Ero solita fare colazione ascoltando il primo notiziario del mattino. Accesi la radio e ciò che sentii fu sconcertante. Durante la notte, più di duemila militari erano stati impiegati per la costruzione di un muro lungo oltre cento chilometri che avrebbe diviso il Paese in due parti. Erano stati anche interrotti tutti i collegamenti tra la Germania est e ovest, creando il caos tra la popolazione. Nei giorni seguenti, avrebbero eretto oltre trecento torri di controllo in cui sarebbero state appostate circa diecimila guardie. La Germania stava attraversando un momento di grave deficit economico-sociale a causa della guerra fredda che si era abbattuta dopo la caduta del nazismo. Rimasi sbigottita... pensai che fosse inammissibile dividere un'intera nazione solo per i capricci di un governo viziato. Un muro che avrebbe diviso famiglie, interrotto la strada tra casa e posto di lavoro, scuola e università... Non riuscivo a capacitarmene. Fissavo la radio con lo sguardo perso nel vuoto, stringendo tra le mani la mia tazza di caffè caldo. All'improvviso, dei boati in lontananza mi fecero sussultare, il cuore iniziò a battere forte, trattenni il respiro... tremante di paura, mi avvicinai al telefono nella speranza di riuscire a chiamare qualcuno ma, sollevando il ricevitore, mi accorsi che l'apparecchio non emetteva alcun suono; molto probabilmente avevano interrotto tutte le linee di comunicazione. Capii che qualcosa di terribile stava accadendo. Pensai subito all'infermiera Margret e a come potessi avvisarla; l'ultima volta che la vidi, tre giorni prima, mi disse che avrebbe iniziato un lavoro temporaneo presso una casa di riposo e che si sarebbe dovuta trasferire lì per qualche tempo per gestire al meglio gli ospiti anziani - i quali avevano bisogno di cure continue e attenzioni - e che sarebbe ritornata a settembre con la riapertura dell'istituto. Sperando che stesse bene, cercai di calmarmi e andai a sedermi sulla poltrona vicino alla finestra. Rimasi ferma, in ascolto, con il fiato sospeso... sembrava che i boati fossero terminati. Avevo ancora in mano la tazza di caffè, ormai freddo; la appoggiai sul tavolino di fronte. Non sapendo come far passare il tempo, guardai verso la piccola libreria accanto alla lampada di ottone con il paralume blu, cercando qualche nuovo titolo da leggere e, sul ripiano in alto, notai un piccolo libro che faceva capolino tra alcuni testi di medicina. Era sottile e aveva la copertina verde scuro. Mi alzai e lo andai a prendere poi, risiedendomi sulla poltrona, iniziai a sfogliarlo in maniera distratta. Con grande sorpresa scoprii che era il diario di mio padre. Al suo interno vi erano annotati tutti gli eventi più importanti dei vari anni trascorsi a operare nel suo istituto. Non lo avevo mai aperto. Dopo la sua morte lo riposi, dimenticandomene. Iniziai a leggere e subito nella prima pagina vidi che era descritta, in maniera attenta e dettagliata, la procedura eseguita in uno dei primi casi clinici cui avevo partecipato insieme a lui. I ricordi iniziarono a farsi strada nella mia mente... La casa distava un solo isolato dall'istituto psichiatrico. Ogni mattina, io e mio padre, eravamo soliti percorrere insieme quel tragitto: la strada era sempre affollata, le auto erano poche, la maggior parte delle persone preferiva muoversi in carrozza per raggiungere la propria destinazione. Ricordo ancora lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli sul selciato e quei signori eleganti che andavano in bicicletta pedalando con calma, senza fretta, e ogni tanto davano un'occhiata alle mollette di legno da bucato che bloccavano lateralmente la fine dei pantaloni, così da evitare che si impigliassero nella catena. Durante il percorso, discutevamo spesso, esprimendo pareri su politica, medicina e attualità; mio padre era sempre preparato su qualsiasi argomento e aveva sempre una risposta per ogni mia domanda. Camminando lungo il vicoletto che portava al viale alberato in prossimità dell'istituto, s'iniziava a sentire il profumo del pane caldo appena sfornato, che ci avvolgeva mettendo di buon umore. Come d'abitudine, mentre mio padre si avviava verso la clinica, io mi recavo al negozio e lì compravo dei muffin ai mirtilli e una bella pagnotta con la crosta croccante ancora fumante.
