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Autore: Suajens Miazzo
La mia rosa bianca
Romanzo
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La mia rosa bianca
Mia madre, classe 1955, è nata in Francia, figlia di una coppia di immigrati che là risiedevano, mio nonno era metalmeccanico. Tornarono nel loro paese, nel Nord Italia, quando lei aveva quattordici anni.
Colui che dovrei chiamare padre ma non posso, non so esattamente quando nacque, non l'ho mai chiesto, oppure l'ho dimenticato. Meglio così. Meno ne so, meglio sto.
Ricordo solo di aver sentito da mia nonna paterna questo: quando nacque, nei primi anni ‘50, fu in pericolo di morte. Sua madre pregò a lungo e accese ogni giorno numerose candele votive nella vicina chiesa.
Di lui, a parte quello che racconterò nelle prossime pagine, non conosco altro, non l'ho mai conosciuto al di là delle violenze. Non l'ho mai conosciuto come persona. Non l'ho mai conosciuto come padre.
Mia madre, invece, lo incontrò che era appena una ragazza di diciassette anni, in una sala da ballo, e lavorava come operaia in una conceria della zona. Ne restò folgorata. Forse perché il destino aveva così disposto o forse perché lo vedeva come un tipo misterioso e fascinoso, che ostentava forza e indipendenza.
In fondo, era un ragazzo istruito, che aveva frequentato le medie dai frati imparando un po' di tutto e che in quel momen-

to viveva da solo e lavorava in proprio nel suo salone da barbiere, molto attivo e che rendeva parecchio in quegli anni.
Diceva a mia mamma: - Sai, in casa mia comando io, non sopporto di andare sotto padrone - .
Le amiche di lei erano preoccupate. Non erano convinte dei modi bruschi, arroganti e da padrone che lui sfoggiava, quel suo voler dimostrare di essere il solo a dover tirare le fila e che trattava mia mamma come una bimbetta bisognosa.
- Che ci sia da fidarsi? Non sarà uno che mena, quello lì? - Probabilmente hanno anche cercato di metterla in guardia, ma lei invece si fidava, eccome. Si sentiva forte, sicura, protetta. E lui confermava: - Con me sarai in una botte di ferro dal tanto bene che ci vorremo. Sei bellissima, mi fai diventare matto! Guai chi ti tocca! -
La follia reciproca fiammeggiava sempre di più. Lei lo voleva sempre intorno; gli perdonava gli assalti di gelosia, i sospetti senza fondamento. Quando si accorse di aspettare un figlio, dovette presentarlo ai suoi genitori.
Giorgio, mio nonno, che lavorava in una ditta dei dintorni, lo guardò in faccia e si spaventò. Più tardi le disse: - Lascialo perdere, per carità! Non è una bella persona. Basta guardare gli occhi. C'è del matto, là dentro! -
E Rosa, mia nonna, incalzò: - Ti rovinerà la vita, figlia mia, come ti ha rovinato il resto. Senti, perché non riprendi con quel bravo giovanotto che ti stava dietro tempo fa? Lui ti vorrebbe anche con il bambino, io lo so. Vuoi che gli parli? - Niente da fare.
Lo sposò qualche mese dopo, incurante di tutte le raccomandazioni, i timori e i dubbi che tutte le amiche e i genitori le palesavano, e andarono a vivere in un nuovo appartamento nel centro del paese dove viveva mia madre.
Il novello sposo faceva sempre il barbiere, spostandosi ogni giorno con l'auto per raggiungere il negozio in un comune a pochi chilometri di distanza.
Nel ‘75, dopo pochi mesi, venne al mondo mio fratello Carlo.


