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Autore: Martina Menghi
Il fuoco di una stella
Thriller Mistery
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Il fuoco di una stella
Siamo schiavi.

Le nuvole scure si muovevano veloci nel cielo, sospinte dal vento: una goccia di pioggia mi cadde sul viso ma io non la riuscii a percepire. Non sentivo più niente, non sentivo ormai più nessun dolore.
Vivremmo diversamente se ci dicessero che il nostro tempo è scaduto? O continueremmo a trascinarci stancamente in giro per la città, immersi nella nostra solita vita, indossando le stesse maschere di sempre?
Perché guai a non essere perfetti.
Perché per essere imperfetti e orgogliosi di esserlo bisogna essere coraggiosi.
E io non lo ero, non lo sono mai stata.

Quella mattina, come ogni anno all'arrivo del primo freddo, l'aria gelida che mi colpì le guance mi ricordò, se mai ce ne fosse stato bisogno, che ormai era inverno. Era arrivato e con esso la malinconia.
Per la consapevolezza di un altro anno che stava volgendo al termine e che nulla aveva cambiato, per l'inizio di una stagione che non avrebbe portato altro che pioggia e foglie morte, che avrebbe avvolto tutto per lunghi mesi che a volte mi sembravano durare anni. Per il freddo, che ogni cosa avrebbe congelato e reso immobile. Gli alberi e i suoi fiori. Le nostre vite e tutto ciò che ci portiamo dentro.
Per la sensazione di tristezza che mi dava passeggiare sui marciapiedi bagnati e resi splendenti dalla luce dei lampioni riflessa nelle pozzanghere e sull'asfalto umido.
Lo facevo spesso, camminare per le vie della città ogni giorno dopo il lavoro, sotto il cielo grigio dell'inverno romano con gli occhi fissi su quella strada bagnata, nera e fredda, con l'aria che mi tagliava la faccia affondata più che potevo nella sciarpa, assorta nei pensieri, isolata dal resto del mondo dalla musica nelle orecchie. E grigio, proprio come il cielo, era il mio stato d'animo.
Si dice spesso che le grandi città siano bellissime sotto la pioggia. E lo è anche Roma.
Ma non era questa sensazione di meraviglia e ammirazione che in me suscitava.
Non vedevo la bellezza, né il fascino dei suoi monumenti eterni, tantomeno l'allegria delle strade perennemente affollate dal vociare dei turisti. Ne percorrevo quotidianamente i reticoli dei vicoli e tutto ciò che avevo davanti agli occhi altro non era che la sua vita frenetica che scorre alla velocità della luce e che tutto inghiotte, come in quelle foto che catturano per sempre la scia di luci delle macchine. Lo notavo dai tristi guidatori imprigionati nelle auto imbottigliate nel traffico, privati di tempo che non verrà loro mai più restituito; nella donna imprecante ferma al semaforo in ritardo nell'andare a prendere suo figlio a scuola; nel nervosismo della gente impaziente per l'arrivo dell'autobus, o che cammina in fretta, troppo in fretta, rincorrendo sempre il prossimo impegno, tanto da non permetterle neanche di guardarsi intorno, di vedere davvero cosa accade, né le persone che si incrociano ogni giorno.
E anche io ormai avevo scordato quanto era bello ciò che avevo davanti.
Non è sempre così che accade? Non è da qui che tutto inizia?
Guardare senza vedere davvero. Quanto c'è di bello al mondo, nelle nostre città, nelle nostre esistenze, in chi è accanto a noi.
Comincia qui la nostra infelicità, quando ci arrendiamo a vivere in quel grigiore? O nasce quando non ci rassegniamo più all'idea di essere degli schiavi?
Quante volte mi sono ritrovata allo stesso modo immersa in quella vita frenetica e quante volte mi sono sentita anche io così. Cupa, grigia, malinconica e bagnata, come i marciapiedi della città d'inverno.
Quante volte mi sono ritrovata, seduta nel tram che mi riportava a casa, ad osservare le persone e a chiedermi chi fossero e dove stessero andando. Cosa avrebbe trovato, rientrando dal lavoro, la signora seduta di fronte a me dopo essersi chiusa la porta alle spalle, se il calore di una famiglia rumorosa oppure la solitudine di una casa vuota, senza voci né affetti.
Non sappiamo mai cosa si cela dietro l'apparenza degli altri; non conosciamo mai davvero la loro storia, i loro pensieri, le loro aspettative, le loro speranze.
Perché in fondo non facciamo altro che portarci dentro luci e ombre che lasciamo sopite per la maggior parte delle nostre vite, cercando di soffocarle. Ma non si agitano forse in noi zone oscure, terreno dei nostri tumulti e dei nostri istinti? Non abitano in noi mostri e al contempo bambini sognanti?