Era una mattina di settembre del 1954, avevo ventotto anni. Quel giorno l'aria era umida e fredda. Si sentiva quell'odore tipico, acre, come quello di una cantina di una vecchia casa; la strada era piena di pozzanghere lasciate dalla pioggia della sera prima. Il viale che conduceva al nostro istituto era ricoperto di foglie rosse-arancioni, e la nebbia avvolgeva ogni cosa: così densa da impedire la vista delle campagne circostanti. L'atmosfera era silenziosa, quasi innaturale. Io e mio padre eravamo in piedi vicino alla porta d'ingresso della clinica, aspettando l'arrivo del furgone militare che avrebbe scortato la nostra paziente. Osservandolo, vidi sul suo volto un'espressione seria e concentrata, la sua fronte si corrugò mentre scrutava l'orizzonte, cercando di scorgere qualcosa. Dovevamo accogliere una donna affetta da schizofrenia: dopo il suo arresto, fu internata in un manicomio nella periferia del Paese. Data la sua indole aggressiva che l'aveva portata a mordere e picchiare tutti gli infermieri del reparto, era tenuta costante-mente immobilizzata su un letto. I medici cercarono di curarla utilizzando svariate terapie, provando anche con l'elettroshock senza ottenere alcun risultato. Pensando che il nostro istituto fosse l'unica speranza per riuscire a placare quell'anima tormentata, chiesero un incontro con mio padre, noto per le sue innovative tecniche utilizzate per curare le malattie mentali. Accettò senza esitazione. Nei giorni seguenti, il manicomio ci inviò un plico contenente sia la storia clinica della donna sia il verbale redatto dalla polizia, in modo che avremmo potuto esaminare meglio il caso da trattare.
La donna si chiamava Gertrude Meier, aveva trentaquattro anni ed era di origine tedesca con discendenze e usanze ebraiche. Sin da piccola subì violenze morali e fisiche da parte del padre e del fratello. Questi, per evitare di essere perseguitati dalla milizia tedesca, si convertirono all'antisemitismo e si misero al servizio delle forze militari naziste. La sorte di Gertrude e di sua madre fu diversa: entrambe rifiutarono di cambiare il loro orientamento politico, e nel 1934 furono prelevate e deportate in uno dei primi campi di lavoro tedeschi, dove furono utilizzate come cavie nella sperimentazione medica. Gertrude aveva solo quattordici anni quando vide sua madre morire fucilata insieme con altre donne, ma non seppe mai il motivo di tale atrocità. Durante quei lunghi anni di detenzione, nonostante vivesse costantemente nella psicologia del terrore e fosse costretta a partecipare alle ricerche mediche senza mai potersi opporre, riuscì comunque ad assicurarsi la fiducia degli ufficiali tedeschi. Così, all'età di vent'anni, fu deportata ad Auschwitz e ottenne il ruolo di Kapò. Si adeguò completamente alla politica di gestione del campo di lavoro adottata dai miliziani, e le fu affidato il comando sugli altri deportati. Era capace di gestire un intero dormitorio, mantenendo l'ordine e facendo funzionare tutto alla perfezione, arrivando anche a reprimere sul nascere possibili idee e speranze di rivolte interne. Sviluppò un'assoluta mancanza di pietà nei confronti dei prigionieri, diventando rigida e senza scrupoli. Ottenne la fascia nera militare, che la distingueva dagli altri Kapò: la portava con orgoglio al braccio sinistro. Rimase ad Auschwitz fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel 1945, all'età di venticinque anni, fu rimpatriata, ma non poté più tornare nella sua casa d'infanzia, che purtroppo fu distrutta durante la guerra. In seguito, venne a sapere che suo padre e suo fratello cercarono di fuggire, ma furono scoperti dai miliziani tedeschi, che li giustiziarono senza pietà. Alla notizia, Gertrude non provò nulla di compassionevole; anzi, per lei fu un vero sollievo, come una seconda liberazione.
Barbara Ruocco
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|