Le prime violenze


La nonna Rosa mi raccontava cose tremende dei loro primi anni di matrimonio.
- Una volta lui ha litigato con me e tuo nonno, durante una delle sue visite, solo per delle bazzecole che non mi ricordo neanche più. Incavolato come una bestia, prese Carlo, avrà avuto otto mesi, lo portò nella sua bottega di barbiere e lo distese per terra con una coperta, nel retrobottega, al freddo e al buio. E cominciò a lavorare come niente fosse. A un certo punto, io e tuo nonno, sempre più preoccupati, siamo corsi a vedere cosa combinava. Il piccolo era rannicchiato nella coperta, povera stella, tutto sporco, da cambiare. Piangeva come un pulcino. E lui, tranquillo, badava ai fatti suoi. È vero, Sara. Me lo ricordo come se fosse oggi. Un nonno non dovrebbe esser condannato a vedere certe scene - .
Mia nonna in quel momento era molto agitata e piangeva, neanche si rendeva conto che c'erano clienti in bottega. Io seppi queste cose solo nel momento in cui vennero fuori tutte le nefandezze che avevo subito da lui.
Ero allibita dai racconti e molto triste nel vedere ancora i suoi occhi lacrimare e pensare a mio nonno, morto da molto tempo, e a tutto ciò che aveva visto.
Ancora oggi, da adulta, mi rivengono in mente tutte quelle cose e dentro il mio cuore sento un'enorme sofferenza al solo pensiero di sapere i miei nonni in quello stato d'animo.
Mia nonna Rosa continuò poi a raccontarmi l'accaduto: - Allora, ho fatto per prendere il piccolo in braccio e portarlo a casa da noi, ma quel disgraziato mi urtò indietro e ci mandò via tutti e due, come cani rognosi. Ho pianto fino alla mattina dopo! -
In seguito, il rapporto fra gli sposi e i suoceri si andò normalizzando. Lui lavorava sodo, se non altro. E a dire la verità era anche bravo, non gli mancavano i clienti in paese. Così restava via da casa fino a sera. Anche sua moglie continuava a lavorare in conceria, affidando il bambino ai nonni paterni. I miei nonni materni, ovviamente, non erano felici di questa decisione ma dovevano accettare la situazione per mantenere il clima sereno.
Dopo un anno, nel settembre del ‘76, nacqui io, Sara; fui affidata ai miei nonni materni perché mia madre lavorava e i nonni paterni non potevano tenere anche me. Sono stata molto fortunata a essere stata cresciuta ed educata da loro, con i loro valori e insegnamenti.
Probabilmente, anche Carlo avrebbe sviluppato un atteggiamento del tutto diverso se fosse cresciuto con loro anziché con i nonni paterni, sarebbe stato meno freddo e indifferente, e magari meno chiuso in se stesso.
A quel punto, dopo la mia nascita, nessuno ha mai capito perché un demonio scattò nella testa di quell'essere. Picchiava la moglie riempiendole la schiena di pugni, la insultava con tutto il repertorio possibile, la perseguitava con accuse assurde, spaventandola a morte. A esempio: - Ti porto via i figli, ma prima ti riempio di botte - .
Solo al lavoro poteva stare abbastanza tranquilla, perché poteva uscire da quelle quattro mura che la spaventavano a morte; in casa era sempre in allerta, con il terrore di sbagliare. Un'espressione del viso sospetta, una sillaba storta, una mossa sgradita... scintille che rischiavano di innescare l'incendio.

Nel ‘79 venne alla luce mia sorella Elisa, che fu cresciuta anche lei dai genitori di mio padre. Lei era diversa, era un continuo parlare e molto ambiziosa, ma a differenza di Carlo non ha maturato atteggiamenti strani...
Già allora io sprofondavo nel buio dell'inferno domestico. E non è un eufemismo letterario.
In uno dei miei ricordi vedo lui che, come al solito, picchiava mia madre, che subiva in silenzio, e la spingeva addosso al vetro della porta finestra della cucina del nostro appartamento al settimo piano. Il vetro era tutto liscio, senza ripari. Io avevo tre anni e, terrorizzata, con lacrime e muco che mi inondavano la faccia, totalmente impotente, urlavo: - La mamma casca giù! La mamma muore! -
Dio volle che la lastra resistette e che lei ne uscì con qualche ammaccatura, almeno nel fisico. Perché di ferite invisibili ne aveva già dappertutto, dentro l'anima e la mente.
I vicini e parecchi dei paesani sentivano, vedevano, capivano. Compiangevano i quattro agnelli nelle grinfie del lupo. Ma nessuno faceva o diceva nulla, il lupo faceva paura. E poi, era sempre meglio non scoperchiare le pegnatte degli altri, si rischiava di scottarsi con il vapore che veniva fuori.

Suajens Miazzo

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