Mi chiedevo cos'avrebbe visto chi si fosse soffermato su di me, seduta in quel tram, infagottata nel mio giaccone e nella mia sciarpa, con i capelli increspati dall'umidità e lo sguardo fuori dal finestrino. Forse si sarebbe limitato a vedere ciò che aveva davanti: una ragazza esile, dal viso di porcellana e la bellezza algida, come sono sempre stata descritta per via dei capelli biondissimi e gli occhi cerulei. Una donna visibilmente stanca, sempre di corsa, con le mani perennemente piene di borse e documenti e in ritardo per qualcosa, che rientra a casa dal lavoro. Come ogni giorno negli ultimi dieci anni. Questo e nulla più.
E allora, è questo che siamo?
Il lavoro che facciamo, la casa in cui abitiamo, la persona che sposiamo, gli impegni che ci scandiscono il tempo e che rodono subdolamente le nostre giornate. Si riduce tutto a questo?
A volte mi sembra di vedere la ragazza che ero qualche anno fa, così donna eppure ancora così bimba, piena di sogni e certezze su quello che sarebbe stato il suo futuro, sulle bellezze dalle quali era convinta avrebbe vissuto circondata, sulla vita anticonformista che era certa avrebbe avuto... Mi fissa e scuote la testa. È forse arrabbiata, delusa o semplicemente è rimasta cristallizzata in un totale stato di rassegnazione? Beh, immagino che le dovrei chiedere scusa. Lei non lo sapeva, ma basta un attimo per ritrovarsi in quella che chiamano normalità.
Ma perché nessuno ci mette in guardia? Perché nessuno ci avverte del destino che ci stiamo disegnando, del baratro verso il quale stiamo correndo e nel quale stiamo precipitando senza più poter tornare indietro?
Chiudi un istante gli occhi e il tempo ti scorre tra le dita, come l'acqua della sorgente più pura e si sa, nessuno può riavvolgere la propria esistenza e avere una seconda occasione. Ti accorgi di non avere più tempo per fermarti a disegnare sul tuo blocco per il solo gusto di farlo, né per guardare un tramonto, compagno di tanti pomeriggi della mia adolescenza.
Non ho tempo... Non ho tempo...
Ce lo ripetiamo, ancora e ancora. Ed è la verità.
O è solo una scusa?
Passano gli anni e perdi il conto di quante mattine sei stata strappata dal sonno dal suono fastidioso della sveglia e quante volte hai dovuto ripetere a te stessa la ragione per la quale alzarti dal letto, fuori dalle coperte calde... Ma chi me lo fa fare? E quante volte ti sei dovuta convincere che è giusto così, perché la vita è questa. Che non hai niente di cui essere arrabbiata né amareggiata perché il mondo va così e tu non sei altro che una piccolissima parte di quell'ingranaggio che ci vuole tutti tranquilli e perfetti, tutti incanalati su quel binario che consente alle società di funzionare in modo ordinato e che tende a far sentire diversi coloro i quali stanno per uscire - che vogliono disperatamente uscire - da quel binario.
Perché alla fine, non è la normalità ciò per cui combattono le persone? Un lavoro, una casa e una famiglia? Non è questo che riempie i nostri giorni, che ci fa sentire che il nostro passaggio su questa terra non è stato vano?
Eppure, perché ad alcuni non basta? Perché alcuni non possono arrendersi alla tranquillità, all'ordinarietà della vita? Rincorrono per tutta la loro esistenza la serenità e quando ce l'hanno... Maledetta ingrata.
Siamo condannati ad andare sempre in cerca di qualcosa? Ad errare in un viaggio senza fine per voler sempre appagare il nostro desiderio e poi a soffrire per averlo fatto? A rinunciare ad abbandonarci all'emozione e a vivere una vita fatta di quotidianità, di ruoli, di aspettative cui rispondere?
Siamo condannati all'infelicità?
O siamo solo degli schiavi delle nostre emozioni, quando invece ci illudiamo di essere liberi?

Ancora una volta a questo stavo pensando, quel pomeriggio di inizio febbraio, mentre tornavo da una riunione di lavoro. Al tempo seguivo un cantiere per una villetta in costruzione, in qualità di progettista e, per l'ennesima volta, si era discusso delle problematiche avute con i fornitori: ritardi nelle consegne dei materiali, cambi di idee del proprietario, e ancora e ancora...
Perché non sono su una spiaggia a sorseggiare un cocktail?
Per l'ennesima volta sono stata ad ascoltare le urla insensate del titolare della società.
Perché sopporto tutto questo?
E quante volte ho immaginato nella mia mente la scena in cui, senza dire una parola, mi alzo ed esco, lasciando tutti lì seduti intorno al tavolo, a fissarmi spaesati.
No, non posso farlo: questi soldi mi servono.
