Lascia stare il fai da te
|
Nell'ultimo anno avevo previsto con successo che: - il Capodanno 2008/2009 sarebbe stato noiosissimo; - una delle mie più care amiche non sarebbe rimasta incinta come desiderava; - avrei vinto un ambo al lotto giocato su tutte le ruote; - l'inverno sarebbe stato freddo e l'estate, calda; - mio fratello il maggiore avrebbe cambiato nuovamente fidanzata; - i miei genitori non avrebbero fatto la crociera che programmano dal 1980; - dopo Prodi si sarebbe costituito il IV governo Berlusconi; - avrei tinto i capelli nero-blu; - la mia vicina di casa diabetica sarebbe morta prima di compiere novantotto anni. Tuttavia, non avevo sposato il principe ereditario Hamdan bin Mohammed Al Maktoum, figlio dello sceicco del Dubai, e gli alieni non avevano invaso il Vaticano. Ecco, una media dell'80% di profezie avverate in un anno. Ero certa di essere una sensitiva, interpretavo le sensazioni che provenivano dal mio corpo e indovinavo. Un'altra molletta era precipitata. Detestavo stendere le lenzuola, avevo sempre il presentimento di cadere giù, e mi chiedevo cosa avrei pensato nel breve lasso di tempo in cui il mio corpo sarebbe roteato in aria. Di certo avrei pensato: “Ecco, lo sapevo che prima o poi sarei caduta!”. Io sapevo sempre tutto prima che il tutto accadesse. Almeno, così credevo. Ero abituata ormai da anni alle mie azzeccate intuizioni e, poiché ero certa di prevedere come sarebbero andate le cose, agivo di conseguenza battendo sul tempo gli eventi. L'ultimo slip e avevo finito. Guardai l'orologio e pensai che fosse ora di andare. Prima di rientrare in casa, vidi ancora una volta quell'uomo riverso sulla ringhiera del suo terrazzino col capo teso verso di me. Un incendio divampò nel mio stomaco e io fui subito sopraffatta dai miei indomiti pensieri collerici. “Ah, eccoti lì”, pensai. “Anche oggi speri di vedere le mie mutandine, brutto vecchio pervertito! Ti affacci apposta, vero? Speri sempre di cogliermi distratta mentre io stendo la biancheria così da poter sbirciare indisturbato sotto i miei vestitini leggeri”. In effetti, non ricordo se il mio pensiero ebbe effettivamente voce o fu da solo sufficiente a far intimidire quell'uomo tanto da fargli battere ritirata, ma probabilmente il mio pensiero, come di consueto, era stato sentito. Ero certa, da qualche tempo ormai, che i miei pensieri potessero essere sentiti e che in alcuni casi condizionassero persino l'agire e il pensare degli altri; un formidabile potere che in determinate situazioni mi era davvero utile. Senza dubbio, ciò dipendeva dai miei bellissimi grandi occhi neri (ok, castano scuro, in effetti); sin da quando ero bambina, tutti mi avevano sempre detto i tuoi bellissimi occhi parlano. Quell'uomo era strano e mi incuteva molta paura. Avrei voluto sapere chi fosse lui e, soprattutto, chi fosse quella donna bionda che vedevo spesso la sera nel suo terrazzino; mi chiedevo perché, quando c'era lei, non ci fosse mai sua moglie. Quella storia non mi convinceva per niente. Immaginavo che la bionda fosse la sua amante; poi rielaboravo i miei pensieri e lo escludevo, dato che l'anziano sembrava avere almeno un'ottantina di anni. Rientrai in casa. Spinsi con stizza il portello del balcone e la zineffa cadde giù, lasciandomi incolume per un soffio. “Lo sapevo che si sarebbe rotta, alla fine!”. Ne ero stata certa sin dal primo giorno in cui, qualche anno addietro, avevo messo piede in quel vecchio appartamento, e per questo non avevo mai voluto montare una tenda. Tuttavia, all'epoca del trasloco non sapevo ancora quanto questo inconveniente mi sarebbe tornato utile. Guardai a terra il supporto spezzato della zineffa e lo smossi con la punta del piede: morto stecchito! Ora avevo l'ennesima scusa, questa volta tangibile, per rivolgermi a quelli del Lascia stare il fai da te! Lascia stare il fai da te! era un negozio di bricolage e fai-da-te, edilizia, giardinaggio, decorazione e arredo bagno, di notevoli dimensioni, che si trovava vicino casa mia, sulla strada che percorrevo a piedi o in macchina almeno due volte al giorno. Sulla strada che mi collegava al resto del mondo. Io vivevo all'ultimo piano di un antico palazzo ristrutturato negli anni Settanta che si affacciava su un cortile apparentemente senza sbocco, popolato di tante altre costruzioni più basse. Il mio appartamento era un bivano con una sola esposizione a Nord; spingendo lo sguardo in lontananza potevo vedere il cocuzzolo del vulcano Etna, il Muncibbeddu, incorniciato tra grigi e prepotenti palazzoni, e sulla destra intravedevo persino un fazzoletto di mare. A parte questo scorcio, non restavano che le sottostanti fatiscenti casette del cortile, appesantite da malandati tendoni e colorati panni stesi. Il Vecchio viveva in quel cortile, in una casa al piano rialzato con un piccolo terrazzino, sempre popolato di colombe, che dall'alto sembrava una scacchiera e dal quale incominciava una scala esterna che dopo una quindicina di scalini scompariva sotto i tetti delle case vicine più basse. Quella scala era il suo collegamento con il resto del mondo. Quando il Vecchio usciva di casa, dopo aver disceso la scala, spariva anche lui sotto i tetti; poco dopo, sulla strada del viale retrostante il cortile, riappariva la sua figura alta e robusta. Non capivo come ci riuscisse e immaginavo che utilizzasse un tunnel sotterraneo segreto che aveva scavato lui stesso per procurare un accesso discreto alla sua giovane amante bionda. Quel cortile appariva senza via d'uscita e perciò mi chiedevo come tutti i folletti che abitavano quei funghi malandati potessero raggiungere la strada