della Felicità, ma una Dracena Marginata dalle foglie appuntite che dopo un primo sconforto avevo accettato con benevolenza.
Quella pianta mi assomigliava: non era quella che avevo scelto, l'avevano camuffata con un nome diverso pur di venderla. Era una scordata, proprio come me. Così mi era diventata simpatica, e dove prima avevo visto sporgenze acuminate senza alcuna armonia, dopo osservavo mani in cerca di sole.
Le avevo dato anche un nome: Mad.
Non potevo chiamarla come avrei voluto, così avevo abbreviato. Mad era il nome giusto per una pianta che viveva sotto la grande finestra della camera di una giovane ragazza già vecchia.
Sofia non sapeva che le avevo dato un nome; Sofia sapeva solo quel poco che le raccontavo con gli occhi.
Era stata felice quando le avevo indicato la Maranta sul giornale chiedendole se potesse prenderla per me.
- Appena esco vado a comprala! - mi aveva detto con quella sua voce chiara e un mezzo sorriso che su di lei era ampio come l'intero di una qualsiasi altra persona.
- Grazie. - le avevo risposto prima di tornare di fretta nella mia stanza dove avevo poi tolto dal cassetto della scrivania il diario.
Era un bel diario grande, con una rilegatura dorata che gli dava un tocco regale. Ogni sera lo tiravo fuori dal cassetto, lo rigiravo tra le mani scorrendo le pagine vuote con la voglia di riempirlo, e poi lo riponevo.
Era qualche giorno che Mad mi fissava dalla sua postazione, mentre ripetevo il mio rituale. Così una sera, identica in tutto e per tutto alle altre, con il diario aperto sulla scrivania, presi la penna in mano e sulla seconda pagina giallo ocra che sapeva di rinascimento, scrissi la data: due luglio, e appena sotto, il nome che non riuscivo neanche più a pronunciare: Maddalena. Il nome della mia pianta.
Erano appena passati 11 giorni dall'inizio dell'estate.

Era una mattina limpida e mi ero svegliata troppo presto: dalla posizione orizzontale in cui giacevo nel letto osservavo il pulviscolo spostarsi nell'aria, brillante come le stelle nella notte.
Gli uccelli parlavano, cantavano forte. Erano stati loro a richiamarmi dai sogni così presto, ne ero certa. Il suono aveva trovato la via sgombra nella finestra semiaperta, più schiusa di come ricordavo di averla lasciata prima di andare a dormire.
Mi ero alzata a fatica con gli occhi ancora appiccicati dal sonno, e avevo respirato il profumo delle chiome verdi e folte degli alberi.
La luce del primo mattino sembrava dirmi che all'alba di un giorno nuovo tutto può succedere. Come potevo dormire ancora?
Impassibile, avevo chiuso le ante e accostato le tende, ed ero tornata al mio giaciglio. Avevo appena chiuso gli occhi ed era già giorno inoltrato.
Con indosso la maglietta maschile che usavo come pigiama estivo ero scesa a colazione: il silenzio nelle stanze vuote era l'unica presenza viva.
Non ci si abitua mai all'assenza, ti entra dentro e diventa te. È un vuoto pieno di disperazione, di delusione, di silenzi assordanti e paure.
Nessuno era tornato, nessuno doveva andare.
Mi chiedevo, cos'è il tempo? Forse solo una fugace illusione...
Non credevo in niente perché non avevo alcuna fiducia verso la vita, ma ancora non me ne rendevo conto e credevo che fosse la vita a non avere nessuna fiducia in me.
Sul tavolo in cucina c'era un biglietto di Sofia con su scritto: - Torno per pranzo, mangia. -
La luce estiva di quel giorno d'estate illuminava il bigliettino e le fette di pane, spalmate di burro e marmellata di albicocche, che Sofia mi aveva preparato.
La tovaglia su cui era sistemata la colazione era ricamata con piccoli fiori colorati; quando la vidi un lampo nella mente mi riportò nel passato: correvamo insieme su quel prato dietro la casa di campagna che circondava un casolare rimesso a nuovo. Quella era la nostra casa, fatta di pietre e ornata di alberi da frutto. Era il nostro posto; lì non ci seguivano i compiti, non c'erano divieti.
La primavera era come una farfalla colorata che inseguivamo senza il bisogno di farla nostra. Anche noi, due farfalle.
I profumi inebriavano l'aria, e per noi esistevano solo quegli odori, l'erba bagnata sotto ai piedi nudi e il sole in faccia.
Ci si accorge della felicità solo quando ci lascia addosso il suo ricordo?
Ero diventata ormai così distante da quel senso di totale appagamento che fa fiorire gigli nel cuore che, ero certa, lo avrei riconosciuto all'istante se si fosse posato sulla mia spalla anche solo per un momento.
Per sopravvivere all'isolamento avevo imparato a far passare il tempo in molti modi diversi.
Uno di questi, nonché il mio preferito, consisteva nel riempire le ore (e quel senso di solitudine che mi accompagnava da molto), con le parole che leggevo.
Le due grandi finestre del salone che affacciavano sul cortile interno ospitavano, nello spazio che le divideva, una libreria molto ricca, da cui mi ero sempre divertita a scegliere un libro tra i molti, per poi impegnarmi a leggerlo fino all'ultima pagina.
- La lettura salva! - Me l'aveva detto un giorno un insegnante, quando ancora non capivo per quale motivo avessi bisogno di leggere per essere salvata. Ma poi, salvata da cosa?
Quella frase senza collocazione mi era rimasta in testa ed ero riuscita a farla mia, così mia che non poteva appartenere tanto perfettamente a nessun altro.
- Anche disegnare salva! - , avevo risposto un giorno al ricordo, mentre strusciavo convinta un pastello sul cartoncino.
Disegnare era un altro modo di riempire il tempo.
Durante le ore in cui gironzolavo per la casa vuota, mi ero spesso ritrovata ad osservare il camino, in cui sentivo ancora bruciare il fuoco, e la tavola rotonda, altare della domenica, festa dell'incontro, dove eravamo stati felici insieme.
Scrutavo i pavimenti, che cambiavano da una stanza all'altra, e quella luce che si spargeva dai lampadari, vagando sui soffitti e scandendo il tempo come una clessidra antica.
Guardavo sempre tutto con l'impressione che niente di quel tutto mi vedesse più.
Da bambina il telefono squillava e il pendolo chiamava a merenda; ogni angolo era ricolmo di qualcosa e ogni cosa aveva un colore, un vissuto, un messaggio originario e caro.
C'era sempre un riflesso nella notte a scacciare i mostri, sempre una luce ad indicare la via.
Tutto questo bene cancellato, come se non fosse nemmeno mai stato. Restava solo un'ombra piantata sul muro che girava la casa. E nessuno sapeva per dove.
Erano mesi che stagnavo, facendo sempre le stesse cose. Ed erano mesi che non avevo intenzione di fare altro che quello.
- Tutti i brutti pensieri se ne vanno da noi appena apriamo gli occhi... - , ce lo diceva sempre il babbo quando eravamo piccole, e noi gli credevamo.
Quanto vorrei che fosse stato solo un brutto sogno, scrissi una sera nel grande diario rilegato.
Segnai quella frase sulla terza pagina, sotto la data del dodici luglio, prima di mettermi la maglietta per andare a dormire.
Poi salutai Mad e mi eclissai nel letto.

Fiore Forti

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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