In fondo sono cose che capitano sul lavoro, mi dissi. Sbrigate le ultime pratiche, abbiamo concluso l'incontro, ho salutato tutti svogliatamente e mi sono avviata verso la fermata del tram, anelando già al momento in cui sarei potuta andare a letto a dormire.
È questo il triste destino per molti di noi. Trascinarci stanchi verso il meritato riposo dopo una lunga giornata di lavoro, per poi ricominciare tutto daccapo il mattino dopo. Giorno, dopo giorno, dopo giorno.
Era tardo pomeriggio e ormai era buio da parecchio. Il cielo andava annuvolandosi pericolosamente e temevo stesse per piovere, così seguii velocemente la strada lungo la fila di macchine parcheggiate e imboccai dentro i giardini di Colle Oppio, per attraversarli e arrivare rapidamente alla banchina dove aspettare il tram. Camminavo, come sempre, a testa bassa. Il lettore musicale, impostato sulla riproduzione casuale, passava Boys Don't Cry dei The Cure: quanto è bella e quanto è triste quella canzone, perfetta per il mio umore.
Il parco era deserto, a quell'ora d'inverno; gli unici rumori in sottofondo erano quelli del traffico provenienti dalla strada che costeggia il Colosseo.
Non mi guardavo intorno, mentre camminavo.
Non lo facevo mai.
Forse quel pomeriggio avrei dovuto. Forse mi sarei accorta di quel movimento che spostò le fronde della pianta e del braccio che spuntò all'improvviso, afferrandomi e trascinandomi dietro quel grosso cespuglio.
Accadde tutto in un attimo. Lo strattone, i rami in faccia che mi graffiarono il viso mentre cadevo, il senso di pressione sulla gola, forte, sempre più forte, fino a non farmi più respirare.
Sentii il calore delle lacrime che mi scendevano giù lungo i lati del viso. Cercai spasmodicamente di aprire la bocca nel tentativo di respirare ma non ci riuscii: emisi solo dei rantoli.
Dicono che in quei momenti tutta la vita ti scorra davanti. Per me non è stato così.
L'unica cosa che mi ha guidato è stato l'istinto di sopravvivenza. Ho scalciato, ho provato a divincolarmi, ho tentato di infilare le unghie sotto ciò che mi stava stringendo la gola per cercare di allargare le maglie di quella presa mortale. Invano.
Rimasi sdraiata in terra, gli occhi fissi nel vuoto.
Le nuvole scure si muovevano veloci nel cielo, sospinte dal vento: una goccia di pioggia mi cadde sul viso ma io non la riuscii a percepire. Non sentivo più niente, non sentivo ormai più nessun dolore.
Ed è finita così.
Nel silenzio di quel parco.
Sono morta in un freddo pomeriggio di febbraio.

Prendi questo treno

Pioveva. Come al solito, pensò Diego facendo un passo fuori dal portone e sentendo le gocce tra i capelli. Quell'inverno era iniziato nel peggiore dei modi: pioveva di continuo. Le strade non facevano in tempo ad asciugarsi, né le foglie a essere spazzate via dai bordi dei marciapiedi, che subito riprendeva a diluviare.
Quella sera fortunatamente piovigginava solamente. Erano le nove passate oramai e, come spesso accadeva ultimamente, Diego si era attardato in ufficio a sistemare scartoffie su scartoffie. Aveva saltato la cena con gli amici. - Sei il solito! - gli avevano scritto scherzosamente per messaggio quando li aveva avvertiti che quasi sicuramente avrebbe fatto tardi al lavoro e non li avrebbe raggiunti.
Anche questa settimana non sono riuscito a vederli, pensò un po' malinconico, avviandosi per il Lungotevere sotto la pioggia sottile e fitta. I platani, tipici delle zone adiacenti al fiume, dalle foglie ormai ingiallite e secche, emanavano un odore dolciastro che si mescolava a quello dello smog delle macchine che per tutto il giorno erano passate per quel tratto di strada.
Percorse velocemente Ponte Mazzini fino ad arrivare dall'altro lato del fiume, attraversò a grandi passi la strada e si infilò in un pub che faceva angolo con un vicolo pedonale.
“Ciao.” Salutò il ragazzo al bancone che stava spillando una birra.
“Ciao, Diego.” Rispose senza distogliere l'attenzione dal bicchiere che stava riempiendo. “Fatto tardi anche stasera?”
“Già.” Gli rispose togliendosi il giaccone bagnato che appoggiò su una sedia mentre si sedeva su uno degli sgabelli alti che stavano di fronte al bancone. “Mi prepari qualcosa da mangiare?”
“Panino veloce o ti fermi?”
“Panino. No, anzi, mi fermo un po', dai.” Si strofinò una mano sul viso premendosi gli angoli degli occhi. “Domani sono di riposo.”
“Ti faccio fare una bella bistecca, allora. Così ti riprendi un po'. Ecco la tua Guinness, intanto.”
