La leggenda sulle origini della Sicilia narra delle tre ninfe che andavano in giro per il mondo danzando e raccogliendo i doni più belli che la natura offriva loro. Ammaliate dal mare azzurro e dal cielo limpido del Mediterraneo, si fermarono a danzare in circolo facendo cadere tutto ciò che avevano raccolto. Diedero, così, origine ai tre promontori siciliani ( Capo Peloro a Nord-Est, Capo Passero a Sud-Est e Capo Lilibeo a Ovest). Mi piace immaginare che la ninfa posta a Nord-Est avesse sparso la terra migliore, dando vita alla splendida e maestosa catena montuosa dei Nebrodi (dal greco nebròs “cerbiatto”). Sicuramente la terra fu prelevata dalla Foresta Nera e dalle Alpi Svizzere perché di quegli ambienti ne assunse tutte le caratteristiche: fittissime foreste di faggi e querce, deliziosi laghetti alpini e sorgenti d'acqua purissima. Aggiunse, poi, un tocco di magia facendo abitare quei monti da cavalli allo stato brado e suini neri autoctoni, tutti liberi di pascolare tra i boschi. Così un visitatore, come una sorpresa dietro l'angolo, intravede cavalli o suini neri che non scappano alla sua vista, ma lo guardano con indifferenza quasi a considerarlo parte integrante dell'ambiente circostante. Ci si ritrova, senza rendersene conto, proiettati fuori dal tempo. In una dimensione che riecheggia il regno mitologico degli unicorni o quello della maga Circe con i suoi porci addomesticati. Richiama alla mente Diana, dea della caccia e signora incontrastata di quei boschi incontaminati, accompagnata dal suo fedele cerbiatto. Ci si aspetta pertanto, con recondita speranza, l'apparizione improvvisa di un elfo, uno gnomo o una fata che dia il benvenuto in quei luoghi di serenità e pace. Questa atmosfera onirica fa sì che quei posti siano meta di moltissimi cercatori di funghi e vacanzieri. Alle pendici di questo mondo fantastico, sorge, arroccato, il paese dove sono nato. Anch'esso sembra fuori dal tempo e uscito dalla mitologia, presentandosi come un antico borgo non ancora contaminato dalla frenesia della vita moderna. Tanto piccolo da sembrare essere stato prelevato da un presepe per essere incastonato su quelle montagne. La natura, poi, lo ha dotato di doni meravigliosi: a monte le splendide foreste; a valle, essendo l'economia locale in prevalenza basata sulla pastorizia e l'agricoltura, immensi prati dedicati al pascolo e campi coltivati a grano o a legumi. Distese che scivolano lentamente giù in fondo fino allo scorrere lento del fiume Troina. A cornice di questo immenso panorama, svetta su tutto la spettacolare visione dell'Etna. Per arrivarci bisogna percorrere una strada così tortuosa da far venire il capogiro a chiunque non è abituato agli innumerevoli tornanti e spesso in inverno si è costretti a deviare su fondi naturali perché interrotta da frane. Ma la fatica fatta viene abbondantemente compensata dalla visita del paese. Le strette viuzze sono lastricate in pietra oramai consumata dall'usura, con erba spontanea nelle intercapedini, e interrotte ogni tanto da larghe scalinate che ne addolciscono la ripidità. Esse riportano molto indietro nel tempo raccontando la quotidiana fatica dei contadini e delle bestie da soma che le hanno percorse al ritorno dai campi. Da entrambi i lati sono contornate da una processione di case basse, costruite in pietra arenaria a vista, che testimoniano la povertà e la dignità dei proprietari. Le porte di ogni casa, in legno massello e abitate fin dall'inizio dai tarli, non sono mai chiuse, ma accostate a testimonianza di una grande fiducia nel prossimo. Ogni casa è affiancata dalla stalla per il ricovero notturno delle bestie da soma, considerate parte integrante della famiglia. Queste viuzze laterali confluiscono tutte sulla strada principale e centro del paese dove, un tempo, si svolgeva la vita di società. Vita che consisteva nel percorrere a passeggio per decine e decine di volte quella strada a discutere di futilità con gli amici che incontravi o seduti davanti alla porta del bar a commentare sui passanti. La strada principale era anche il centro commerciale del paese, concentrando la maggior parte dei negozi necessari alla sopravvivenza degli abitanti. Trovavi, infatti, negozi di generi alimentari, di scarpe, di abbigliamento, panifici e macellai che esponevano ognuno i propri prodotti. I macellai, in particolare, mettevano in mostra, con orgoglio, i prodotti derivanti dalla pregiata carne dei suini neri. C'erano, inoltre, anche le botteghe artigiane oramai desuete. Quali fabbri, maniscalchi, costantemente impegnati a ferrare le bestie da soma (cavalli, asini e muli), falegnami, sellai e perfino quelli esperti nella cucitura di sandali per la campagna, chiamati “zampitti”, e che venivano ricavati dalle gomme usurate