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Autore: Ilenia Bisicchia
Girasoli all'ombra
Autobiografia
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Girasoli all'ombra
Abbasso lo stereo, mi guardo intorno. Per una deviazione sono finita sulla stessa strada che cerco di evitare da quando lì mio padre, per l'ultima volta ha emesso il suo respiro. Volto la testa a sinistra, poco più avanti sul marciapiede c'è ancora la piccola croce in legno che qualcuno ha intagliato per lui. Mi hanno sempre fatto un po' impressione i fiori sui pali della strada eppure, quando ho avuto bisogno di sentire che mio padre ci fosse ancora sotto qualche forma astratta, sono sempre andata anche io in quel posto che lo ha visto vivo per l'ultima volta. Accosto l'auto, sono indecisa se scendere e sentire quel dolore allo stomaco sordo e fatto di rimorsi, con cui la mia mente mi tartassa quando abbasso la guardia. Appoggio la testa allo schienale, poggio una mano sul sedile laterale e fisso per qualche istante il vuoto. Prendo il girasole che decora il parabrezza della mia auto, uno di quei fiori finti che dà allegria all'abitacolo, e poi scendo.
Oggi fa caldo, caldissimo, come quel giorno in cui lui è andato via. Qualche anno fa, una vita fatta di scelte sbagliate e l'afa di un giugno arrivato prepotentemente, hanno frantumato il suo cuore. Frantumato, esattamente così mi hanno detto in ospedale. Se avessi potuto, in quell'istante avrei tenuto le mie mani salde al suo petto affinché rimanesse intatto ancora per un po', giusto il tempo di dire tutte quelle cose che forse non ero mai riuscita a dirgli. Siamo esseri strani, contenitori di parole che non svuotiamo pensando di avere tempo per farlo e che poi ci rimbombano dentro per sempre, sbattendo a destra e sinistra, colpendo quegli angoli di cuore diventati acciaio per autodifesa, nello stesso istante in cui non ci è più concesso dirle a chi avremmo voluto. Mi è sembrato di sentire il rumore dell'ultimo granello di sabbia di una clessidra posarsi sul fondo, quando una voce sconosciuta al telefono mi ha detto: - Sono costernato, non trova suo padre tra i nomi dei ricoverati perché è deceduto - . Pochi minuti dopo, un carro funebre faceva il suo ingresso in ospedale: lo vidi arrivare, abbassando lentamente il mio telefono dall'orecchio al cuore. Mi accasciai senza forze: la vita mi aveva appena colpita irreversibilmente e senza alcun motivo. In fondo alla strada, il volto di mia mamma e di mio fratello increduli: per un attimo, per l'ultima volta, eravamo nuovamente tutti e quattro nello stesso posto, nonostante papà fosse ormai altrove.
Sistemo il mio girasole intorno alla piccola croce: ha il gambo di plastica morbido, si adatta alla perfezione e sembra dare nuova luce a un posto in cui ha preso spazio il buio. Il mio non è l'unico fiore a essere lì: ce ne sono diversi ma sono tutti freschi, curati. Qualcuno che non conosco si prende ogni giorno la briga, dopo tanti anni, di portargli un pensiero. Credo si tratti di una donna, un qualche amore che mio padre non ci ha mai confessato, data la sua paura che io e mio fratello potessimo pensare di essere sostituiti o forse, per mantenere la sua immagine fragile di cui mi prendevo cura per rafforzarla. Negli ultimi anni, io ero diventata genitore e lui figlio, un'inversione di ruoli che colmava da parte di entrambi le nostre mancanze. Lo chiamavo per sapere se fosse rientrato in casa, se avesse mangiato, se avesse cibo a sufficienza. A volte mi diceva di stare tranquilla, altre volte, con la voce rotta dalle lacrime, mi liquidava in pochi minuti lasciandomi in pensiero tutta la sera. Mio padre quando soffriva diventava un muro, si chiudeva, non si sentiva, non ti lasciava entrare negli spazi di quella sua anima che immaginavo avesse gli angoli con l'intonaco cadente come le vecchie case, quelle che ti riservi un giorno di sistemare ma poi non ci riesci mai. Per questo, spesso, con una scusa salutavo i miei amici, dirigendomi a fare lunghe ronde sotto la sua finestra, per essere certa che la sua macchina fosse a casa. Questo non mi permetteva comunque di sapere cosa gli passasse per la testa, ma mi sedava il cuore accelerato quando lo immaginavo rabbioso e ubriaco alla guida della sua auto.