Diego gli sorrise: era grato a Tiziano. In fondo, sera dopo sera, notte dopo notte, quell'uomo gli aveva tenuto compagnia, lo aveva ascoltato, come nelle migliori tradizioni in cui il barista intento ad asciugare il bancone finge di dare attenzione all'uomo triste e ubriaco che piange per la moglie che l'ha lasciato. Rise tra sé, a quel pensiero. In fondo, era diventato lui il compagno di tanti pomeriggi e tante sere dopo il lavoro, quando si sentiva troppo stanco per uscire con gli amici - i pochi rimasti dai tempi del liceo - troppo sfinito per tornare a casa a prepararsi la cena, troppo malinconico per rientrare nel suo appartamento vuoto. Era lui che aveva sentito raccontare della rottura con la fidanzata dei tempi della scuola, a quanto pare spaventata dall'impegno di una vita con un solo uomo, così premuroso, così affidabile e ormai così noioso e prevedibile. A lui aveva detto per la prima volta del suo intento di buttarsi a capofitto nel lavoro e fare carriera: da quando era stato preso in considerazione dal capo si era detto che non poteva lasciarsi sfuggire quell'occasione. Si era messo al suo servizio, notte e giorno, sempre a disposizione; qualsiasi questione spinosa, qualsiasi noiosa pratica burocratica diventava la sua.
Avrò tempo per pensare ad altro, si ripeteva. L'amore è andato come è andato, ma qui, nel mio lavoro, diventerò qualcuno. Non posso perdere questo treno. Quell'immagine lo rincuorava e gli dava la forza di andare avanti.
Era una sera infrasettimanale, il pub non era molto affollato. In perfetto stile irlandese, le luci erano soffuse, i mobili in legno scuro, i tavolini tondi al centro della sala si contrapponevano alle panche che correvano lungo due lati del locale. Le pareti sommerse di foto ormai troppo vecchie davano al locale un senso angusto e la carta da parati verde scuro, anch'essa lì da troppi anni, aveva assorbito tutti gli odori della cucina e delle persone che lì erano passate.
Sorseggiando la sua birra, in attesa della cena, Diego esplorò la sala con lo sguardo. Una coppia di turisti consultava una guida della città di fronte ai piatti vuoti e a bicchieri di birra pieni a metà. Un piccolo gruppo di studenti brindava rumorosamente a qualcosa di così divertente da farli ridere tanto fragorosamente.
Ma fu il viso illuminato dallo schermo di un computer ad attirare l'attenzione dell'uomo. Una ragazza se ne stava seduta da sola, a un tavolino, a leggere qualcosa sul suo portatile. I capelli rosso scuro le ricadevano sulle spalle in maniera disordinata e dei ciuffi più corti le coprivano parte del viso. Magra, dalle forme delicate, le dita si muovevano velocemente sulla tastiera.
“Carina, vero?”
“Chi?” Chiese Diego sussultando sullo sgabello, strappato dalla sua visione da Tiziano.
“Come chi? Quella ragazza. Dai, non fare finta che non l'avevi vista! È qui da due giorni. Entra, si siede e passa il pomeriggio e la sera al pc. Forse è una studentessa, chissà. Ogni tanto alza la testa dal computer e fissa la porta.”
“Ed è qui sempre sola?”
“Sì. Beh, sai, un paio di ragazzi hanno provato ad avvicinarla. Uno ieri, credo fosse un ragazzo americano un po' ubriaco, tanto per cambiare: ha cominciato a sbiascicarle qualcosa in inglese e lei ha solo detto no, grazie. Oggi pomeriggio uno di quei viscidi tutti in tiro della banca più avanti, che si è seduto al tavolo con lei. Poteva essere suo padre!” Esclamò alzando gli occhi al soffitto. “Quando l'ho visto avvicinarsi mi è venuto l'istinto di andarle a dare una mano, ma non ce n'è stato bisogno: lei non gli ha neanche fatto finire la frase, è rimasta impassibile e gli ha rimesso in mano il giacchetto che il tizio aveva messo sulla sedia. Che scena! Dovevi vedere la faccia di lui!” E rise di gusto.
Diego si rigirò istintivamente per guardarla. Lei se ne accorse e lo fissò; il cuore di lui si fermò per un istante e trattenne il fiato. La giovane gli sorrise e riabbassò la testa sullo schermo.
Solo allora si rilassò, rassicurato dal sorriso della ragazza che gli aveva fatto capire che il suo sguardo non l'aveva infastidita.
“Che fai, non vai?”
“Ma dove?”
“Vai da lei.”
“Stai scherzando?”
“Ma che scherzando?! Bello mio, da quanto tempo non ti concedi un po' di svago? Qualcosa solo per te. Prima o poi dovrai rimetterti in gioco. È più di un anno che lei se n'è andata: vai da quella ragazza, avanti!”