esterna. Dall'alto della mia quercia li osservavo sopravvivere. Dopo aver steso i panni, voltavo le spalle e non appena fuori di casa mi ritrovavo dal lato opposto rispetto a Follettolandia, immediatamente su via Mulino a Vento, il mio collegamento col resto del mondo. Follettolandia, invece, si chiamava in realtà Cortile Pagnocco. Volevo risolvere l'urgentissima questione della zineffa ma tra meno di un'ora sarebbe iniziato il mio turno di lavoro. “Forse, farei meglio a preoccuparmene al ritorno”, avevo pensato mentre una sottile emozione si era insinuata nel mio cuore fino a scorrere per tutto il corpo, “così potrò trattenermi con calma presso il negozio.” In effetti, sarei potuta restare a lungo nel reparto ferramenta e magari, questa volta, chissà, avrei avuto l'occasione di chiedere informazioni direttamente al proprietario del negozio, ormai stufa di dover soltanto sbirciare oltre le pareti a vetri del suo ufficio. Altrimenti, se non avessi incontrato lui, avrei chiesto all'addetto del reparto di vedere i diversi modelli di zineffe, avrei fatto qualche domanda sulle modalità di fissaggio a parete e, alla parola trapano, io, donna sola e in difficoltà, avrei dichiarato di aver bisogno, in effetti, del servizio a domicilio. Lucio non avrebbe avuto da ridire. Lucio, il mio fidanzato, era climacofobico. Dunque, a zineffa montata, avrei avuto l'occasione di lamentarmi con il proprietario (il fighissimo proprietario, prima ho dimenticato di precisare) chiedendo un suo tempestivo sopralluogo al fine di accertare l'inaccettabile incompetenza dei suoi tecnici. La peculiarità di questo negozio era proprio il servizio a domicilio con intervento di un tecnico specializzato per ogni diverso settore. Perciò, il nome del negozio. Un paio di volte, invero, avevo già telefonato lasciando nome e numero di cellulare e chiedendo di essere ricontattata dal proprietario per una certa questione urgente. Non avevo mai saputo chi mi rispondesse, ma mi ero sempre detta non si sa mai. Non fui mai richiamata. Un giorno mi ero lamentata di persona con l'addetto al box Informazioni e assistenza per la noncuranza dimostrata verso una cliente bisognosa che più volte li aveva contattati telefonicamente. Quello mi aveva proposto di parlare col titolare, ma ahimè! si era trattato del titolare sbagliato. Sì, perché in quell'occasione avevo scoperto che di titolari ce n'erano due: i fratelli Bruno ed Enzo Micale. L'addetto, al cospetto di Enzo Micale, il titolare sbagliato, aveva garantito che non ero stata ignorata e che, come di norma, era rimasta traccia della mia chiamata nel file dei Reclami. Con una stretta di mano, il titolare mi aveva detto che, se fossi ritornata lì il giorno dopo, avrebbe ascoltato con la dovuta attenzione le mie ragioni. Quel dì, invece, non avrebbe assolutamente potuto. Io, ovviamente, non avevo avuto nessuna intenzione di sprecare le mie cartucce con la persona sbagliata e così, per un po', non mi ero fatta più vedere. In seguito, avevo diligentemente ripreso un'assidua ma più discreta frequentazione. A quel punto, per tentare un aggancio con il titolare giusto dovevo giocarmi la carta intervento fatto male. Il mio piano sarebbe riuscito alla perfezione. Dopo il lavoro a domicilio, avrei fatto trascorrere un giorno e poi avrei telefonato chiedendo di parlare col titolare Bruno Micale, al quale avrei rivolto un insistente invito a venire in persona a casa mia per verificare come il lavoro fosse stato fatto maldestramente dai suoi impiegati. Decisi di attuare subito il mio piano perfetto. In un batter d'occhio arrivai trepidante a destinazione. L'aver trovato un posteggio proprio davanti all'ingresso, giacché lì solitamente le macchine si fermavano in doppia fila, mi sembrò un segno del fato: non rimandare, carpe diem! Mi assicurai di aver attivato l'antifurto dell'auto e mi avviai verso il negozio. Mi ritrovai con il naso puntato sulla grande porta di vetro che era rimasta chiusa. Vi era stato affisso un cartello:
In questi giorni: Fai da Te! Siamo chiusi per ferie fino al 22 agosto.
Immaginai che il Fato quel giorno si stesse prendendo gioco di me, sin dal momento in cui mi aveva illuso di poter rientrare in quel negozio a pieno titolo, senza destar sospetti, non appena due giorni dopo l'ultima volta, tre giorni dopo la penultima volta, cinque giorni dopo aver dichiarato che avevo sbagliato negozio perché in realtà sarei dovuta entrare in lavanderia ma mi ero confusa per la fretta, sei giorni dopo la quartultima volta. L'ultima volta, il mio insospettabile acquisto era stato un gomitolo di cinquanta metri di fil di ferro per fermare delle piante dispettose che pendevano disordinate di qua e di là, che non possedevo affatto se non in versione natura morta in qualche vaso abbandonato. Quelli del Lascia stare il fai da te! avrebbero assolutamente dovuto capire che io ero una che faceva sul serio; cinquanta metri gridavano a voce alta che mi attendeva un lavoro significativo e improcrastinabile da portare a termine. La volta precedente, invece, avevo chiesto un tubetto di vernice acrilica da quindici ml color fate voi! Ero stata colta alla sprovvista dalla voglia irrefrenabile di entrare mentre tornavo a piedi dalla palestra e il solito garbato Buongiorno signora come posso aiutarla? era arrivato troppo presto, prima ancora che avessi avuto il tempo di elaborare un acquisto intelligente e insospettabile. E, in quel momento, quando finalmente avevo in mano la prova tangibile del mio bisogno e in mente una geniale idea per chiedere il loro intervento a domicilio, quelli se ne andavano in ferie fino al 22 agosto.