Metto un bacio tra le mani e poi ne accarezzo la foto, percorro lentamente i passi che mi dividono dalla mia macchina, lasciando che un'apprezzata folata di vento mi restituisca il respiro, mentre mi scompiglia i capelli coprendomi il volto. Oggi è uno di quei giorni in cui gli telefonerei, gli chiederei come sta, se ha idea di quante cose siano cambiate nella mia vita da quando lui non c'è più. Gli chiederei se è orgoglioso dei miei passi, se ogni tanto mi vede ballare da sola nei miei giorni migliori, se mi guarda stringere un cuscino sulla faccia in quelli peggiori.
- Chissà cosa diresti, se sapessi cosa ne è stato della mia vita come tu l'hai lasciata. Magari saresti fiero, magari no. Se hai visto quanto è successo, e sai che non ho avuto paura di scegliere la felicità, allora so che sei stato dalla mia parte - .
Scegliere la felicità. Lo ripeto a me stessa come fosse un mantra. Da qualche tempo, non riesco più a fare a meno di seguire questa regola. Dovrei perfezionare il tiro, per non lasciare venga intaccato dal mio contraddistinto impulso... Che poi, fosse quello il mio unico problema. Ariete di aprile, ascendente Scorpione, centoventi idee al secondo di cui ne porterò a termine circa due in un mese. Senso innato di ribellione, pessimista che si finge ottimista per far credere all'universo di aver compreso le regole della legge dell'attrazione. Aggiro il Karma fingendomi tranquilla quando ho l'anima in rivolta, sono una disordinata che ama follemente l'ordine che non esiste in nessun ambito della mia vita, tanto meno nell'armadio. Inizio diete ogni lunedì mattina di cui mi dimenticherò ogni lunedì sera, ordino sempre il doppio delle portate di sushi che riuscirei effettivamente a mangiare: questo perché faccio fatica a farmi guidare dalla ragione, soprattutto quando ho fame. Ho imparato solo lo scorso anno che sulle scale mobili si stia sulla destra per far passare quelli che hanno fretta: a mia discolpa posso dire che non lo sapevo, perché ero dalla parte di quelli di corsa. Un mezzo casino con la frangetta, senza dare la colpa né a Marte né a Saturno.
Non è sempre stato facile intuire la strada della felicità: chi mi ha aiutata più di tutti a intraprenderla è sempre stata mia madre. Ho sempre avuto una stima spropositata nei suoi confronti e non solo nel rispetto del suo ruolo di mamma, soprattutto nel ruolo di donna. Non ricordo un momento della mia vita in cui io non abbia desiderato essere come lei, a eccezione di quella volta che rimase in coda un quarto d'ora dietro a una fila di automobili parcheggiate. Mia madre è una di quelle donne che chiunque la incontri, dopo pochi minuti, viene conquistato: da lei, dalla sua forza, dal suo ottimismo, dal suo saper dispensare il consiglio giusto al momento giusto, dalla sua innata dote di saper strappare una risata anche alla persona più affranta del pianeta. Si erge sui suoi tacchi alti e dalla sua bocca, contornata di un rossetto sempre intonato all'outfit, escono insegnamenti saggi e frasi motivazionali pronti a essere balsamo per le ferite del fortunato interlocutore.
- Beata te che sei sempre così positiva - : ho perso il conto delle volte in cui le abbiano spiattellato in faccia questa frase.
Eppure, se la maggior parte delle persone che dice queste frasi potesse vedere un trailer del passato di mia mamma, probabilmente smetterebbe di fare tragedia della propria unghia spezzata a metà o magari no, perché all'essere umano medio piace piangersi addosso in ogni caso. In realtà mia madre la felicità l'ha costruita, piano piano, con non poca fatica, anche quando sembrava non volersi palesare. Ha scavato con le mani nella terra di quel suolo in cui si trovava accasciata e, come fosse una ruspa, è arrivata imperterrita fino a quel diamante nascosto che potesse dare nuova luce a tutto. Tutto quello che siamo ora lo devo a lei: una famiglia felice che ride intorno a un tavolo, la calma del salotto della mia casa, il timore inesistente. Il profumo di ammorbidente che si mischia con l'odore dell'arrosto nel forno, creando il vero e reale profumo di una casa vissuta. Le canzoni improvvisate davanti a una scopa, i discorsi futili che per fortuna hanno sostituito quelli sempre troppo pesanti da sostenere.