Diego non mosse un muscolo. Il panico lo assalì.
Ancor prima che potesse rispondere qualcosa a Tiziano se la ritrovò di fianco, che si sporgeva sul bancone e chiedeva al barista: “Scusami, per caso hai un caricabatterie per il telefono? Il mio cellulare si sta scaricando e non ho niente per ricaricarlo.”
“Ma certo, cara, vado a cercartene uno. Fammi vedere che cellulare hai... Si, ok. Torno subito.” E si allontanò verso il magazzino, di fianco alla cucina.
I due rimasero qualche secondo lì, lui seduto rigido sul suo sgabello, lei in piedi al suo fianco, entrambi in evidente imbarazzo.
“Aspetti anche tu un caricabatterie?” Gli chiese scherzosamente, accennando un sorriso.
“No... Io... Io... Sto aspettando da mangiare.” Rispose Diego nervosamente.
“Sì, immaginavo.” Gli sorrise di nuovo, abbassando lo sguardo come se fosse un po' a disagio per la battuta stupida appena fatta.
Si scostò con una mano i capelli disordinati e se li portò dietro la spalla, scoprendosi il viso ed il collo. Lui lo guardò, solo per un secondo, e distolse subito gli occhi sperando che non se ne fosse accorta.
“Sei qui da sola?” Le domandò dopo aver inspirato profondamente, per farsi coraggio, cercando di sembrare il più disinvolto possibile.
“Sì. Ho del lavoro da fare al computer e la mia coinquilina ha il ragazzo ospite da noi questa settimana. Non riesco a concentrami con loro intorno.” Fece un cenno con la testa indicando il locale attorno a loro e proseguì “Qui è tranquillo. Si mangia bene. Mi sono detta, perché no? Oh, grazie mille!” Disse a Tiziano mentre le porgeva il cavo per caricare il telefono.
“Ma figurati, cara.”
Si diresse al suo tavolo e camminando si voltò verso Diego.
“Ti va di farmi compagnia mentre mangiamo?” E accennò un altro sorriso.
L'uomo rimase in silenzio, tra l'entusiasmo e la perplessità. Eppure, gli avevano appena raccontato che non si era fatta avvicinare da nessuno...
Non dico sempre che nella vita non dobbiamo farci scappare le occasioni?
“Volentieri.” Le rispose avvicinandosi al tavolo portando con sé il bicchiere di birra. Con la coda dell'occhio vide Tiziano ridere sotto i baffi.
Seduti, l'uno di fronte all'altro, si fissarono per un attimo e poi, presi nuovamente dall'imbarazzo, distolsero entrambi lo sguardo. Lei spense il pc e lo ripose in borsa, lui bevve un lungo sorso di birra.
“Allora,” disse lei mentre si raddrizzava sulla sedia: “vogliamo presentarci?”
Lui le sorrise, allungandole la mano.
“Diego.”
“Sole.” Gli rispose stringendogliela energicamente: sentì il calore e la pelle liscia di lei.
“Che nome particolare.”
“Già, a mia madre piace essere un po' eccentrica.” Fece una pausa. “Anche tu qui tutto solo come me? Aspetti qualcuno?”
“No, no. Sono solo. Cioè... Voglio dire, non sto aspettando nessuno. Sono uscito tardi dall'ufficio e mi sono fermato qui dal mio amico Tiziano a mangiare qualcosa.”
“Vieni qui spesso?”
Lo dovette ammettere, a se stesso soprattutto.
“Praticamente ogni sera.”
“E che lavoro fai?” Si incuriosì la ragazza, scostandosi di nuovo i capelli dietro le spalle e inclinando la testa di lato, come per ascoltare più attentamente.
Diego notò le piccole lentiggini sul naso e sulle guance. Osservò i suoi lineamenti delicati e le labbra sottili, i denti bianchissimi quando sorrideva.
“Niente di che, sono un dipendente statale.” Le rispose alzando le spalle.
“Oh, e dove lavori di preciso?”
“Al Ministero dell'Interno.”
“Interessante!” Si entusiasmò lei. “E di cosa ti occupi?”
“Nulla di elettrizzante. Lavoro in un ufficio della Prefettura: sbrigo pratiche burocratiche, archivio documenti, preparo moduli... Cose così.”
Per un attimo la ragazza lo guardò in modo serio, un po' sospettosa.
Forse sono stato troppo vago. E cercò di spostare il discorso su di lei.
“Tu cosa fai? Sei una studentessa?”
Lei rise. “Ti ringrazio, ma ho finito la scuola da un pezzo. Mi occupo di traduzioni.”
“Accidenti, che bello. E cosa traduci? Libri, film?”
“Mi occupo più che altro di narrativa e di poesia in lingua spagnola.”
