Residenza della famiglia Rotundo - Viale Virgilio, Taranto.
È una notte buia e nuvolosa di fine settembre. L'aria è frizzante, priva dell'umidità tipicamente estiva, carica di un'energia misteriosa. Si respira un'atmosfera magica, come se la natura stessa volesse rivelarmi i segreti della città dove sono nata. Mi sono concessa una cena a base di cavatelli e cozze, innaffiati con dell'ottimo vino bianco di Locorotondo, presso L'Aragonese, un nuovo ristorante nel Borgo Antico. Ho assaporato ogni boccone con gusto, lasciandomi conquistare dai sapori autentici della tradizione. Come sempre, quando vado a trovare i miei genitori, faccio una passeggiata sul lungomare, partendo dal palazzo dell'ammiragliato. La città si risveglia nella sua lucente veste notturna. Sembra stia aspettando me, per mostrarmi i suoi tesori nascosti. Adoro camminare lentamente e godere della vista del Castello Aragonese, che ha sempre avuto il potere di infondermi serenità e sicurezza, come tutte le fortezze militari. La sua imponenza e la sua storia mi riportano indietro nel tempo, facendomi sentire come una regina. Rientro in auto e mi dirigo verso la casa della mia infanzia. Non c'è niente di meglio di una serata perfetta come questa per riconciliarsi con se stessi e con il mondo.
Prima che nascessi, mio padre aveva acquistato Villa d'Andria, una villa patronale in stile neorinascimentale/neogotico, ormai in malora, sul Viale Virgilio. Gli eredi, un ramo cadetto dei conti d'Ayala, non avevano mai raggiunto un accordo sul da farsi. Dopo anni e tanti litigi, fu messa in vendita per una cifra irrisoria. Papà la riportò agli antichi fasti, grazie a una vecchia fotografia che ritraeva la villa nei primi del ‘900, quando la zona era quasi del tutto aperta campagna, con poche abitazioni di famiglie nobili che ne avevano stabilito la loro residenza estiva. Guardando Villa d'Andria dalla strada, non si può restare immuni dal suo fascino: la torre, sul lato sinistro, la rende simile a un antico maniero; l'alternanza di bifore e di finestre a griglia, dai raffinati architravi, le conferiscono una ricercata eleganza; il giallo paglierino della pietra leccese, usata per rivestire l'intera struttura, la fa risplendere nelle giornate di sole. Io non vivo più con loro. Dieci anni fa, mi sono trasferita in una casa realizzata all'interno di tre trulli, alla periferia di Martina Franca.
Parcheggio l'auto e scendo. Guardo su e giù per la strada dove sono cresciuta. Sento lo sciabordio delle onde del mare e un sorriso affiora sulle mie labbra: amo la pace della campagna martinese, ma adoro il mare. È come se il rumore delle onde fosse una melodia che parla alla mia anima. Di recente, papà ha fatto fare dei lavori di manutenzione: il muro di cinta e il cancello sono stati ripuliti; l'erba è stata rigenerata; la facciata della casa ripulita con appositi prodotti per questo tipo di materiale poroso. La salsedine è da sempre il nemico numero uno per i muri e gli infissi delle abitazioni prospicenti il mare, ma adesso la casa ha ritrovato il suo antico splendore, come se le fosse stata donata una seconda giovinezza. Nuove agavi fanno gli onori di casa lungo i bordi del vialetto d'accesso. Con le loro foglie verdi e rigogliose, regalano un tocco di colore e di esoticità all'ambiente. Ogni volta che torno in questa casa, dove ho trascorso i momenti più felici della mia vita, mi sento appagata. Qui, il passato, il presente e il futuro si fondono in un'unica e indimenticabile emozione. Sul prato dei vicini, la famiglia Pierri, fa bella mostra di sé una fontana illuminata che rappresenta un delfino, il simbolo della mia bella Taranto. Signori, forse è tempo di sostituirla, borbotto bonariamente scuotendo la testa. I Pierri possiedono quella fontana da sempre, da quel che ricordo. La bocca del delfino è ormai tutta sbeccata. Peccato, considerando come sia tenuta bene la villa. Il prato è perfetto. Poco più in là, ecco i signori Buccolieri che portano a spasso il loro cane. - Buonasera - , li saluto. Mi guardano senza riconoscermi. Mi hanno già dimenticata? Accennano un timido sorriso di circostanza. Mi avvicino al cancello di Villa d'Andria. Mi fermo di colpo. C'è qualcosa di strano, penso osservando la casa. La maggior parte delle luci all'interno sono spente. Quando mio padre è fuori città, mia madre tiene accese tutte le luci all'interno. Dice sempre che si sente più sicura senza tutte le ombre intorno. La capisco. Essere soli in una grande casa come questa incuterebbe paura a