Feci scivolare velocemente il badge nel lettore magnetico e le 10:00, un battito di palpebre dopo, divennero le 10:01; anche questa volta puntuale per pochi secondi. Mi affrettai, già stanca, per raggiungere la postazione di lavoro. Scaricai ogni peso sul tavolo distribuendo sorrisi e cenni di saluto a destra e a manca, schiacciai il solito pulsantino e digitai la password, giusto il tempo di incoronarmi con una grigia cuffietta microfonata e: BIP — Buongiorno, sono Paola, in cosa posso esserle utile? — Paola, buongiorno a lei, io sono il dottor Raciti e ho un problema gravissimo.
Il dottor Raciti era un cliente a elevato rischio: ops, è caduta la linea. Innanzitutto, perché, quando un cliente chiama un call center e si presenta con un titolo, quel cliente sta per dirti che fa tutto solo per una questione di principio e non mica per qualche euro. Tradotto per il filo della cuffietta: la peggior specie di spilorcio in circolazione, quello che anche per un centesimo passerebbe intere giornate a massacrare decine di operatori telefonici pur di avere il suo riaccredito. La mia giornata lavorativa era iniziata così, con il dottor Raciti e il suo gravissimo problema. Diedi al dottor Raciti le indicazioni per disattivare un servizio a pagamento di terzi gestori che il figlio aveva attivato sulla sua utenza e gli suggerii di abilitare il servizio barring al fine di evitare successive gravi crisi economiche in famiglia. La giornata trascorse come sempre, sulle note stonate di quella strana, solita, lentissima frenesia. Per la serata, Lucio aveva in programma una evento culturale, e io detestavo gli eventi culturali. Lucio, quello che soffriva di vertigini: il mio fidanzato. A ogni modo, tutto per me era meglio che stare in quel campo di lavori forzati. Ecco perché lui mi proponeva le sue serate a tema proprio quando ci sentivamo durante il mio quarto d'ora d'aria (per gli altri, pausa da videoterminale); approfittava della mia temporanea incapacità di intendere e di volere e otteneva il mio sì. E quella volta mi era andata veramente male; la serata culturale si era meglio specificata nella visione di uno spettacolo teatrale. E io, il teatro, davvero, non lo tolleravo. Tutte le volte finivo con l'addormentarmi, ma Lucio, invece, era un appassionato. Tuttavia, per compiere la mia ultima impresa fai da te, avevo dovuto accettare qualche piccolo compromesso coerentemente con scherzi! io adoro il teatro del nostro primo appuntamento. Quella sera avrebbero messo in scena Il berretto a sonagli, che per gli abbonati alle rassegne annuali era alla stregua della Corazzata Potionsky per Fantozzi. Mi ritrovai, rassegnata, sul sedile della sua BMV x6 a fissare la mia immagine sullo specchietto retrovisore, pensando che fossi troppo bella per andare in un luogo dove avrebbero spento le luci poco dopo aver occupato posto. Il mio nuovo rossetto Tahiti Dior non avrebbe debuttato in società come meritava. Mentre percorrevamo in auto il lungomare, osservavo nauseata tante coppiette a passeggio; uomini e donne, mano nella mano. — Il mare è agitato e si è alzato il vento, — proferì Lucio interrompendo i miei pensieri, senza distogliere lo sguardo dalla guida. Quella volta avevo analizzato con più attenzione il suo profilo e avevo stabilito che il suo naso fosse insignificante e misero. Non avrei saputo disegnarlo a memoria e questo era sufficiente per stabilire che si trattasse di un naso del tutto inutile. Pensavo che un naso che resta immobile quando ridi o parli, come quello che si portava Lucio sulla faccia, non avesse ragione di essere e che gli sarebbero bastati due fori direttamente piazzati sul viso, giusto per respirare. Avevo sperato che non trovassimo posteggio, almeno non subito, così avremmo saltato se non altro il primo atto, ma alla fine la sorte mi era stata ostile e avevamo trovato posto sul lungomare, proprio accanto all'ingresso del teatro. Il tempo stava mettendosi male, pioveva violentemente e il mare si era agitato, quando a un tratto si udirono delle grida disperate; un ragazzino caduto in acqua era spinto sempre più a largo dalle onde minacciose. — Eccomi piccolo, non preoccuparti! — urlai con tutto il fiato che avevo in corpo. — Tieni duro, sto arrivando. — Mi tuffai in acqua senza pensarci un istante. Lottavo contro il mare nuotando a grandi bracciate. L'inaspettata bufera imperversava e il mondo sembrava aver cambiato colori. Sarei potuta annegare da un momento all'altro, ma in quel frangente contava una sola cosa: salvare quel bambino che rischiava di essere inghiottito dalle acque tempestose. Continuai a nuotare, nuotare, nuotare, noncurante della mia incolumità. La madre sulla riva urlava e piangeva, e tutti i passanti, attoniti e impotenti, scuotevano la testa. La mia figura scomparve tra le acque, ma poco dopo riapparve insieme con quella del piccolo disperso; con estrema difficoltà e con una tenacia che non sapevo di avere, lo portai in salvo sulla battigia. Scoppiò un applauso fragoroso. — Brava, brava! — urlò qualcuno. Gli altri continuavano ad applaudire e, mentre stavo avendo il mio meritato momento di gloria, si accesero le luci. Un robusto signore, vestito di blu, stava ritto davanti a me e acclamava una donnina sul palcoscenico che stava raccogliendo una rosa: — Brava, bravissima! —. Gli altri attori, sudati e sorridenti, si stavano inchinando. Dalla sala, il pubblico entusiasmato batteva le mani a più non posso. — Hai dormito anche stasera? — osservò deluso, Lucio. E dopo, in macchina, una parola tira l'altra e il mio record di fidanzamento più lungo fu stroncato dalla solita banale motivazione: non siamo fatti l'uno per l'altra! Dopo otto