Diego la guardò ammirato. Che lavoro affascinante, non come il mio, che ho a che fare ogni giorno con la peggiore feccia dell'umanità, col dolore, con le sofferenze delle persone...
Arrivarono i loro piatti, la carne per lui e una pizza per lei. Mangiarono entrambi di gusto, chiacchierando. La ragazza non raccontava molto di sé: viveva con un'amica in un piccolo appartamento a San Giovanni, lavorava in una casa editrice, era single ed era felice così. Ma era curiosa, voleva sapere tante cose su di lui e lo inondò di domande: gli chiese della sua famiglia, dei suoi amici, dei suoi hobby (ormai ridotti alla visione delle serie tv sul divano di casa, quando non si addormentava guardandole) e del perché fosse senza una donna. A Diego piaceva essere ascoltato e vedeva che lei lo faceva con attenzione, annuiva, gli sorrideva. Quando le raccontò della rottura con la sua fidanzata (senza scendere troppo nel dettaglio per non sembrare inutilmente patetico) lei fece un'espressione dispiaciuta e gli toccò il braccio. Un brivido gli percorse la schiena e sperò che lei non se ne accorgesse.
Lasciarono il pub insieme e l'uomo notò che Tiziano si stava gustando la scena ammirato e sogghignante: gli lanciò un'occhiataccia, ma non durò a lungo e subito dopo gli accennò un sorriso.
Aveva smesso di piovere ma l'umidità permeava l'aria.
I due rimasero in piedi l'uno di fronte all'altro, fissandosi. Dovevano salutarsi? Un abbraccio? Troppo intimo. No, forse meglio una stretta di mano. Diego valutò l'opzione migliore, ma lei gli piantò gli occhi neri e profondi nei suoi. Lo scrutava, in maniera intensa e fece un passo verso di lui. Una folata di vento le spostò i capelli e lui respirò la fragranza di shampoo alla frutta. Restò immobile, non sapendo che fare, ma lei si avvicinò ancora e lui respirò a pieni polmoni quel profumo. Si allungò verso il suo viso mettendosi in punta di piedi ma non lo toccò, fermandosi a mezzo centimetro dalle sue labbra, con la bocca semichiusa, e Diego sentì il calore del suo fiato.
“Abiti lontano?” Chiese lei in un sussurro.
Prendi questo treno.
“No. Ho il motorino dall'altra parte del Tevere. Vuoi un passaggio a casa?”
Si allontanò leggermente da lui, quanto bastava per poterlo mettere a fuoco.
“Ma io non voglio che mi porti a casa.” Usò un tono suadente e Diego si sentì avvampare.
Si incamminarono insieme lungo il ponte, dapprima in silenzio, poi ripresero a chiacchierare in maniera serena del più e del meno. In motorino calò di nuovo il silenzio. Lui guidò assorto e sentiva il corpo di lei che gli premeva sulla schiena, attraverso i cappotti.
L'appartamento di lui era ordinato, tutto sui toni del bianco e del grigio e si vedeva il tocco femminile, nell'arredamento come nei quadri moderni alle pareti. L'angolo cottura era immacolato, come di chi non lo usa spesso per cucinare.
“Vuoi qualcosa da bere?”
“No, ti ringrazio.” Declinò lei raggiungendolo vicino al bancone della cucina.
Ora o mai più.
La baciò, piano, sulle labbra. Lei gli infilò la lingua nella bocca e lui la baciò più profondamente. Le mise una mano sul collo e una sul fianco facendola arretrare prima in mezzo al salone e poi fino alla camera da letto. La spinse sul letto e lei non fece resistenza. Le si sdraiò sopra e la baciò ancora. La ragazza si sfilò da sotto il suo corpo e si sedette sopra di lui. Lo guardò in silenzio e si tolse piano prima il maglione, poi la maglietta, scoprendo il corpo esile e tonico. Si slacciò da sola il reggiseno e lo fece cadere in terra, senza mai smettere di fissarlo.
Spingendolo delicatamente con la mano sul petto lo fece sdraiare e lo baciò più forte. I capelli le cadevano ai lati del viso e Diego glieli prese tenendoglieli dietro la nuca.
Le fece scorrere le dita lungo la coscia e cercò di toccarla ma lei gli scansò la mano, afferrandogliela e mettendogliela sopra la testa. Si divincolò anche dalla presa dell'altra mano e scivolò giù, togliendogli i pantaloni e i boxer.
Diego era eccitato come non gli capitava da... Da quanto tempo, ormai? Cercò di ricordarlo ma non riusciva a concentrarsi.
Gli afferrò il membro duro e lo leccò per tutta la lunghezza, dal basso verso l'alto; giocò sulla punta con la lingua fino a che lo sentì gemere, leggermente. Cercava di trattenersi e lei se lo spinse tutto in bocca, leccando e succhiando forte, facendo su e giù con la mano.
