Mia madre aveva allontanato da casa noi bambini, con una scusa, mandandoci da zia Cettina, mentre mia nonna moriva, lo capii solo dopo, quando era ormai tardi. Ci venne a prendere zio Tore con lo sciaraballe. Seduta sul largo sedile di legno dondolavo, al ritmo del trotto del cavallo che tirava il calesse, sotto la guida dello zio e mi chiedevo come mai stavamo andando alla fattoria a quell'ora e con i compiti ancora da fare. Trascorremmo tutto il giorno a giocare con Enrica. La gioia di stare in quel luogo che amavo, non mi impedì di notare qualcosa di strano e di triste sui volti degli zii. Era successo qualcosa che non volevano dirci e sentivo nel cuore un'immensa agitazione. Tentai di fare qualche domanda in proposito, ma in risposta ebbi solo teste basse e silenzio, per cui cominciai a temere il peggio per mia nonna. Quando tornammo a casa c'era un silenzio irreale e le stanze sembravano vuote. I miei genitori e mio nonno sembravano statue senza vita, solo mia madre ci venne incontro e ci abbracciò. Nonna Diletta non c'era più. - Nonna dove sei? - mormorai tra le lacrime. - Sei andata via senza darmi neanche un bacio. - Amavo molto mia nonna e sentivo molto la sua mancanza. Per la prima volta capii che la morte ci separa dai nostri cari: non li avremmo rivisti mai più. Quando muore una persona che si ama, muore una parte di noi, un pezzo della nostra vita vissuta insieme, resta un vuoto da riempire e non sempre ci si riesce. Guardavo mio padre, pallido, addolorato per la perdita della madre, si stringeva con le mani lo stomaco in preda a forti spasimi. Nonno Fernando non aveva più quell'aspetto arcigno, ma esprimeva impotenza e aveva l'aria di un capitano incapace di reggere il timone della sua nave. Si chiuse in un mutismo estenuante. Da allora non ebbe più il coraggio di darci i dolcetti come faceva nonna, anche se adesso li meritavamo. Era come se la dolcezza avesse perso per lui ogni significato. Mia madre cercava di farci riprendere il ritmo normale della quotidianità, ma era complicato per tutti: avevamo perso una parte di noi. Per un'usanza che non sarei mai riuscita a capire, né a condividere, quando moriva qualcuno i parenti prossimi e i vicini di casa portavano per alcuni giorni il cosiddetto “cuonsolo” che consisteva in un ricchissimo pranzo di conforto, offerto alla famiglia del defunto. Vedevo attorno a me cibi che in un altro momento mi sarebbero sembrati appetitosi, ma che adesso trovavo esageratamente deprimenti. L'unica cosa positiva, di questi pranzi comunitari, era che stavamo insieme alle persone che sicuramente ci volevano bene e dimostravano in ogni modo il loro affetto, ma nulla avrebbe potuto distrarmi dal dolore sordo che provavo per la mancanza di mia nonna. Cercavo in ogni stanza tracce di lei, volevo gelosamente custodire qualcosa chi avrebbe ricordato, sempre, quanto era stata preziosa per la mia vita. Un giorno salii la scalinata nel cortile ed entrai a casa dei nonni. Mi intrufolai nel soggiorno, sul tavolo c'erano libri aperti e nonno Fernando intento a leggere. Mi fece un breve cenno poi continuò a sfogliare il suo libro, era abituato alle mie intrusioni in casa ed ero sicura che gli facesse piacere avermi intorno, anche se non lo diceva. In uno scaffale della libreria vidi l'album delle foto di famiglia che spesso guardavo insieme alla nonna. Chiesi al nonno il permesso di poter prendere una foto di nonna, Diletta, da poter tenere sempre con me. - Fai pure, Rosetta, tua nonna ne sarebbe contenta. - Sfogliai le vecchie foto in bianco e nero e ne trovai una in cui eravamo in gruppo: c'era mamma che non aveva fatto in tempo a togliere il grembiule da cucina e lei che sorrideva