mesi, ero tornata nuovamente sulla piazza. — Senza rimpianti né rimorsi, — gli avevo sussurrato accarezzandogli il volto, e poi ero scivolata silenziosamente fuori dalla sua auto. Lucio aveva obiettato con ogni argomentazione sensata che gli era passata per la testa. Infine, ricurvo su sé stesso, tamburellando con le dita sullo sterzo: — Fai tu! — disse, — come sempre, fai tutto da te! Non sono mai stata una di quelle donne che seducono e abbandonano un uomo con la volontà di farlo. Nessuna sete di vendetta verso l'altro sesso per qualche antico trauma subìto né alcun bisogno di ricevere conferme o di affermare la superiorità femminina. Semplicemente noia, a un certo punto della storia mi annoiavo. Dall'amore alla noia, in un batter d'ali. Elisa, in merito, aveva una sua ridicola idea che aveva a che fare in qualche modo con Peter Pan; la mia amica dal nasino piccolo, piccolo, di quelli all'insù, che consideravo tipico delle persone che non capiscono come va la vita. Ritenevo che il naso rivelasse la vera natura delle persone e quindi non tenevo mai in considerazione quello che diceva Elisa. — Ero certa che questa volta avessi trovato l'uomo che faceva per te e, invece, non fai altro che confermare la mia tesi! — Elisa mi aveva rimproverato il giorno dopo, al telefono. Io, come di norma, avevo troncato sul nascere quello che mi appariva soltanto un patetico e inutile biasimo. Ero convinta che non fosse un bene per lei farla parlare troppo perché, a causa dei piccoli fori del suo nasino, non ritenevo possibile che incamerasse ossigeno sufficiente per più di una decina di parole. A breve, sarei passata a prenderla per andare alla Plaia di Catania. Giornata calda ma non troppo, sole splendente e un leggero venticello. Perfetta condizione climatica per trascorrere una giornata al mare e anche, ahimè, per stendere la biancheria. Uscii in balcone in punta di piedi perché temevo che un qualsiasi rumore superiore a pochi decibel avrebbe destato l'attenzione del Vecchio. Indossavo una gonna jeans vertiginosamente corta e quello spettacolo gratuito non era per lui. Appena in tempo per l'ultimo slip e la sua testa bianca fece capolino. Subito mi ritrassi con un salto indietro e fui spalle al muro. Lì, dov'ero, lui non avrebbe potuto vedermi. Sarei potuta scivolare rasente muro e ritirarmi segretamente dentro casa, ma la tentazione di capire fin quanto il mio sospetto fosse fondato fu più forte. Mi appoggiai alla ringhiera e gettai uno sguardo veloce verso il basso. Lui era lì. La sua testa inclinata all'indietro e i suoi occhi fissi su di me. Corsi dentro casa, spinsi una sedia contro i portelli del balcone, mi lasciai cadere sulla sedia e abbandonai la testa tra le mani. Ero certa di essere in pericolo. Avrei dovuto fare qualcosa. Subito!
Elisa aspettò un'anziana signora che avanzava lentamente verso l'edificio, poi diligentemente accompagnò il portone perché si chiudesse senza fare troppo rumore. Elisa era deliziosa, una cordiale vicina di casa, un'affettuosa amica, un'amorevole compagna, una premurosa mamma. Martina, invece, era una bambina grassoccia e introversa, come il padre. Ogni volta che vedevo madre e figlia insieme, mugugnavo. Non tolleravo che la ragazza più bella del liceo, quella che tutti i maschi avevano sperato di invitare a uscire e che tutte le femmine avevano ammirato con un'invidia mal celata, avesse messo al mondo un piccolo mostriciattolo. Le osservai con attenzione pensando che forse avrei dovuto stropicciarmi gli occhi per vedere meglio, per scorgere una bambina minuta e delicata, la cui figura ricordasse quella della mamma. Elisa indossava un vestito di lino chiaro, i suoi lunghi capelli setati brillavano e il suo corpo snello si muoveva elegantemente mentre un venticello dispettoso le danzava intorno. Era bellissima, come sempre. Accanto a lei, Martina, impacciata, costretta in un prendisole verde chiaro. La principessa Fiona e il suo amato Shrek. Perché mai Elisa si ostinasse a vestirla di colori chiari, davvero, non lo capivo; ritenevo che per Martina ci volesse il nero, per nascondere, nei limiti del possibile, quello che andava nascosto. Una volta avevo suggerito alla mia amica di rivedere l'abbigliamento della figlia. — Nero? — Elisa mi aveva sorriso affettuosamente. — È una bambina di cinque anni, non va bene il nero, per lei ci vuole allegria, colore —. Ok, forse, aveva avuto ragione lei, ma addirittura color orco mi sembrava esagerato. — Hai dato un bacio alla zia Paola? — domandò Elisa lanciando un'occhiata di incoraggiamento alla figlia. Io non mi sentivo la zia di nessuno, tanto meno di Martina. Elisa pareva tenerci molto a questo teatrale legame di sangue e io la assecondavo con qualche sorrisino accennato. In realtà, non sopportavo per niente che lei avesse deciso per me e pensavo che se avessi avuto la voglia di diventare zia, sarei stata io stessa a dirlo, in clinica, cinque anni prima, quando mi avevano depositato tra le braccia quel fagottino di carne o forse più in là, quando il fagotto aveva mosso i primi passi, con la tipica frase sei l'amore della zia o con altre smancerie del genere. Invece, non mi era mai passato per la mente. E tutto ciò mi sembrava una violenza. Giungemmo in spiaggia in meno di mezz'ora. Nonostante fossero già le nove passate, il traffico cittadino non era intenso e il litorale della Plaia era deserto. Le vigilie mettono fuori gioco tutti coloro che scelgono di fare baldoria l'intera notte. Quelli dormono per l'intero giorno di festa e le città restano spopolate offrendo spazi e serenità agli altri che invece sono rimasti beati a dormire nel proprio letto. Il trionfo degli esseri umani di buon