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Autore: Roberto Tedesco
Non sapevo d'averti vicino
Narrativa
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Non sapevo d'averti vicino
Il Friuli, terra d'incursioni barbariche, di dominazioni straniere, di patriarcati, di eroi e di poeti, un tempo era un paradiso dove l'acqua sgorgava naturalmente dal suolo e i campi erano coltivati a granoturco e frumento; i prati venivano falciati a mano e i vigneti germogliavano rigogliosi.
Nella parte occidentale del territorio friulano sorgeva un palazzo, all'apparenza austero ma signorile, dotato di molte stanze abitate solo dal padrone e dalla sua servitù. Dietro ad esso giganteggiava un bellissimo parco con alberi secolari, delimitato in parte da un fiume ricco di pesce. Il palazzo dominava il borgo dalla cima di un'altura dalla quale si diramava una strada sterrata, fiancheggiata dalle case coloniche dei contadini che lavoravano la terra di un ricco latifondista.
Il luogo era chiamato Borgo Iulii, in memoria di Cividale del Friuli (Forum Iulii), la città fondata da Cesare, nei secoli salita a capitale dei longobardi, poi decaduta a comune della provincia di Udine.
In quel palazzo i domestici, avendo la possibilità di vedere e sentire i fatti privati del padrone e dei suoi ospiti, per indole o per divertimento, divulgavano quelli più piccanti e licenziosi a parenti e amici. Così facendo la gente del paese veniva a sapere tutto ciò che accadeva dentro il palazzo e lo commentava animatamente.
In breve tempo, questi fatti, passando di bocca in bocca, si arricchivano di intrighi passionali o di dolorose vicende umane, tanto da diventare vere e proprie storie popolari. Spesso erano le donne del paese a raccontarle nei luoghi in cui si riunivano a filare durante le sere invernali, ma anche gli uomini non si sottraevano a tale trascinante esercizio.
La storia di seguito raccontata, dopo accurate ricerche e aggiornamenti, è la stessa che andava per la maggiore ai tempi in cui il potente o il nobile viziato, approfittavano dell'ignoranza e dell'ingenuità delle ragazze al loro servizio per soddisfare i propri desideri.
La gente del Borgo la raccontava con passione e il coinvolgimento emotivo era totale. Essa prendeva origine dalla vita rocambolesca di una bella ragazza, nata povera da una famiglia di contadini, costretta a emigrare a Milano per sfuggire al pregiudizio religioso della madre e alle maldicenze della gente.
A questa si legava la vicenda di due ragazzi orfani di padre, uno friulano e l'altro milanese, nati negli anni in cui infuriava la seconda guerra mondiale, i quali si erano incontrati per caso nel paese in cui il ragazzo milanese era convinto di poter scoprire l'identità di suo padre.
Ospite del ricco latifondista del paese, il lombardo aveva coinvolto nelle sue ricerche il ragazzo friulano, con il quale era riuscito a stabilire una bella amicizia. Ben presto, però, il destino di entrambi li divise e le loro tracce si persero in due mondi socialmente diversi.