con la sua dentiera nuova, noi bambini le circondavamo: eravamo ai lati e seduti per terra. C'eravamo tutti: io, Nadia, Nando, Chicco, Stella, Paolino, Angelina ed Enrica. “Questa la tengo io pensai” e continuai a sfogliare l'album. Trovai una foto che mi piaceva in modo particolare. Era stata scattata da zia Cettina un giorno in cui andammo alle acque termali e c'era anche Enrica. La nonna indossava un vestito a fiori, io un abitino di cotone rosa senza maniche. Al mio paese, vi era una zona a carattere termale, i cosiddetti “bagni” consistevano in vasche naturali in cui sorgeva l'acqua sulfurea. Attorno ad esse era state costruite delle cabine, fatte con le canne e la cui porta era una semplice tenda di stoffa. Erano custodite da un guardiano, che per poche lire faceva accedere al bagno; non mancavano le vasche a cielo aperto accessibili a tutti. Un odore penetrante si diffondeva nell'aria, in tutti i dintorni, io mi tappavo il naso perché sembrava puzza di uova marce. La nonna non aveva il costume, faceva il bagno con la sottoveste che in acqua si gonfiava e poi le si appiccicava addosso. Io ed Enrica ridevamo giocando e ci guardavamo intorno curiose per quello strano bagno da poter fare in comune. L' acqua era calda e di un colore lattiginoso, gorgogliava dentro la vasca, la nonna mi prendeva in braccio nei punti in cui non riuscivo a toccare il fondo perché il livello dell'acqua era alto. Era scivoloso sotto i piedi e avevo quasi l'impressione che quelle pietre sul fondo mi facessero il solletico. Dopo fatto il bagno ci asciugammo e indossavamo abiti asciutti, nonostante l'odore poco piacevole dopo si provava una gradevole sensazione, la pelle diventava liscia come seta. Quando uscimmo dalla cabina, si vedeva tutta la vallata sotto di noi e i campi distesi al sole, compresa la fattoria. La zia ci scattò una foto accanto a un albero. Divenni triste d'un tratto, avevo tra le mani quel ricordo, ma mia nonna non c'era più. Gli occhi cominciarono a inumidirsi, decisi allora di scendere, mentre un groppo mi stringeva la gola. Richiusi dietro me la porta d'ingresso. Stavo per scendere il primo gradino, ma, non so come, inciampai e caddi con un tonfo nel bel mezzo del cortile. Tutti accorsero, gridando: - Rosetta! Rosetta! - Mia madre mi prese tra le braccia: avevo presi i sensi. Mio padre controllò che non avessi nulla di rotto, mentre il nonno, che era accorso, mi guardava imbambolato. Quando riaprii gli occhi, sentivo attorno a me confusamente le voci dei miei familiari. - Ninna! Ninna! Ti sei fatta male? - non capivo chi mi chiamasse e facevo di no con la testa. Mi portarono al Pronto Soccorso, sentivo dolori sparsi in tutto il corpo a causa della caduta, ma, per fortuna, erano solo contusioni, mi mandarono presto a casa. Di quello che mi era accaduto, sentivo dire strane cose in famiglia. Pare che io avessi detto che mentre cadevo una donna mi aveva preso in braccio, salvandomi. Quando mia madre aveva chiesto chi fosse, io avevo risposto di aver visto una persona scura in volto, poi ero svenuta. Dalla porta aperta della mia cameretta, mi arrivavano i discorsi di mia madre e le vicine che parlavano di quanto era accaduto. Le donne chiedevano, parlando a bassa voce, se finalmente avessi confessato che era stata la Madonna a prendermi in braccio. - Don Carlo ha detto che non si può chiamare miracolo, se la bambina non ammette chiaramente di aver visto la Madonna - disse Maria. - Ma ci pensate comma', un miracolo, proprio qua, in mezzo a noi. Verrà gente da ogni parte, quando si saprà, e possiamo fare un altare proprio in fondo al vicolo, dove tutti potranno venire a pregare - farneticò Iolanda, mentre le