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Autore: Cristina Romanelli
Quando faceva drin
Contemporaneo Giallo
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Quando faceva drin
A una certa età si comincia a perdere colpi. Passati i cinquanta mi dimentico tutto, perdo pezzi in giro. E sono sempre in ritardo.
- Oh eccoti, ciao cara. -
Viola entra nella piccola sala riunioni pulendosi le mani sul grembiule. Sta lavorando da prima dell'alba. L'orologio segna le 9 e 12 ma lei non me lo fa notare. Del resto, Rosa non c'è ancora. Un'altra che con l'età perde colpi, sempre stralunata e distratta; ma è una venditrice in gamba, di fatto è lei che manda avanti la baracca.
All'inizio avevamo pensato di chiamarlo proprio così, ‘La Baracca', il nostro piccolo laboratorio di pasticceria. Sono passati quasi trent'anni da quando lo abbiamo aperto, io e le mie due socie. Avevamo un solo telefono, grigio, che faceva drin, e scrivevamo le lettere con la macchina da scrivere, finendo con saluti cordiali o distinti.
Un altro mondo. Però certe cose non sono cambiate: oggi come allora sforniamo brioche e dolci freschissimi, tutti fatti a mano, con ingredienti genuini e quasi tutti bio.
Rispetto agli inizi abbiamo un catalogo più ricco, con vari tipi di croissant, muffin, dolcetti vari e una discreta varietà di torte, che consegniamo freschi ogni giorno ai migliori bar e ristoranti della città.
Anche i ruoli non sono cambiati.
Chi se non Viola potrebbe occuparsi della produzione? Adesso ha tre lavoranti, ma le decisioni le prende tutte lei. È sempre stata bravissima con la pasticceria, una vera artista.
- La stordita non è ancora arrivata? - chiedo.
- Non c'è problema, le consegne sono partite e le ho già preparato il giro. Ho messo anche le tue buste nei pacchi. -
Viola si occupa di tutto, in laboratorio: dagli acquisti delle materie prime alla manutenzione dei forni, dei frigo e dei pochi macchinari. La sera le stampo l'elenco degli ordini e la mattina presto la sua squadra di elfi materializza sul bancone di marmo decine di pacchi tiepidi e profumati.
E qui entra in gioco Rosa.
- Eccomi, scusate il ritardo! Mi sa che devo correre, stamattina. -
Viola la saluta con un bacio veloce. - Senti, al Baietta i biscotti li porti tu, già che ci devi andare, un pacco è omaggio. E ricordati quella trattoria, c'è il contratto da firmare e anche un assaggio misto di torte. -
- E poi? Ho già l'agenda fitta, e checcazz! -
Rosa coordina il gruppo delle consegne e si reca nei locali più importanti, anche per proporre nuovi prodotti. Come responsabile delle vendite, oltre a verificare la soddisfazione dei clienti deve trovarne sempre di nuovi, così passa metà della giornata al telefono a organizzare appuntamenti e l'altra metà a convincere i potenziali acquirenti che dei nostri dolci non si può fare a meno.
- Tutto a posto, Marghe? Pagano? -
- Come no, mi svegliano di notte per chiedermi l'IBAN! -
- Bisogna avere pazienza - sospira Viola. - C'è la crisi. L'importante è avere un buon giro, poi i soldi quando arrivano... arrivano. -
- Basta che arrivino. A proposito, al pomeriggio vanno portati gli stuzzichini salati dal Giorgio, sai quell'aperitivo col karaoke? -
- Sì, Rosa, tranquilla, tutto a posto. -
- Pure i salati facciamo, adesso - intervengo - non bastava il cacca design? -
Ridono.
- Cosa vuoi - risponde Rosa - il cake design va di moda... per le spose megalomani e per le mamme di piccoli mostri viziati quelle torte sono irrinunciabili. -
- Mostruose installazioni commestibili - faccio, imitando la voce di Fantozzi.
Ultimamente Rosa ha cominciato a chiedere pizzette e salatini, e si è pure inventata le forniture per i buffet: così a Rosa tocca anche creare eccentriche sculture mignon.
Quando abbiamo iniziato le cose andavano bene, lavoravamo sodo ma, una volta pagate tutte le spese, riuscivamo a riconoscerci dei discreti stipendi e addirittura ad accantonare qualche briciola. Negli anni l'attività è andata in calando, soprattutto dopo l'invenzione delle brioche surgelate e delle torte industriali, più economiche. Con la crisi è sempre più difficile sopravvivere: molti clienti chiudono, altri devono rinunciare alla qualità per contenere i costi. E quindi ci inventiamo la qualunque per stare a galla: sito internet, volantini, telemarketing, apertura ai clienti privati e alle piccole comunità.
Si tira avanti con fatica e spesso si chiude l'anno in perdita, ma continuiamo, per mancanza di alternative: ad andare in pensione manca un'era geologica e trovare un altro lavoro alla nostra età è una missione impossibile. Poi ci sono altri due ottimi motivi.
Il primo è che amiamo la nostra attività e la svolgeremmo anche gratis. Il secondo è che potremmo smettere di lavorare, perché di recente siamo diventate ricche ma, un po' per abitudine e un po' per scelta, continuiamo a vivere come prima, cioè come ci piace.