tante persone, soprattutto anziane. Apro il cancello e seguo il percorso dal vialetto fino alle scale. Salgo i tre gradini, attraverso il portico e, mentre sto per inserire la chiave della villa nella toppa, noto che la porta è socchiusa. C'è davvero qualcosa che non va. Mia madre non avrebbe mai lasciato la porta semiaperta, soprattutto quando mio padre è via. Spalanco la porta, correndo a controllare il pannello dell'allarme di sicurezza. Le luci sono tutte verdi. Non è stato impostato. Un oscuro presagio mi fa rizzare i peli delle braccia. Chiudo la porta all'istante e mi assicuro di dare tutte le mandate, poi mi giro e cammino verso il centro della casa, avvolta dal silenzio. Alcune costose acqueforti, che rappresentano il Castello Aragonese, mi fanno strada lungo il corridoio. - Mamma? - , grido nella speranza di sentire la sua voce. Nessuna risposta. A ogni passo, sento come un pugno nello stomaco. Attraverso il corridoio e arrivo nell'ampio salone. Oddio! Ma dalla mia bocca non esce alcun suono, mentre la disperazione mi assale. È tutto distrutto. I mobili sono stati rovesciati sul pavimento e fatti a pezzi. Vetri rotti e telai in frantumi ovunque. Le schegge scricchiolano sotto i miei piedi. Sembra che un tornado abbia squarciato l'interno della casa, distruggendo ogni cosa lungo il suo cammino. L'angoscia mi sta per sopraffare. - Mamma? - , chiamo di nuovo, tremante. - Sei a casa? - Regna solo il silenzio. - Mamma? Mamma? - , urlo con tutto il fiato che ho in corpo. Niente. Solo l'eco della mia voce. Il mio cuore batte forte nel petto. La scarica di adrenalina investe il mio corpo con violenza. Corro attraverso le stanze al piano terra della casa, nonostante le gambe sembrano cedere. Mi precipito al piano di sopra e controllo le camere da letto e l'ufficio. La camera da letto principale è stata messa a soqquadro e distrutta, ma lei non è da nessuna parte. Le lacrime scendono copiose sul mio viso e la chiamo fino a quando la mia gola non ha più voce. Questo silenzio è talmente surreale che mi sembra di essere caduta nel vuoto. Da una finestra rotta sento il suono del mare. Un tempo, quella musica era un toccasana per la mia mente. Ora... ho solo paura. Scendo rapida dalla scala sul retro e poi noto, attraverso una finestra, che la luce della piscina è accesa. È l'unico posto che non ho ancora controllato. E voglio esaurire tutte le possibilità prima di chiamare la polizia. Entro in cucina e apro le alte porte all'inglese che conducono in giardino. Guardo le sedie a sdraio, ma sono tutte libere. La luce nella piscina è l'unica fonte di illuminazione. All'inizio, non riesco a capire cosa stiano vedendo i miei occhi. Mentre raggiungo la piscina, sembra che nel mio stomaco si siano annidate delle anguille scivolose e oleose che si attorcigliano l'una intorno all'altra. Per una frazione di secondo, la mia mente rivede le tante vigilie di Natale mentre mia madre prepara le anguille e il capitone, secondo la tradizione tarantina. Poi, la vedo... No, non può essere, sussurro ansante e scuoto la testa come se negare ciò che sto osservando lo renda meno reale. Mi avvicino al bordo della piscina e vedo mia madre galleggiare a faccia in giù nell'acqua, completamente immobile. I lunghi capelli castani fluttuano di vita propria intorno alla sua testa come quella di una gorgone. E una corona cremisi ondeggia circoscritta al suo capo. Sangue... tanto sangue. Cado in ginocchio, le gambe non mi reggono più. Incapace di fermare il conato, vomito in piscina. Lo schizzo d'acqua, nel silenzio del cortile, è forte come un colpo di pistola. La mia vista è offuscata dalle lacrime e, mentre mi asciugo la bocca con il dorso della mano, un singhiozzo soffocato mi scoppia in gola. Guardo il corpo senza vita di mia madre e non riesco a smettere di fissare il nimbo rosso che la circonda. Mi alzo a fatica e, barcollando all'indietro, mi allontano dalla piscina. Devo costringermi a voltarmi dall'altra parte. Con le poche forze rimaste, corro disperata in cucina, apro la ventiquattrore, che avevo lasciato sul tavolo, cerco il cellulare e chiamo il 113, componendo il numero alla velocità della luce. Col telefono all'orecchio, e le lacrime che mi offuscano la vista, un gemito soffocato esce dalla mia bocca. - 113. Qual è la natura dell'emergenza? - - P... per favore, venite subito in viale Virgilio, 110. Famiglia Rotundo - , rispondo ancora sotto shock. - Mia madre è stata assassinata - .
Marcella Nardi
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