Diego abbassò lo sguardo e la fissò per un attimo: era bella, cavolo se era bella. Di una bellezza selvaggia. I capelli rossi ondeggiavano ritmicamente con lei e i muscoli dell'addome erano contratti.
Tornò su verso il suo viso e lo baciò di nuovo. Diego ansimava, travolto dalle sensazioni che non riusciva a gestire totalmente.
“Fallo ancora.” Riuscì a dirle, socchiudendo le palpebre.
“Oh, no.” Gli sussurrò nell'orecchio. Si tolse i pantaloni e si sfilò gli slip, mettendosi sopra di lui.
Rivide in lei lo sguardo ardente di poco prima, una fiamma che bruciava in quelle pozze nere e conturbanti.
Si fece penetrare piano, lentamente, fino in fondo ed iniziò a muoversi, prima su e giù, poi avanti e indietro, sempre più velocemente. Gli afferrò una mano e se la poggiò sul seno, facendogli capire che doveva stringere. Si teneva alla testiera del letto per aiutarsi con i movimenti ma poi, improvvisamente, appoggiò il palmo sul suo petto per mantenere meglio l'equilibrio via via che il ritmo si faceva più frenetico; questo impeto lo eccitò ancora di più e lei lo capì. Scese velocemente da lui e lo fece venire toccandolo. Diego percepì il calore del suo liquido sulla pancia; si sentì svuotato di ogni energia.
La ragazza attese di fianco a lui che il respiro gli tornasse regolare. Gli accarezzò il torace liscio, facendo scorrere i polpastrelli lentamente fino ai pettorali, girando intorno ai capezzoli e lo vide rilassato quasi stesse sonnecchiando, mentre le sfiorava distrattamente la schiena, lungo la spina dorsale. Rimase nuda accanto a lui e lo baciò piano su una guancia. Diego rimase impressionato da tanta delicatezza, ripensando a quanto appena successo, alla passionalità selvaggia racchiusa in quel corpicino esile.
“Sei una persona molto riservata, vero?” Gli chiese dolcemente mettendogli la testa sulla spalla.
“Perché mi fai questa domanda?”
“Non lo so, sei stato così vago sul tuo lavoro. Un impiegato statale che fa tardi tutte le sere al lavoro, che passa le serate al pub, non ha tempo per gli amici. E poi, non lo so, mi sembra che parlare di quello che fai ti metta un po' a disagio.”
“Cerco di evitare di dire alla gente quello che faccio.”
“Perché?”
“Perché poi mi guardano con occhi diversi. Cominciano a fare richieste, a fare domande inopportune.” Lei sollevò un poco la testa e lo fissò, senza dire niente. “Sono un poliziotto.”
“Davvero?” La ragazza si tirò su di scatto, stupita ma sorridente. “E che tipo di poliziotto sei? Cosa fai? Di cosa ti occupi? Scusa, ti sto facendo già troppe domande!”
“No, tranquilla. È normale.” Prese fiato e confessò. “Sono nella squadra dell'Ispettore di polizia del Commissariato dell'Esquilino. Sto cercando di diventare Vice Ispettore.”
“Che bello. E ti piace? Hai sempre sognato di fare il poliziotto?”
“Diciamo che quando mi immaginavo da bambino, credevo sarei diventato un supereroe, che avrei combattuto i criminali. La vita mi ha insegnato che non è così: non siamo tutti buoni o cattivi. Ho a che fare ogni giorno con la disperazione della gente, con i disonesti, ladri, drogati, uomini violenti. Ho visto donne vendersi per pochi grammi di droga e uomini mentire davanti al fatto compiuto. Ho seguito casi di stupratori, derelitti della società, ho portato dentro uomini solo perché non avevano altro posto dove stare e non avrebbero retto al freddo dell'inverno.” Si fermò per un attimo. “Te lo devo dire, non è facile, a volte. Sei portato a pensare che tutta l'umanità sia sporca dentro e a guardarti le spalle da chiunque ti stia intorno, inclusi familiari e amici. A volte devo sforzarmi di ricordare che c'è anche del buono nel mondo.”
“È un lavoro duro, vero?” Gli appoggiò la mano sulla guancia, in modo affettuoso e comprensivo.
“Certe volte mi ritrovo davanti scene che mi tengono sveglio la notte.”
“Parli di persone uccise? Donne? Bambini?”
“Sì, soprattutto quelli.”
La ragazza rifletté per un attimo.
“Ho sentito al telegiornale che qualche giorno fa hanno trovato una donna morta nella zona del tuo commissariato.” Un angolo della bocca le tremò leggermente.
“Sì, la donna di Colle Oppio.”
“Tu l'hai vista?”
Sentì il corpo di lui irrigidirsi.
“L'ho vista. Non è stato un bello spettacolo.”
