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Autore: Marianna Caponigro
Una finestra sull'oceano
Romanzo Formazione
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Una finestra sull'oceano
Febbraio 1927.

Il tè nella tazza si era freddato, la scia di vapore non giocherellava più tra i fasci della fioca luce emanata dalla lampada, che muovendosi tra i colori del paralume, disegnava ombre diverse sulla parete vicina. Le violette scolorite, decorate sulla fine porcellana mi ricordavano tempi felici e i fiori che spesso mia madre metteva in tavola, quando durante il tè si accompagnava alle sue amiche. I profili in oro zecchino in parte stinti, conferivano alla tazza gli anni che aveva, sicuramente più di mezzo secolo, trascorsi tra una credenza e l'altra. Considerando i suoi racconti, il servizio apparteneva alla nonna, che mai lo usava per la paura che aveva di scheggiarlo o addirittura di romperlo. Secondo quelle antiche teorie, diventate poi consuetudini, di relegare negli stipi tutti gli oggetti preziosi, e di adoperarli soltanto nei giorni importanti. Mia madre che invece era molto diversa da lei, certo li trattava con cura, ma amava utilizzarli poiché circondarsi di oggetti pregiati, rientrava tra le sue frenesie. Era come se usarli la rendesse più felice o forse addirittura più bella; i pregevoli ninnoli la completavano, riempendo l'aura di magia che negli anni aveva creato intorno a sé.
Strinsi la tazza tra le mani per riscaldarle e poi a piccoli sorsi bevvi, mentre come ammaliata, tenevo lo sguardo fisso tra le fiamme del camino. Mi piaceva osservare la legna che prima ardeva e che poi quasi troppo velocemente si consumava. Forse un po' mi faceva pensare alla vita, e al suo inevitabile sciuparsi, ma neanche mi soffermai su tali pensieri, poiché l'esistenza e le sue filosofie erano argomenti che solitamente cercavo di schivare, dal momento che semplicemente consideravo la vita una catastrofica disavventura su cui era inutile riflettere. Poggiai la tazza sul tavolino e rimasi ad oziare fluttuando in quell'assenza di pensieri che sempre mi rapiva e addirittura mi tormentava. Manchevole di spiegazioni, tornai al primo pomeriggio quando la pioggerillina leggera e quasi allegra, combinata ad uno sbiadito e debole raggio di sole, appariva saggia e prudente, come se lieve e delicata quasi giungeva a tenermi compagnia. Nel corso delle ore però era cambiata, si era trasformata, così come senza alcun avvertimento, muta la vita. Cominciata in modo pacifico e quasi innocuo, probabilmente per non destare alcun sospetto di ciò che volesse davvero diventare, batteva cadenzata sul tetto della casa, crepitando sulle tegole, forgiando una musica ritmata e quasi piacevole. Assistevo silenziosa come se da quella sorta di melodia, ne potessi ricavare qualche suggerimento, o meglio ancora un consiglio capace di riportarmi in vita. La ascoltavo quasi come una canzone dalle parole misteriose e indecifrabili, che penetrando nella mente, si spingevano in luoghi sconosciuti, proibiti a chiunque, persino a me stessa. Mentre immobile e ad occhi chiusi, rivivendo in un glorioso passato, cercavo disperatamente di capire il senso di quel linguaggio incomprensibile e a tratti inquietante. E in un modo che definirei quasi logorante, si instaurava dentro di me, un legame tra il terreno e lo spirituale, tra il profano e il sacro; una sorta di filo sottile che univa me alla follia.
Pian piano però verso sera, quel pacato canto, si era trasformato in un brutto temporale, di quelli spaventosi e frastornanti. All'improvviso poi all'acquazzone, si era aggiunto il vento. Spiravano delle fortissime raffiche, il cui soffio serpeggiava feroce e autoritario, da levante a ponente, ininterrottamente e tumultuosamente. Alla stregua di una scia arrogante e dispotica di cui non si udiva solo il trambusto, ma se ne distingueva anche lo strascico che trasportava con sé foglie e polvere e granelli di sabbia, che in una spirale si spostavano dalla spiaggia al mare, con un moto vorticoso, che mi sconquassava la testa e i ricordi e il presente e l'ostile futuro.
Dal pomeriggio alla sera ogni veduta era cambiata: la pioggerellina era diventata una furiosa tempesta, il cielo da blu, era nero e le grandi nuvole grigie, gonfie di pioggia impaurivano chiunque le guardasse, nascondendo l'orizzonte, in cui da sempre scorgevo: l'illusione ed una velata speranza.
Ma nonostante il tetro scenario, non mi scoraggiavo; di certo non permettevo ad una burrasca di spaventarmi. Mi erano sempre piaciute le tormente, quelle furiose, che mettevano tanta paura, che facevano mancare il fiato. Amavo i temporali: il mare che impetuoso si infrangeva contro le rocce, producendo un suono che sembrava persino assordante. La schiuma dell'oceano e quel non so che di nostalgico e malinconico che proveniva dallo scroscio delle onde, più che spaventarmi, ogni volta riusciva a rilassarmi. Da sempre le tempeste mi facevano sentire come in compagnia, in quella mia vita tristemente introversa. Le presentivo simili al mio animo agitato e turbato. Chiassose, fragorose e turbolente come i rumorosi silenzi del mio emarginato cuore. La tempesta di quella notte era davvero spaventosa: non c'erano stelle incastonate nella scura volta e il cielo era talmente buio, che non solo sembrava nero, ma non permetteva a nessuna luce del paese di giungere fino alla mia casa. Una fitta coltre di nebbia aveva intorbidito e offuscato l'aria, trasformando in grigio il colore biancastro della foschia. Ero solitaria io, ed era isolato anche il luogo dove abitavo. Lontana dalle persone, dalle emozioni e dalla vita.