Lo zerbino all'entrata recita: “Vietato entrare di cattivo umore” ed è una regola imprescindibile di questa casa, qui non c'è più spazio per la tristezza o per lamentele inutili. Qui, una volta chiusa la porta, abbiamo come unico scopo quello di sentirci al sicuro e felici nel nostro posto nel mondo: cento metri quadri di un appartamento in cui non manca niente, neanche la visuale perfetta sul tramonto. Eppure, tanti anni fa, non eravamo sereni e neanche lontanamente tranquilli: ciò che ci teneva in piedi era il sottofondo di ottimismo con il quale mia mamma cercava di crescerci nel migliore dei modi, destreggiandosi tra le difficoltà di un frigo sempre vuoto, di bollette salate e di un ex marito che, non rassegnandosi alla fine della nostra unione famigliare, dava vita a veri e propri episodi di stalking e insulti continui. In realtà l'unione che reclamava mio padre non è mai esistita, se non in un tempo lontanissimo di cui ormai ricordo poco e niente. Mi sono sempre chiesta perché ci ostiniamo a rimpiangere le cose solo una volta perdute, quando non c'è più possibilità di recupero. Sono arrivata alla conclusione che i ricordi mentono e ciò che nel presente ci sembra una realtà pesante, una volta persa la ricordiamo solo sotto i punti di vista migliori.
Quando ero piccola ho sempre desiderato che la mia famiglia fosse unita come quella dei miei compagni di scuola: un padre con una bella auto grossa, sorridente dentro a una camicia. Una madre con le unghie curate che avesse la possibilità di venire a prendermi all'uscita e che parlasse con le altre mamme di quanto potesse essere più adatto il corso di ippica o quello di danza classica. Un cane magari, una villetta in cui fare i compiti riparata sotto a un portico, la merenda e i giochi nella mia cameretta. Era quello l'ideale della mia famiglia perfetta di cui in realtà più che gli averi, avrei voluto la tranquillità che sembravano emanare. Ho scoperto con gli anni che la maggior parte di quelle famiglie fossero solo un bel quadro da mostrare all'esterno ma che dentro casa, forse c'era una piscina ma non la serenità che credessi io.
Quando ho deciso di scrivere questo libro, ho preso coscienza che dovessi tirare fuori a ogni costo il mio passato. Scavare i dettagli, ricreare l'immagine di mio padre che tornava barcollante la sera, tornare a sentire il dolore delle lacrime di mia madre, immaginare quanta fatica abbia fatto per crescerci nascondendo il timore. Ricordare nel dettaglio la paura che più volte ci ha costretti a scappare di casa, in quelle lunghe corse su distese di asfalto senza meta, in cui mi perdevo a guardare le luci delle case che contornavano l'autostrada. Mi faceva sentire tranquilla immaginare che non fossimo soli in quel buio pesto colmo di terrore e pianti. Raccogliere ancora le parole terribili che ho sentito uscire dalla bocca di mio padre, che ho tagliuzzato e ricomposto per crearci nuove frasi, sentire di nuovo il peso di non saper difendere mio fratello da ciò che feriva anche me. Per questo ho sempre rimandato il momento in cui di fronte a un computer avrei dovuto vomitare tutto quello che ha inciso sulle nostre vite, come volessi sempre aspettare ancora un po' per ritornarci dentro. Poi mi sono seduta e mi sono chiesta per quale motivo io dovessi necessariamente ritornare al passato. Mi sono guardata allo specchio ed ho pensato che tutti quei ricordi lontani non abbiano più bisogno di essere menzionati. Sono nascosti da qualche parte che riaccende in me paranoie e punti deboli, ma non sono più qui, non fanno più parte della mia esistenza e neanche di quella della mia famiglia. Mamma dice sempre: - Qui e ora - . Lo fa per dirmi che il passato è passato e il futuro ancora deve arrivare: c'è solo il presente a cui dar conto, qui e ora.

Ilenia Bisicchia

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