senso. Tuttavia, quella mattinata di Ferragosto si rivelò tutt'altro che rilassante. Non appena arrivate in spiaggia, noleggiammo due lettini e un ombrellone sotto il quale furono accuratamente sistemati Martina, secchiello, paletta e borsa frigo. Poco dopo, eravamo già cosparse di super abbronzante per il corpo, super protezione per il viso, super olio idratante per i capelli. La spiaggia ancora era quasi vuota. I nostri vicini di ombrellone erano, a destra, una famiglia tipo: un papà che leggeva, una mamma che osservava vigile i figli giocare sulla battigia e una nonna all'ombra che sorrideva fissando il mare; a sinistra, un palestrato tirato a lucido se ne stava immobile sdraiato sotto il sole con un costumino ridicolo e luccicanti Ray-Ban sul naso; dietro di noi, due ragazzine lo guardavano ridacchiando imbarazzate. Seguivano una decina di ombrelloni chiusi e un po' più in là... “Lucio?”. Lui era lì per me, non avevo dubbi. Mi stava aspettando e chissà da quanto tempo. Sentivo i suoi occhi rabbiosi su di me e bruciavano più del sole. — Elisa? Non voltarti. Non farlo assolutamente. Prometti? — Prometto. Perché, Paola, che succede? — Non ci crederai mai, c'è Lucio! — Oh, mamma. E dov'è, esattamente? — Dietro di te, in fondo, oltre il chiosco. Mi raccomando, resta immobile e non girarti per nessun motivo! — Che intendi fare? — Sono furiosa e non lo so, devo riflettere —. Elisa mi consigliò di fare in modo tale da incontrare casualmente il suo sguardo per poi salutarlo con un sorriso gentile e un affettuoso cenno della mano, così avrei messo lui nelle condizioni di decidere la mossa successiva. Io sarei stata garbata e lui si sarebbe assunto la responsabilità di stabilire una regola per gestire, ora e in futuro, i nostri eventuali incontri. La mia amica era stata molto determinata nell'espormi i pro e i contro di ogni possibile azione-omissione e mi aveva quasi convinto per il saluto a distanza, quando una coccinella le si posò sul naso, sul suo piccolo, aggraziato, nasino all'insù. Assolutamente no, non avrei mai salutato Lucio. Tutt'altro. — Che ti ha fatto? Perché non lo lasci in pace? — ripeteva continuamente Elisa. In effetti, non mi aveva fatto proprio nulla, però in quel periodo ero già abbastanza infastidita dal Vecchio del Cortile Pagnocco; anche un vecchio fidanzato ossessionato non me lo potevo permettere. Avrei fatto da me, come sempre! Elisa raccontava entusiasta delle sue ultime scoperte culinarie mentre Martina, ispirata, continuava a urlare la sua fame. Il cucciolo aveva già fagocitato, in un paio di ore, una busta di patatine, una crostatina e un gelato con panna. Io, taciturna, elaboravo, scartavo, riproponevo e perfezionavo il mio piano anti-ex, fin quando si accese la lampadina. — No Paola, non va bene, è una cattiveria. Smettila di essere così maligna. — Il suo naso era rivolto verso il cielo e ora mi sembrava ancora più piccolo. Più guardavo il suo naso e più ero sicura che non le avrei dato credito. — Lucio è stato sempre adorabile con te, — sentenziò la mia amica mentre accertava che i suoi piccoli seni fossero al sicuro dentro il costume rosa. — Ieri sera gli ho ordinato di non farsi né vedere né sentire per un po', e, invece, eccolo lì... è pure fortunato, indosso il suo costume preferito. Lui dice sempre che gli piace da matti perché, quando esco dall'acqua, è trasparente. — Forse è qui a mare semplicemente perché gli andava di esserci... Martina vieni qua, non dare fastidio a quei signori. — Non dire assurdità! Lucio ha sempre odiato il mare, e adesso gli piace da un giorno all'altro? — Beh! anche a te fino a ieri piaceva Lucio e ora sembri odiarlo. — Ti ricordo Adriano, nel caso in cui l'avessi scordato. — Adriano? — Tre fidanzati fa... — Ah, sì, Adriano, il personal trainer. — Mi ha perseguitato per mesi, solo perché avevamo deciso di restare buoni amici. È stato un incubo. Menomale che poi ha trovato un'altra e si è sposato. — Ho saputo che ha cambiato città. Povero Lucio, sarà costretto anche lui a lasciare Catania? — Ho già deciso. Gli farò recapitare un biglietto col quale gli intimerò di andare via, minacciando un'imminente denuncia per stalking! — Paola, non puoi accusare di stalking una persona che prende il sole... — Posso, anzi, devo! — la interruppi bruscamente. — Nessun uomo può affliggere una donna, perseguitandola e ingenerandole gravi e perduranti stati di ansia e paura, compromettendone la serenità e costringendola a cambiare le proprie abitudini di vita, — riferii mentre facevo scorrere la schermata del mio iPhone sulla definizione di Stalker. — Ma se fino a ieri sera eravate a teatro insieme. Ti renderai ridicola. Posso voltarmi solo un attimo? Sono curiosa. — Noooo! Non voltarti per nessuna ragione al mondo. Vuoi mandare all'aria il mio piano? Se tu gliene dessi l'occasione, ti saluterebbe e magari verrebbe qui —. Di tanto in tanto mi chiedevo perché mai generassi quest'assoluta fastidiosa dipendenza negli uomini, poi guardavo il mio seno abbondante, i miei fianchi morbidi, le mie gambe snelle e sospirando me ne facevo una ragione. — Ecco, è perfetto! — Mostrai alla mia amica il biglietto che avevo appena scritto:
Adesso basta! Cosa sei? Un maniaco ossessivo compulsivo?! Ho visto che mi stai fissando insistentemente e pretendo che tu vada via subito. Non ti permetterò di rovinare la mia giornata al mare. Se non vai via immediatamente mi metterò a urlare e tutti sapranno che razza di pervertito sei. E se, come immagino, stai aspettando di guardare le mutandine del mio costume mentre esco dall'acqua, non ti illudere, resterò incollata al lettino finché non sarai andato via! Ti denuncio per stalking! Paola Tellico.