Di tanto in tanto un lampo squarciava il cielo, seguito da un tuono frastornante, che mi riportava alla mente ricordi tristi e speranze ormai sepolte, poi un fulmine, che si scagliò nel mare con la forma di una saetta, e restituì per pochi istanti colori e forme alla natura; mi ridestò da quella specie di torpore in cui mi ero addentrata. Quell'intimo rapimento in cui ogni volta precipitavo, quando le condizioni metereologiche peggioravano. Non mi disturbava, non mi feriva, addirittura mi soddisfaceva quella sorta di incoscienza in cui volutamente sprofondavo. Quello strano mondo in cui intenzionalmente cadevo. Mi piaceva perché mi trascinava in un universo dove la solitudine era fondamentale.
Il fulmine che solo per un attimo, era riuscito ad illuminare il tempestoso mare, di cui fino a prima potevo sentirne solo il furioso rumore delle onde, che si scagliavano adirate e violente sulla riva, era stato uno spettacolo spaventoso, ma nonostante mi incutesse una forma di sorda paura, mi piaceva guardarlo, mi faceva pensare che erano le stesse emozioni che provavo io, nell'abisso della mia anima. Emozioni che costantemente abitavano dentro di me, apparentemente calma e quieta. Nel profondo del cuore però mi agitavo in un putiferio di passioni dimenticate e abbandonate, che cercavo di tenere a bada. Uno scenario che era paesaggio e al tempo stesso uno stato d'animo: una sorta di introspettiva visione. Rimasi ancora immobile qualche minuto ad ascoltare quei suoni tormentati e travolgenti, poi all'improvviso il morso della fame mi rapì e mi costrinse ad andare in cucina. Mi trascinai per il breve tratto mentre i tuoni rumorosi e spietati riecheggiavano nell'aria e nella dimora disabitata. Accesi la luce e indifferente a ciò che fuori accadeva, mi spinsi fino alla dispensa, ne aprii l'anta e con lo sguardo cercai qualcosa da mangiare. Non c'era molto, ma una fetta di pane e un po' di formaggio mi avrebbero sicuramente saziata. Dalla credenza tirai fuori entrambi, tagliai qualche fetta di cacio e poi feci lo stesso col pane che era alquanto duro. Il segno del coltello, arrossò il palmo della mano, che strofinai per qualche istante, fino a quando la dolenza non si fece più sopportabile. La pagnotta rafferma non rientrava tra i miei cibi preferiti, considerai quindi l'idea di abbrustolire i pochi ingredienti trovati, per rendere più appetibile la solitaria cena. Spostai le braci vi poggiai la graticola, a distanza di un minuto girai il pane, vi poggiai il formaggio, aspettai che si sciogliesse e il profumo dei cibi cotti, si sparse per la stanza, rendendo al mio olfatto il pasto più succulento. Con voracità cenai, mentre lampi e tuoni si susseguivano senza tregua nella oscura notte.
Poi un momento di malinconia mi costrinse alla finestra, dove come stregata dal buio e dal suono delle onde del mare, guardavo quel meraviglioso spettacolo della natura, che maestosa e incontrollata, stabiliva la sua supremazia e la sua potenza. Un'aggressività che in certi attimi consideravo una punizione oggettiva, un castigo non più individuale, ma impersonale. Il creato non scagliava più la sua ira solo verso di me, ma flagellava e puniva chiunque. Ecco! Probabilmente assistevo a quel temporale, considerandolo come il manifestarsi della giustizia divina, che includeva nei peccatori meritevoli di condanne tutti gli abitanti dell'isola. Questi erano i pensieri sconnessi e privi di ragionevolezza, che accompagnavano e concludevano ogni temporale.
Alla luce flebile di un lume, seduta sulla poltrona che un tempo era di Charles, e che ancora prima era stata di mio padre ma che ormai era diventata solo mia, unica dimorante della grande casa; come una spettatrice tediata dalla vita, guardavo il buio fuori dalla finestra. Sulla seggiola, durante la furiosa burrasca di quella lunga notte, ripensai a quante sere avevo trascorso sognando lui e il suo ritorno. Non sapevo dove fosse, se fosse ancora vivo, ma ero certa che prima o poi il mare me lo avrebbe restituito. Dentro di me c'era quella speranza da sempre, da quando da ormai due anni, non aveva fatto più ritorno a casa. Nella circostanza in cui mi trovavo costretta a vivere, ero molto combattuta: c'era una parte di me, che odiava la solitudine nella quale conducevo la mia esistenza, e poi c'era quell'altro lato di me che forse come una squilibrata, quasi ne gioiva. Il ricordo di tanti rimproveri, che furibonda avevo fatto a me stessa, per non aver capito, che molte cose tra di noi stavano cambiando; che lo stesso Charles, stava mutando in una persona che non conoscevo, e il solo pensiero di tornare a soggiornare in quelle abitudini, mi mettevano malinconia e inquietudine. Nonostante la tempesta di quella cupa notte, intorno a me sentivo la calma, udivo il silenzio che a fatica, tentavano di farsi strada nel mio cuore, che per tanto tempo era stato agitato e non aveva trovato intesa e non aveva trovato accordo con i pensieri, che burrascosi come il mare di quella notte, prendevano il sopravvento, scombussolando riflessioni e gesta. Forse persino mi piaceva quella tregua che avevo creato intorno a me, quella vita ricostruita solo sulle mie abitudini e sulle mie necessità. Consuetudini quasi metodiche, abbinate a piccoli capricci, che nel corso del tempo erano diventati bisogni, che scandivano le ore delle mie giornate.

Marianna Caponigro

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