- Va bene, posso andare? - dice Rosa alla fine della breve riunione. - E vai pure tu a riposarti un po', Violetta. -
- See, riposare. Con casa, marito e figlio a cui badare... io mi riposo qui! -
Rosa si mette il giaccone. Fruga freneticamente nella borsa, poi si palpa tutte le tasche. Fa una faccia prima stupita, poi incazzata, poi a metà fra desolata e implorante, e mi guarda con gli occhi da Bambi.
Fra noi basta il linguaggio del corpo: lo sapevo. La stordita ha lasciato a casa lo smartphone e non può neanche pensare di affrontare una giornata di lavoro senza la sua badante telematica. Così a chi toccherà andare a recuperarlo? Ma a me, naturalmente. Ora, da perfetto maggiordomo, dovrò saltare in macchina per andare a casa della signora, raccattare il telefono e portarglielo in un bar, magari dall'altra parte della città; lei me lo prenderà di mano senza neanche dirmi grazie e correrà dal prossimo cliente.
- Ho capito, Rosa, va': hai dimenticato a casa il telefonino. -
- Ma porc... veramente mi sto rimbecillendo! Ero sicura di averlo preso... Non posso fare senza, e non ce la faccio a tornare a casa. Senti, facciamo così: io fra un'oretta passo al bar di Fabio... -
- Sì, ho capito, accidenti a te! Vado a prenderlo e te lo porto lì, così continui il giro. -
- Grazie Margy! In fondo tu non hai urgenze, no? -
La fulmino con lo sguardo.
No, non ho niente da fare, io. Sono solo la responsabile amministrativa, nonché segretaria, contabile e fattorino. Una cosuccia da niente, devo solo far funzionare l'ambaradan. Le mie mansioni sono varie, dal convincere il direttore della banca ad abbassarci le commissioni al pagare in posta le multe che Rosa riesce a collezionare, alla media di una cinquantina all'anno.
Ma almeno non mi sveglio nel cuore della notte e nemmeno all'alba, e in fondo oggi non ho urgenze.
Corro al parcheggio, Rosa come sempre mi dà i minuti contati. Per fortuna ho comprato una macchina blu elettrico, così la vedo subito anche quando mi dimentico dove l'ho lasciata. Faccio due conti a mente: da qui a casa di Rosa, col casino che c'è a quest'ora, quaranta minuti.
Anche se adesso mi tocca fare il Camel Trophy, sono contenta che abiti ancora a Boscochiaro, sono affezionata a quel sobborgo. Ci sono nata e ci ho vissuto una parte della mia vita. Rosa e Viola c'erano già e le conosco da sempre, perché oltre a essere socie e amiche siamo sorelle.
Rosa è la prima nata: deve il suo nome a una madre appassionata di fiori e a un padre poco incline alle discussioni. L'anno dopo viene al mondo Viola, con disappunto della mamma che desiderava Giacinto. L'erede maschio non arriva nemmeno l'anno successivo, perché nasco io, Margherita. L'accoglienza non è un granché: alla notizia di aver generato la terza femmina mia madre sviene, proprio come Emma Bovary alla vista della piccola Berthe, e mio padre se ne va imprecando. Giacinto non è mai nato, per timore di entrambi che potesse essere una Iris.
Questa leggenda metropolitana circola da sempre, la mamma ce la raccontava fin da piccole, ridendo. Non a caso, ogni tanto, le mie sorelle mi chiamano Giacinto.
Siamo cresciute con due genitori del ceto medio, di cultura media, mediamente affiatati; padre piuttosto assente e madre anche troppo presente, come nelle migliori famiglie. Una vita abbastanza serena, con alti e bassi e le ordinarie discussioni. E siamo sempre state molto unite.

Finalmente arrivo a Boscochiaro e, come ogni volta, mi piange il cuore nel vedere quella sfilza di casermoni dove, quando ero bambina, prosperava la macchia di faggi e betulle che ha dato il nome al paese.
Non ci torno spesso e ogni volta trovo il paesaggio un po' cambiato, ma rispetto a quando ci vivevo è addirittura irriconoscibile. L'urbanizzazione selvaggia ha colpito anche qui, dove c'erano prati e campi ora ci sono orrendi palazzoni, oltre ai classici centri commerciali pulsanti di vita, puzza di nafta e frastuono.
Passo davanti a quella che era la mia casa, ultima di una fila di bassi edifici tutti uguali. Quand'ero bambina sull'altro lato della strada c'era un fosso e appena oltre una cascina con le mucche e i maiali; la puzza di letame che stagnava nell'aria toglieva ogni romanticismo all'insieme. A sinistra c'era una stradina in mezzo ai prati, che portava nel centro del paese, alla fermata dell'autobus; dietro la casa un campo di mais bellissimo che custodiva molti dei miei ricordi.
Oggi tutto questo non c'è più, solo asfalto e cemento. Palazzi, due banche, un kebabbaro, un cinese, un finto giapponese, un bar, una pizzeria e uffici. Ora come allora, comprare il pane o un paio di calze vicino a casa è fuori discussione.
Costeggio un ampio spazio recintato, un cantiere: mi sforzo di ricordare cosa ci fosse prima, e quasi mi commuovo. Proprio lì, alla fine degli anni '70 c'era il mitico cinema all'aperto, ritrovo estivo di tutti i giovani della zona: veniva utilizzato come cineforum e proiettavano quasi solo retrospettive sul ‘cinema d'autore'. Allora quindicenne, ogni giovedì sera mi sorbivo film impegnati di cui non capivo nulla, spesso col sottofondo del tipico rumore di motosega di qualcuno cullato da Morfeo, con l'immancabile spiegone finale e il dibattito, a cui partecipavano sempre i soliti tre sfigati.

Il più delle volte era una barba tale che a metà film me la svignavo, insieme ad altri. Non che ci fosse molto da fare, lì intorno: solo prati e un muretto dove ci sedevamo a chiacchierare. Sempre meglio di Wajda e Jodorowsky.
I ricordi mi piombano addosso impetuosi, pezzi di quel piccolo mondo in cui tutto era possibile perché c'era una vita davanti, un futuro da costruire.

Cristina Romanelli

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