— Ma sei matta? È un messaggio offensivo e volgare! Non ti vergogni? — Perché dovrei? — Allora mi vergogno io per te! — Sempre con questa vergogna... — Povero Lucio, perché devi mortificarlo così? — Ormai è deciso. — Non ti seguirò in questa tua follia —. A quel punto, non mi restava che trovare un messaggero. Elisa mi vietò assolutamente di sfruttare la sua bambina per un compito così ingrato. Martina, invece, piangeva perché voleva partecipare al bel gioco che la zia le aveva proposto; in cambio, le avevo promesso un lecca-lecca alla coca-cola. Mentre il dibattito proseguiva vivacemente, si avvicinò un senegalese. Lui chiese tre euro per un dvd e io gli diedi quattro euro per recapitare il messaggio. Raccomandai a Elisa di non muoversi e di continuare a fissare il mare. Appena un minuto dopo, Martina, che su autorizzazione di Elisa era stata nominata supervisore della missione, mi riferì che Lucio stava leggendo il mio biglietto. — E adesso? che cosa sta facendo? — domandai sottovoce mentre fissavo anch'io il mare, con il capo immobile incollato al lettino. — Si è tolto il cappellino e si sta grattando la testa. — E ora? — Ci sta guardando. — Ok, continua, dimmi che fa! — Si è alzato. — Bene! — Zia, sta camminando. — Ottimo. Vedi Elisa? Che ti avevo detto?! Ha funzionato! — esclamai divertita ed emozionata. — Martina, non perderlo di vista. — Cammina, cammina, cammina... — cantilenava la piccola. “Perfetto, adesso correrà via a gambe levate”, immaginai soddisfatta, “tra poco sarà fuori dalla spiaggia”. — Allora, è andato via? — Fremevo. — No. — Come no? Esattamente, adesso, dove si trova? — Dietro di te, zia. In una frazione di secondo pensai, mi voltai e realizzai che qualcosa non era andata come previsto. — Oh, mio Dio! — Elisa scattò in piedi e restò paralizzata per qualche secondo. — Buongiorno, Signora, — esordì quell'uomo che mi guardava dall'alto sventolando un biglietto, anzi, il biglietto. “Accidenti!” pensai, “quel senegalese ha recapitato il mio messaggio alla persona sbagliata”. Guardai oltre la figura di quell'uomo certa di scorgere Lucio sotto il suo ombrellone; volevo chiamarlo e spiegare l'accaduto ma la sedia era vuota e Lucio non c'era più. Capii troppo tardi che Lucio non c'era mai stato. C'era stato solo quest'uomo che, severo, se ne stava lì, ritto, nell'attesa di spiegazioni ma già deciso a multarmi per l'infrazione commessa. — Il suo comportamento è inqualificabile! — asserì lui. Elisa fece un segnale con la mano e si trasferì con Martina sotto un ombrellone libero, poco distante. — Mi scusi, in realtà... — tentai di giustificarmi, ma quell'uomo mi vomitò addosso una valanga di insulti. — E poi, chi si crede di essere?! Solo perché ha un po' di silicone in più delle altre, pensa di essere una bella donna? — Eh, no, ora basta! È da cinque minuti che parla solo lei. Prima di tutto, qui silicone non ce n'è, tranne che lei non indossi un parrucchino, secondo, quel biglietto non era destinato a lei, terzo... — Signora o signorina Paola Tellico, — vociò mentre esaminava il mio biglietto, — lei non è nella posizione di usare questo tono. Mi dia piuttosto le sue generalità! — Le mie generalità? Lei è un pazzo! — strillai, — e ora se ne vada e ci lasci in pace! se ne vada immediatamente o chiamo i Carabinieri! —. Tutti i bagnanti si erano voltati verso di noi e ci guardavano incuriositi. L'uomo fece spallucce. — Come preferisce, ma le assicuro che non finisce qui. — Appena l'uomo si fu allontanato, sentii crescere dentro di me un'incontrollabile voglia di piangere e i miei occhi divennero umidi. Tra tutti gli uomini che avrei potuto scambiare per Lucio, avevo beccato un bigotto misogino. Elisa trascinò Martina verso la nostra postazione, tornò a sedere, aprì una rivista e restò in silenzio per un po'. Poi, senza rivolgermi lo sguardo, annunciò con molta calma: — Questo è stato un avvertimento, Paola, tiri le tue conclusioni frettolosamente e ti lasci trascinare dalla fantasia, hai visto qualcosa, anzi qualcuno che non c'era. Fai ancora in tempo per evitare di combinare uno dei tuoi soliti pasticci, lascia stare in pace il povero vecchietto del cortile. Da qualche tempo volevo dirtelo, ma non ero sicura che tu ti sbagliassi. Ora lo sono. Credo che ultimamente tu soffra di manie di persecuzione —. Elisa era molto arrabbiata; quando non mi guardava negli occhi, stava manifestando tutta la sua disapprovazione. Mentre addentavo una fetta biscottata ricoperta di marmellata, l'episodio del giorno prima rotolava avanti e indietro nella mia testa e, urtando contro i miei doloranti neuroni, mi rendeva nervosa, in balìa dell'ansia. Cercavo di pensare ad altro ma subito l'immagine ombrosa di quell'uomo prendeva vita, ora sventolava il foglietto, ora mi mortificava con un crudele stile da inquisitore. Poi pensavo a Lucio ed ero spropositatamente arrabbiata con lui per non essere stato lì, sotto quello stronzo ombrellone, al posto di quell'arrugginito puritano. Ed Elisa? Mi sentivo ferita nei miei sentimenti e mi dicevo che si sarebbe dovuta preoccupare un po' meno dei miei errori e un po' più dei suoi, perché, un giorno o l'altro, quella bambina le sarebbe esplosa tra le mani e io, allora, sarei stata costretta a dirle: “È stato un avvertimento Elisa, se mai decidessi di mettere al mondo un'altra creatura, rispetta gli standard umani. Non avresti dovuto infilarle dentro tutto quel cibo. Tiri le tue conclusioni frettolosamente e ti lasci trascinare dalla fantasia, hai visto qualcosa, anzi qualcuno che non c'è... quella non è una bambina, è un cucciolo d'orco!” La giornata era splendida anche quel lunedì, ma mi attendevano sei ore di prigionia. Come al solito, si era fatto tardi. Lanciai un'occhiata veloce alle lenzuola stese fuori e decisi che