Quando venne alla luce, Elvira strillò così forte che la sua voce risuonò per tutto il caseggiato. Forse già da quel primo vagito intendeva annunciare al mondo la sua indole di ragazza libera. La stanza in cui la mamma la partorì aveva il pavimento di sassolini levigati dai colori poliedrici, il soffitto di tavole, le pareti ricoperte di carta da parati. La sua culla era collocata in un angolo, separata dal letto matrimoniale da un comodino.
La finestra si apriva sul Borgo Iulii. Da lì si poteva osservare qualche brandello di vita quotidiana: il lento andirivieni dei carri trainati dai buoi che portavano il letame nei campi da concimare; il chiacchiericcio delle ragazze quando tornavano dalle funzioni religiose; il discorrere dei contadini di semine e di raccolti, di siccità e di temporali, seduti dopo il tramonto sulla lunga panca di legno appoggiata contro il muro fuori di casa.
L'economia del paese era governata da facoltosi latifondisti, mediante un certo numero di mezzadri. Le attività artigianali erano per lo più funzionali a quella agricola. I figli dei contadini erano destinati a proseguire nell'attività dei loro genitori.
La famiglia di Elvira lavorava la terra di proprietà del barone Bruschi, ma lei non intendeva seguire le orme dei genitori. La ragazza voleva studiare, imparare un mestiere e poi andare a vivere lontano dal paese, magari in una grande città, per sottrarsi alla miseria in cui il destino l'aveva confinata.
Delle sue idee ne parlava spesso con Anna, la sua migliore amica, alla quale aveva confidato: - So che deluderò i miei genitori, che mi vorrebbero contadina, ma io non brucerò nei campi sotto il solleone - .
Anna condivideva il sogno dell'amica, sebbene avesse delle idee meno ambiziose. Un giorno le due amiche, mentre lavavano i panni in riva al fiume inginocchiate l'una accanto all'altra sul vecchio lavatoio, provarono a immaginare come sarebbe stato il loro futuro se avessero abbandonato le loro famiglie. Nello stesso tempo l'acqua scorreva veloce davanti ai loro occhi, portandosi via lo sporco e la schiuma densa di sapone.
- Se un giorno decidessi di andartene dal paese, dove vorresti andare? - Domandò Anna all'amica.
- In Svizzera - rispose lei decisa.
- All'estero? Ma quando ti è venuta in mente questa idea balzana? Sai appena leggere e scrivere... -
- L'ho pensata il giorno in cui i miei genitori m'imposero di ritirarmi da scuola, per farmi lavorare nei campi. -
- Fai bene a pensare di andartene, qui non c'è altro modo di vivere se non lavorando la terra per far ricchi i padroni. -
- Prima, però, frequenterò i corsi serali di recupero, per prendere la licenza elementare. -
- E che mestiere ti piacerebbe fare, dopo? -
- La cuoca, per esempio, non mi dispiacerebbe. È un mestiere molto richiesto nelle famiglie ricche. Mia sorella mi potrebbe insegnare. Lei ha avuto la fortuna d'imparare da un'ottima cuoca. Ma sento che mi potrebbero piacere anche altri mestieri. La capacità e la volontà di apprendere non mi mancano. Aspetto solo l'occasione favorevole. -
Albina, la mamma, più volte aveva sentito la figlia esprimere quelle idee e temeva che inseguendole la potessero fuorviare, allontanandola dalla famiglia e dalle sue convinzioni religiose, per cui cercava di dissuaderla. Le diceva: - Quando sarà il momento sceglierai un bravo ragazzo, cosa piuttosto facile per te, e ti sposerai come fanno tutte le ragazze del paese. Non devi inseguire sogni impossibili - .
- Certo mamma che tu sai come incoraggiare i tuoi figli a migliorare la propria condizione di vita - le rispose polemicamente un giorno, dopo l'ennesima predica. - Per te esiste solo il matrimonio religioso, la sottomissione al marito e il lavoro nei campi... Non è così? -
- Rassegnati cara, il destino è già segnato anche per te - le rispose con sottile sarcasmo.
- Vedrai che io riuscirò a cambiarlo - replicò lei stizzita.
Angelina era la governante del barone Francesco Bruschi, la quale, vincendo le resistenze della madre, si era fatta carico delle aspirazioni della sorella Elvira e, di tanto in tanto, la chiamava a palazzo per servire a tavola, quando il barone aveva degli ospiti. Lei ci andava volentieri, poiché così aveva l'occasione di mangiare bene, cosa che a casa sua non succedeva spesso, e di guadagnare qualcosa. Denaro, peraltro, che la ragazza era costretta a versare alla mamma, salvo qualche lira che riusciva e mettere da parte per comprare delle cose per sé.
La ragazza era molto bella, gli uomini l'ammiravano e lei ci teneva alla cura del proprio aspetto. Quando andava a palazzo, prima di presentarsi agli ospiti, si tratteneva nel bagno per truccarsi, dato che a casa non lo poteva fare, perché la mamma non lo riteneva opportuno.
Una sera, il barone invitò a cena i cacciatori che avevano partecipato con lui a una battuta di caccia nei suoi possedimenti. Tutte persone con le quali manteneva un rapporto confidenziale, poiché gestivano le attività artigianali, produttive e dei servizi sociali del paese.
Il barone Bruschi aveva ordinato al personale di apparecchiare la tavola nella vecchia cucina del palazzo, dove al centro c'era ancora il tradizionale camino friulano in mattoni refrattari con al centro il cosiddetto ciavedal, ossia il sostegno in ferro al quale si appendevano le pentole sopra le braci ardenti...

Roberto Tedesco

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