delle auto. Tutte attività che oggi si vedono rappresentate solamente nei presepi. Il paese era abitato da qualche migliaio di anime e ognuno conosceva tutto di tutti. Non tanto per amicizia o per conoscenza quanto perché, combinando matrimoni tra di loro (era consuetudine sposarsi tra compaesani e la persona “intrusa” veniva considerata straniera), con il passar del tempo si erano imparentati tra loro diventando cugini, parenti o parenti di parenti. Pertanto, quella non era una semplice amicizia, ma un rispetto di parentela anche se alla lontana. Succedeva, così, che qualunque cosa si lasciasse e ovunque la si lasciasse nessuno osava toccarla perché tutti sapevano di chi era e perché era lì. Una vita così tranquilla comportava, però, che ognuno di noi era sotto il controllo di tutti e non si poteva uscire dagli schemi imposti dalla comunità. Si era sottoposti di continuo alle critiche o alle approvazioni (rare per la verità) degli altri e se si faceva qualcosa di diverso si era additati alla stessa stregua di uno marchiato con la lettera scarlatta. Si era figli di tutti da bambini e genitore di tutti da grandi, potendo riprendere o elogiare anche chi non faceva parte del nucleo familiare stretto perché considerato comunque un parente e, pertanto, diventava un dovere morale intervenire o, se era il caso, riportare le manchevolezze ai rispettivi genitori. Quando si doveva parlare o, ancora meglio, sparlare di una persona, non si usava il nome o il cognome, ma la si indicava con il soprannome perché molto più semplice per individuarla. L'usanza di mettere ai figli i nomi dei nonni e i matrimoni tra parenti stretti aveva fatto sì che ci fossero molte persone con lo stesso nome e cognome. Nella mia famiglia eravamo in tre a portare il nome Pietro, io e altri due miei cugini, e per non confondersi ci chiamavano come Pietro il grande, Pietro il piccolo e Pietro “u minzanu” (il medio) che ero io. Il soprannome, perciò, era indispensabile e derivava in genere dall'attività o dal mestiere esercitato; spesso anche da una malformazione o un difetto fisico conosciuto da tutti, pertanto, era univoco. Il paese era composto da adulti, bambini e vecchi che condividevano sofferenze, allegrie e pianti rispecchiando la mentalità di gente abituata ad aiutarsi l'un l'altro sia nella vita lavorativa sia in quella sentimentale, senza nulla a pretendere in cambio. L'ozio forzato, a causa dal raggiungimento della terza età, costringeva i vecchietti, in grado di muoversi, a radunarsi in piazza, nel bar o al circolo dove si giocava a carte o si rievocavano le imprese romanzate vissute in gioventù. Le vecchiette, invece, stavano a guardia di tutto il paese sedendosi, nelle belle giornate di sole, davanti alla soglia di casa a lavorare a maglia e a recitare il rosario, regolarmente sovrapposto con battute da cortile o commenti sui passanti. La religione, a quei tempi, faceva parte della vita quotidiana. Si sentiva l'obbligo di andare a messa, di partecipare a tutti i riti religiosi, di accompagnare i santi in processione e di aderire almeno a una delle tante confraternite religiose identificative della corporazione di appartenenza. Credendo molto sia ai miracoli sia agli eventi soprannaturali, inoltre, erano molte le cose impregnate di mistero e di magia che si insinuavano nella fede religiosa. Proliferavano, infatti, le edicole votive dentro e fuori il paese spesso mescolate a talismani come il ferro di cavallo, il corno o la treccia di aglio. In inverno, le stesse vecchiette stavano sedute dietro la finestra a criticare chiunque passasse e a commentare, sempre vigili, qualunque cosa di strano succedesse in paese. Quelle facce scavate dal tempo e dalla fatica, attaccate dietro i vetri delle finestre, erano dei quadri inquietanti per tutti coloro che passavano. Sembrava chiedessero perché passavi, dove andavi, cosa stavi facendo e non potevi evitarli qualunque strada avessi deciso di percorrere, perché in ogni strada c'era almeno una finestra che ti interrogava e ti metteva enorme disagio addosso. Quando qualcuno dei passanti mancava l'appuntamento per più giorni, per loro era motivo di apprensione e preoccupazione e, con sollecitudine, cercavano di informarsi presso i vicini sulla sua sorte. A nessuno passava per la mente che questo insistente guardar fuori a criticare coloro che transitavano da quella strada serviva essenzialmente a rivivere la loro gioventù, a ricordare le loro bravate e a continuare a vivere attraverso la vita dei passanti, soprattutto se giovani. Altrimenti, quello che noi tutti pensavamo fosse morbosa curiosità, che suscitava disprezzo e disgusto, avrebbe destato compassione e tenerezza.
Pietro Zingale
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|