le avrei ritirate al mio rientro. Quel giorno avevo un turno centrale, un ingombrante turno di lavoro, che iniziava alle ore 12:00 e terminava alle ore 18:00. — Ciao Agata, sono in ritardo di dieci minuti, — comunicai al mio team leader. Agata mi offrì un sorriso distratto. Agata era uno dei diciannove team leader cui facevano capo altrettanti team di assistenti telefonici. — Naturalmente ci penserà l'ufficio del personale, — bofonchiò lei, mentre martellava la tastiera del suo computer. Vedevo i team leader come strozzini che dovevano spillare quanta più produttività possibile per l'Azienda e che pensavano di essere, per conto dei Manager, una specie di agente diplomatico in missione, in diritto e dovere di fare e dire tutto pur di attuare gli altissimi fini istituzionali. Con un innato animo patriottico, conducevano il loro piccolo esercito verso la conquista degli obiettivi aziendali: rispetto di una certa durata massima della chiamata, rispetto di un intervallo di un tot di secondi tra una chiamata e un'altra, indice di soddisfazione del cliente e bla, bla, bla. Ancora una volta mi trovavo in quel capannone, seduta davanti a un computer con un guinzaglio in testa. Prima di attivare la cuffietta mi guardai intorno e provai tanta pena per tutti loro. Pensavo che i miei colleghi fossero appassiti là dentro; dove erano stati sepolti sogni e ambizioni. Tutte quelle teste stanche, alcune ormai pelate o brizzolate, altre scompigliate e trascurate, quelle bocche automatizzate che si aprivano e chiudevano, quelle mani ora agitate, ora annoiate. Erano stati assunti ancora giovanissimi, si erano accoppiati tra di loro, avevano acceso mutui trentennali e sfornato ciurmaglie di bambini e alla fine dipendevano in tutto e per tutto da quel lavoro meschino, erano invecchiati prima del tempo e avevano perso la libertà di amare e di lasciare un lavoro odiato. Io, invece, che avevo sempre rispettato la mia unicità fisica e giuridica, sapevo di essere diversa da tutti loro; ero libera di andare via e stavo solo aspettando l'occasione giusta.
BIP — Buongiorno, sono Paola, in cosa posso esserle utile? — Signorina Paola, mio marito mi chiama al telefonino e risponde un'altra persona. — Il suo numero è quello da cui ci sta chiamando? — Sì, 3XX 5151679. — Signora, non è questo il suo numero. — No, no, signorina, è questo. Mio marito lo tiene registrato nella sua rubrica. — Signora, le garantisco che il numero non è questo. Suo marito ha sbagliato a memorizzarlo. — E come può dirlo con certezza? — Signora, io lo vedo. — Mio marito? — Non suo marito, il numero!
Alle 17:59, dopo una serie di folli conversazioni telefoniche e una tempestiva contestazione disciplinare per il mio ennesimo ritardo a lavoro, ero davanti al lettore magnetico con il badge in mano e il piede destro in avanti, pronta per scattare. Dietro di me, una decina di colleghi, anche loro sui blocchi di partenza. Ready, set, ore 18:00, go! Non appena sulla via del ritorno per casa, provai quella familiare emozione che mi accompagnava tutte le volte che stavo per passare da via Mulino a Vento, ma mi sovvenne che Lascia stare il fai da te! sarebbe stato chiuso e non avrei potuto sbirciare oltre le porte di vetro, come al solito, quando rallentando la corsa cercavo di rubare qualche immagine dall'interno. Tuttavia, senza neanche rendermene conto, mi ritrovai con la fronte appiccicata alla vetrina; le luci erano spente. Dinanzi a me, oltre il vetro, un'enorme bacheca ricca dei più disparati oggetti; dal più piccolo e inutile bullone ai grandi mobiletti fatti a mano, alcuni ancora da scartavetrare, altri già pronti per la consegna. Ecco, in fondo non era poi così male poter guardare indisturbata. Riuscivo a vedere una buona parte dell'interno del negozio e in particolare alcuni grandi scaffali pieni di attrezzi e materie prime fondamentali per il fai da te. Era il momento giusto per registrare una serie di informazioni utili. Corsi verso la macchina e dal cruscotto estrassi uno dei miei block-notes per annotare qualche acquisto che avrebbe potuto tornarmi utile in futuro, cosicché durante le mie frequenti incursioni nessuno cogliesse la mia impreparazione notando i miei occhi roteare nervosamente alla ricerca di qualcosa da comprare. Mi appiccicai nuovamente al vetro. Occorreva un titolo degno della mia idea geniale. Per di più il block-notes era nuovo, andava anche catalogato. In casa avevo una dozzina di BN catalogati. Tutte le volte che dovevo realizzare un progetto che ritenevo particolarmente pregiato, mi munivo di penna e block-notes. Intitolavo, datavo e numeravo. Per gran parte della mia vita, sin da quando ero stata bambina, avevo fatto quello che mi dicevano gli altri. Mamma, papà e due fratelli maggiori. Terza dopo due maschi, non riuscivo a immaginare status familiare inferiore di quello che mi era toccato. Diciassette anni di: Ascolta la mamma e il papà! Sono o no, il tuo fratello maggiore? Sono o no, il tuo fratello maggiore? E così ero andata in piscina per raddrizzare le spalle e non a scuola di danza; avevo frequentato il liceo classico per imparare il latino e il greco e non quello artistico; avevo vissuto in una stanzetta rosa piena di bambole collezionando brevetti di nuoto accuratamente appesi alle pareti e avevo sopportato un fidanzato noioso e occhialuto che piaceva tanto alla mia famiglia. In conclusione, non avevo fatto nulla di quello che avrei voluto fare e avevo finito col dimenticare di chiedere a me stessa cosa mi piacesse veramente, quali fossero i miei obiettivi. Finché un giorno, mentre mi guardavo allo specchio, apparve la vera me stessa che proferì queste parole: — Cara Paola, è il momento di fare tutto da te! Fai da te e sarai felice —. E dopo una serie di riflessioni, capii