“Hanno detto che l'hanno strangolata.”
“È vero, ma non a mani nude.” Lei aggrottò la fronte e lui continuò. “I segni delle unghie sul suo collo erano così profondi che deve aver lottato parecchio per cercare di liberarsi da quella morsa che la stava soffocando.”
“Deve essere stato terribile.” Disse con voce flebile.
“I suoi occhi erano completamente iniettati di sangue per i capillari esplosi. Scusa, non dovrei dirti queste cose.” Si alzò nervosamente dal letto e si chiuse in bagno.
Quando tornò sembrava essersi tranquillizzato. La ragazza, nel frattempo, si era rinfilata gli slip e la maglia e lo aspettava seduta sul bordo del letto. Si mise accanto a lei, che lo cinse con un braccio intorno alla vita, baciandolo su una tempia.
“È a questo che stai lavorando? Avete già idea di chi sia stato? Una rapina finita male? Il marito abbandonato accecato dalla rabbia?”
“Il marito ha un alibi di ferro. Comunque abbiamo già fermato una persona.”
“Cavolo, siete stati velocissimi! E chi è?”
“Questo naturalmente non posso dirtelo, mi capisci, vero?”
“Certo, hai ragione.” Gli mise una mano sulla gamba e gliela fece scorrere delicatamente lungo l'interno coscia. “Ma come avete fatto a trovarlo così in fretta? Che prove avete?”
“Diciamo che ciò che abbiamo trovato nel computer di lei ci è stato molto di aiuto. Abbiamo rinvenuto diverse mail del ragazzo che chiedevano insistentemente alla donna d'incontrarlo. Inizialmente ho pensato al classico maniaco poi, messo alle strette, ha confessato di essere l'amante.”
“L'amante? Davvero?” Si alzò in piedi fronte a lui. “E che prove avete che l'abbia uccisa lui?” La voce di lei iniziava a farsi leggermente stridula, quasi innervosita.
“Il ragazzo potrebbe essere stato l'ultimo a vederla viva. Purtroppo per ora abbiamo solo prove circostanziali: non abbiamo trovato tracce sulla scena del crimine a causa della pioggia che ha ridotto tutto a un ammasso di fango ma, come ti ho detto, ci sono mail nel computer di lei. Lui ha confessato la relazione. Per mia esperienza, questo basta a tenerlo dentro fino alla fine delle indagini.”
“Capisco.” Disse lei con un filo di voce.
“Vado a fare una doccia. Vieni con me?”
“No, vai pure.” Gli sorrise. “Ti aspetto qui.” E si stese sul letto, portandosi le braccia sopra la testa per rilassarsi.

Diego uscì dal bagno pochi minuti dopo; sotto la doccia aveva ripercorso quanto appena successo e si stava eccitando di nuovo, ma non la trovò. Fece un veloce giro per l'appartamento ma sentì solo il rumore dei propri passi.
Alma stava già tornando verso casa. Camminava svelta, senza quasi neanche guardare dove stesse andando.
Non è possibile, pensò. Aspetto per due giorni quel cavolo di poliziotto per scoprire quello che mio fratello non ha voluto dirmi? Si è fatto l'amante, questo idiota!
Alma era furente. Il nervosismo e la tensione che sopportava da due giorni, che l'aveva consumata nell'attesa di veder entrare quell'uomo nel pub e nel tentativo di rimanere calma, fintamente sorpresa nello scoprire il suo lavoro e per niente attratta da lui, cominciavano a pesarle e sentì che stava per crollare.
Aveva bisogno di liberarsi e si fermò lungo una stradina deserta piangendo con la schiena appoggiata contro un muro. Era stanca ed era arrabbiata. Suo fratello era la persona che la conosceva meglio e alla quale più di tutti avrebbe affidato la sua vita. Era la persona alla quale sentiva di essere più legata al mondo, fin da quando era piccolo, che sentiva di dover proteggere più di chiunque altro. E ora invece si stava rendendo conto che non sapeva più chi fosse, che aveva tenuto un segreto con lei. Lei. La sua Alma.
Alma del mio cuore: la chiamava quando era piccolo. E così aveva continuato, anche ora che erano grandi.
Piccolino mio, non sei il mostro che credono loro. Non sei un assassino. La rabbia verso di lui era già svanita. Ci deve essere qualche spiegazione. Sì, ma quale?
Alma provò a pensare in fretta, ma le venivano solo pensieri sconnessi. Concluse che per quella notte potesse bastare.
Una donna era stata strangolata.
Suo fratello era in carcere ormai da giorni e non le avevano ancora permesso di vederlo.
Uno dei poliziotti che lavorava al caso lo credeva colpevole perché avevano scoperto che era il suo amante.
Perché?
Le giravano in testa solo domande. Ed era arrivato il momento di iniziare a cercare delle riposte.

Martina Menghi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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