altre scuotevano la testa timorose. - Il fatto è che Rosetta è come mia figlia Vera. Parla poco e quello che pensa non lo dice a nessuno. - - Lasciamola stare. Se è davvero un miracolo sarà lei stessa ad ammetterlo. È una bambina giudiziosa e dice sempre la verità - concluse mia madre. La cosa sorprendente era che io non ricordavo assolutamente nulla di tutto questo. Ripensavo alla mia caduta e le immagini che catturavo erano sempre le stesse. Mi era sembrato di sentire il vuoto sotto i piedi e avevo avuto per un istante la sensazione di volare. Poi avevo chiuso gli occhi e quando li avevo riaperti, tutti i miei familiari erano lì che mi guardavano. Mia madre diceva che era un dono che la Madonna mi aveva fatto, e dovevo esserle grata in ogni istante della mia vita. Cominciai a pregare con più fervore, solo che non mi sentivo privilegiata. Ero confusa, ogni cosa che facevo temevo di sbagliare o di offendere la mia Salvatrice, mentre invece volevo essere degna del suo interessamento a me. Quello che non capivo era perché non riuscissi a ricordare niente di un momento così importante. “E se invece fosse stata mia nonna a salvarmi? O ancora il mio angelo custode?” mi chiedevo incessantemente. Siccome avevo un braccio che mi faceva male, per alcuni giorni rimasi in casa, mia cugina Enrica venne a stare da noi e mi faceva compagnia. Non avevo mai avuto tante attenzioni... Seduta su una poltrona che avevano portato nella mia cameretta per farmi stare comoda, Enrica, accanto a me, ogni tanto mi chiedeva se volessi qualcosa. Nadia mi guardava con gli occhi spalancati come se non mi avesse mai vista. - Vuoi giocare con la mia bambola? - - No, gioca tu, non preoccuparti. - Le amiche vennero a trovarmi tutte insieme e ognuna mi portò un dono. Angelina si avvicinò e mi mise tra le mani un pacchetto: era un libro. Scartai l'involucro con entusiasmoe vi trovai “Le avventure di Tom Sawyer”. - Che bello! Grazie! - dissi abbracciandola. Lidia aveva fatto una crostata apposta per me. - Enri', per favore fatti dare un coltello da zia Anna, così la mangiamo tutte insieme. - Stella che era più piccola si avvicinò e con la mano aperta mi mostrò il suo regalo: un fermaglio. - È bellissimo - dissi commossa e lo misi tra i capelli. Vera mi mostrò il suo regalo contenuto in una piccola busta: la sua maschera di carnevale; era la cosa più preziosa che possedeva. Io rimasi senza parole, avevo gli occhi pieni di pianto che non volevo mostrare. Lei si avvicinò e contemplò curiosa i graffi sulle gambe e sulle braccia, poi mi diede un bacio sulla guancia. - Anche tu sei ferita, Rosetta - disse comprensiva. - Non sono i graffi che mi danno fastidio, ma il fatto di non ricordare chi mi ha salvata. - - Ma è stata la Madonna... l'ha detto anche mamma, e siccome anch'io mi sono salvata, perché potevo bruciare tutta, andrò in gita a Roma, mi accompagna Lidia, vieni anche tu? - - Sì, vengo anch'io! - dissi abbracciandola. - Dove andate, mi sono persa qualcosa? - disse Enrica, tornando con coltello e i tovaglioli. Le dicemmo della gita, ma molto probabilmente lei non sarebbe potuta venire, doveva aiutare alla fattoria. Vennero anche i ragazzi a farmi visita. Entrarono preceduti da mio fratello e mi guardavano timorosi, con aria compunta. Enrica offrì loro un pezzo di crostata. Ero circondata da tutti gli amici con i quali giocavo e trascorrevo i pomeriggi all'aria aperta e la mia camera sembrò essere diventata improvvisamente piccola, per poter contenere tutto quel mondo che faceva parte della mia infanzia. Chicco rimase in silenzio accanto a Nando, fu Paolino a parlare e a mostrarmi il loro dono: una busta piena di fumetti. Numerose edizioni di Tex