che non esisteva al mondo migliore consigliera di me stessa. Chi fa da sé, fa per tre! Aiutati che Dio t'aiuta! Chi dà retta al cervello degli altri, butta via il suo! Chi si consiglia da sé, da sé si ritrova! Più ne sa un pazzo a casa sua, che un savio a casa d'altri! Sotto consiglio non richiesto, gatta ci cova! Qualche mese dopo, raggiunta la maggiore età, avevo trovato un lavoro a tempo indeterminato, una casa in affitto al pian terreno e un fidanzato musicista che mi fece capire come andavano trattati gli uomini. In quel periodo stesi il mio primo block-notes. Realizzai che per essere felici il fine ultimo e imprescindibile di ogni progetto dovesse essere il piacere. Decisi che avrei avuto ogni cosa che desideravo, senza farmi mai più influenzare dalle opinioni degli altri. La mia collezione di blocchetti ebbe vita e anche un titolo: Fai da te! Manuale completo Stabilii che ogni singolo capitolo, cioè ogni singolo BN del Manuale, avrebbe avuto un suo sottotitolo dedicato alla sfida che mi proponevo di affrontare e vincere. Vi avrei annotato tutti i dettagli delle mie missioni e un giorno avrei avuto delle memorie da tramandare. L'ultimo block-notes della mia raccolta, il n. 12, intitolato Meglio un giorno con una bruna che cento con una bionda, risaliva all'anno prima, al periodo in cui avevo conosciuto Lucio. Uomo d'altro tempo, fidanzatissimo, fedelissimo solo per principio, tanto, troppo sicuro di sé e che, seppur tradito dai suoi occhi lascivi, mi aveva apparentemente snobbato fin troppe volte. La sfida Fai da te! quella volta aveva previsto: 1) sedurre l'esemplare non tradirei mai e poi mai la mia donna; 2) eliminare la superfidanzata bionda prendendo il suo posto; 3) fare innamorare l'uomo snob perdutamente. In effetti, non avevo previsto di abbandonarlo dopo qualche mese, ma l'abbandono del maschio, a un certo punto, era inevitabile, quando il piacere ineluttabilmente diveniva dovere. Ancora non avevo aggiornato il BN n. 12, ma era arrivato il momento di aggiungere il resoconto finale colpito e affondato e procedere con l'archiviazione. La vicenda del negozio, invece, non era ancora molto chiara; non avevo focalizzato gli obiettivi e mi ero lasciata trasportare troppo delle emozioni. E poi, qualcosa di imprevisto aveva reso tutto diverso dal solito. Ottenere l'attenzione di un uomo, per me, non era mai stato un obiettivo da raggiungere ma il naturale punto di partenza del mio progetto. Una bandierina ben piantata su un terreno già conquistato prima ancora di mettervi piede. Quella volta non era andata così, e quella inaspettata situazione mi aveva disorientato. In quel momento, in cui mi trovavo da sola in prima linea sul fronte, iniziavo a vedere tutto con maggiore chiarezza. Non occorreva alcuna lista di cose da acquistare. Non più. Avrei dovuto rubargli un primo sguardo e la strada sarebbe stata spianata. Lui non si occupava delle vendite, stava sempre rinchiuso nel suo ufficio, un box a vetri dal quale usciva raramente o per recarsi presso l'ufficio di suo fratello o per riporre e prelevare fascicoli dagli armadietti disposti lungo il corridoio tra i due uffici, e in quelle occasioni, mentre lui percorreva quel corridoio trasportando pile di documenti, io potevo guardarlo, analizzarlo e desiderarlo in segreto. Frequentemente, fingendo di guardare barattoli insignificanti di vernice, mi ero sistemata ad hoc presso il reparto della pittura che era di fronte al suo regno inviolabile, cui aveva accesso esclusivo solo il personale autorizzato. Mi disponevo di spalle al suo ufficio, sicura che lui si sentisse libero di apprezzare il mio notevole lato B, oppure, quando capivo che stava per uscire dalla sua stanza, fingevo di telefonare camminando avanti e indietro e fornendo informazioni di ogni genere, del tipo dove sarei andata nella serata per bere una birra. E poi, nel dubbio, la serata ero costretta a organizzarla sul serio, ma restavo con la mia birra in mano, in compagnia persino pessima, fissando delusa la porta del pub di turno. Persa nelle mie fantasie immaginavo me e lui, nel suo ufficio, in rocambolesche performance, che includevano vestiti strappati, disinibite posizioni dell'amore, sospiri e morsi. Bruno Micale aveva una fisicità imponente, un fondoschiena da urlo e un naso che ti diceva ehi! non hai ancora visto il pezzo forte! Davanti a quella vetrina buia, stavo iniziando a capire. Non era più tempo di acquistare stupidi attrezzi e vernici colorate, occorrevano abitini nuovi mozzafiato e lingerie super sexy. Dovevo subito correre a casa per elaborare il mio progetto. Mentre mettevo in moto la macchina, lanciai un'ultima occhiata verso il negozio. In cima all'edificio, per la prima volta, l'insegna gialla e rossa “LASCIA STARE IL FAI DA TE!” mi apparse in tutto il suo significato; si era appena presentata la sfida delle sfide. La prova più importante da superare. Mi parve che la Vita, insinuante, mi stesse dicendo: — Hai sbagliato, Paola, non puoi farcela sempre da sola. Questa volta fallirai, come hai fallito in tutte le cose importanti della vita. Hai un lavoro che detesti, appena due o tre amiche di cui fidarti, un pessimo rapporto con la tua famiglia e non riesci a costruire una relazione stabile con uomo. E, adesso, non riesci più neanche nell'unica cosa di cui eri capace —. Io, ovviamente, dissentivo. Finalmente ritenevo di condurre la vita che desideravo. Prendevo tutto quello che potevo e rendevo indietro il minimo possibile. Carpe diem, mi dicevo sempre, o scarpe diem, se si trattava di fare shopping per il Corso Italia. Insomma, ero felice. Libera e meravigliosamente egoista. Il mio prossimo BN aveva un titolo: Lascia stare il fai da te? Mai!
Barbara Cappellani
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|