Willer, e poi Black Macigno, Diabolik e Topolino. - Spero che ti piacciano... - - Ma che bello, con tutto questo materiale, credo che non uscirò per mesi da casa - dissi contenta. - Non ti dimenticare che, alla fine del mese, andiamo a Roma - replicò seria Vera. La gita a Roma era stata organizzata dalla parrocchia e don Carlo stava facendo la lista dei partecipanti, cosicché in famiglia decidemmo che saremmo andati io mio padre. - Che bello Rosetta! Andrete a vedere il Papa e potrai ringraziare la Madonna - disse mia madre. Le sarebbe piaciuto venire, ma doveva rimanere a casa con Nadia e Nando... non potevamo certo andare tutti. Io fui contentissima del viaggio. Partimmo, col gruppo parrocchiale, la mattina all'alba, in compagnia di Lidia e Vera; in via eccezionale alle due bambine la parrocchia aveva offerto il viaggio gratis. Sedetti accanto a mio padre, davanti a noi le mie amiche. Recitammo preghiere e intonammo canti liturgici; si viveva nello stesso tempo un'atmosfera di serenità e di gioia. La città ci sembrò immensa. Don Carlo aveva una bandierina dell'Italia e raccomandò di seguirlo e di non staccarsi dal gruppo. Camminavamo entusiaste tra i palazzi, le strade. Io con la mano in quella di mio padre, Lidia e Vera che sembrava fossero sbarcate sulla luna. Un'edicola colorata ci mostrava le riviste di allora: Grand Hotel, Bolero, Epoca e i fotoromanzi della Lancio. Lidia davanti a noi si fermò, come incantata, era patita di storie d'amore. Mio padre intuì e le comprò un fotoromanzo. Lei s'illuminò ringraziando, poi di corsa raggiungemmo il gruppo che si era un po' allontanato da noi. Camminando vedevo persone di diverse nazionalità, tutti diretti allo stesso posto; era una folla incredibile che io non avrei mai immaginato. Giungemmo finalmente a piazza S. Pietro, che ci apparve subito nella sua maestosità, e ci apprestammo ad ascoltare il papa. Le persone, tutte in preghiera, avevano negli occhi un fervore religioso che le rendeva profondamente umane, me ne accorsi quando la gente pur vedendo Vera col volto deturpato le sorridevano gentilmente. Io ero emozionata, tutti noi lo eravamo, quando da una piccola finestra lontana vidi una figura vestita di bianco: papa Giovanni XXIII. La sua voce dolce risuonava nell'aria, amplificata, così che tutta quell'enorme folla potesse ascoltarla. - Cari figliuoli... - e l'eco ripeteva - Cari figliuoli... - Lidia teneva un braccio attorno alle spalle della sorella, non in un gesto di protezione ma di immenso affetto; per dimostrare che loro due erano legate insieme, come una cosa sola. Mio padre per permettermi di vedere meglio mi prese sulle sue spalle, anche se non ero tanto leggera. Quel giorno mi sentii veramente privilegiata. Pregai con tutto il cuore la Madonna per tutti i bambini che erano in difficoltà, che erano malati, che soffrivano la fame o che avevano avuto incidenti, come la mia amica e per quelli che non avrebbero mai avuto, come noi, la fortuna di essere lì ad ascoltare il Santo Padre. Vera sorrideva e guardava quell'omino bianco, lassù ,sentendosi anche lei speciale, prima di andar via, una suora le fece una carezza e lei pianse di gioia. Fu una giornata memorabile. Durante il viaggio di ritorno mi sentii male: il panino con la cotoletta che avevo mangiato in precedenza andava su e giù nello stomaco fino a che non vomitai, accanto al sedile del pullman. Lidia essendo una signorinella si prese cura di me, pulì per terra e mi sorrise. - Non preoccuparti, succede a volte, è capitato anche a me quand'ero piccola - disse accarezzandomi, Mi sarebbe piaciuto avere una sorella più grande...
Liliana Tuozzo
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