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Autore: Franco Filiberto
L'angolo morto
Giallo
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L'angolo morto
Il giorno delle rondini azzurre.

I
Dove sono? Dio mio, cos'è questo silenzio, questo buio? Qui non c'è niente o sono io che non vedo? Cosa mi è successo? Non ricordo niente. Non so niente. Questa cosa che mi avvolge e mi sommerge è più buia della notte. Devo uscirne, devo tornare in superficie. Ma dov'è la superficie? La luce? Dio mio, questa roba mi soffoca, mi preme sul petto e mi stringe. Improvvisamente un pensiero. Mio padre: “Quando sei sott'acqua e non vedi la superficie, fai uscire un po' d'aria dalla bocca e segui le bolle, loro sicuramente vanno verso l'alto, verso la salvezza.” Schiudo leggermente le labbra. Niente, aria non ne esce. Panico. Ma cosa dico? Anche se l'aria uscisse non lo vedrei, non vedo niente. Agito gambe e braccia ma non mi muovo di un millimetro.
Devo stare calmo per consumare meno ossigeno ma anche così quanto potrò resistere? I muscoli mi bruciano ma non mi muovo, sono prigioniero di una realtà che non conosco, che... la luce, ora la vedo, una, cento, mille luci colorate. I miei genitori mi tengono per mano e io, con il naso all'insù, guardo la grande ruota panoramica. La musica e il profumo dello zucchero filato, la donna con la barba e l'uomo che spezza le catene e i pagliacci che mi chiamano e ridono. Io che cerco di raggiungerli ma le mani dei miei si stringono e non mi lasciano andare. Stringono, stringono, non riesco a divincolarmi. Lasciatemi andare! Voi siete morti, non potete...
Ecco dove sono, ecco perché ci sono anche loro: sono morto.
Ma i morti possono pensare? Ma forse questi non sono pensieri, forse sono morto da poco e questi sono residui di cose pensate o di sensazioni che presto si spegneranno.
Non c'è altra spiegazione.
È così. Sono morto.

II
La nebbia densa e opprimente che lo avvolgeva iniziò a diradarsi e anche il silenzio assoluto che era calato dentro e intorno a lui cominciò a incrinarsi, prima con scricchiolii lontani, poi con qualche vellutato scalpiccio. Aveva la sensazione di essere lontano da se stesso, come un osservatore esterno. Cercò di muovere le mani e di aprire gli occhi ma sembrava che il suo corpo non avesse alcuna intenzione di obbedire ai sui comandi. Pian piano, attraverso le palpebre, gli parve di vedere degli aloni di luce gialla che ondeggiavano davanti a lui. Cercò ancora di muoversi ma non ci riuscì e il panico iniziò a crescere dentro di lui. Ora sentiva il rumore sordo di qualcosa che batteva a un ritmo costante. C'è qualcuno, pensò, e tentò ancora di aprire le palpebre che sembravano incollate. Dopo qualche tentativo uno spiraglio di luce fioca fece breccia nel buio che lo aveva imprigionato. Passati alcuni minuti durante i quali continuava a ripetersi di restare calmo, i contorni sbiaditi di ciò che lo circondava cominciarono a delinearsi in modo più netto. Era sdraiato in un letto, in una stanza in penombra, una stanza che non riconosceva, non poteva muovere il capo e i colpi ritmati che avvertiva erano il sangue che pulsava nelle sue tempie. Non riconosceva niente di ciò che vedeva: il soffitto percorso da travi di legno scuro, la parete di fronte a lui con un quadro di un paesaggio marino, il mobile a cassetti con il ripiano di marmo sul quale era appoggiata una lampada di ottone... niente. Il panico, che un attimo prima si era in parte allentato, tornò ad assalirlo. Dove sono? Perché non c'è niente di familiare? Come sono finito in questa stanza?
Mentre queste e altre domande si accavallavano come onde di un mare in tempesta, un altro più inquietante quesito si presentò con prepotenza nella sua mente e sospinse ogni altra cosa in secondo piano: io... chi sono?


Sentì aprirsi una porta sulla sua sinistra e subito dopo un volto di donna si chinò su di lui. Ci volle qualche attimo prima di riuscire a mettere a fuoco. Era una donna coi capelli grigi che, a riccioli folti, le scendevano sulle spalle, gli occhi neri e profondi fissavano i suoi come a volersi sincerare di essere vista e la bocca era atteggiata in un debole sorriso.
- Bentornato! -
Quella faccia non gli diceva niente, non l'aveva mai vista prima, ma aveva la sensazione di scorgere in quei tratti qualcosa che conosceva.
- Chi sei? Dove mi trovo? -
- Sei a casa mia. Hai avuto un incidente non molto lontano da qui. Tu piuttosto, chi sei? -
- Un incidente? Non... -
- Cristo solo sa come ti sia venuto in mente di salire in moto su quel sentiero e per giunta di notte! -
- Non mi ricordo. È come se tutto fosse in ombra, nel vuoto... Non mi ricordo. -
- Cerca di stare calmo. Ricorderai tutto e io ti aiuterò. Sai come ti chiami? Nelle tue tasche non ho trovato documenti. Forse erano nella moto. -
Gli occhi gli si riempirono di lacrime. - Non so come mi chiamo, non so più niente... - disse in un lamento. - Non so neanche di avere una moto. -
- Bene, per ora può bastare - disse la donna. - Ora dobbiamo pensare a rimetterti in forze e vedrai che, un po' alla volta, ricorderai tutto. Vado a prepararti qualcosa da mangiare. -
- Mangiare? Non voglio mangiare, voglio andarmene - rispose lui in un sibilo. Cercò di mettersi a sedere nel letto ma un dolore acuto gli tagliò il respiro.
La donna gli appoggiò le mani sulle spalle e delicatamente lo fece appoggiare al cuscino. - Hai due costole fratturate e una brutta distorsione alla caviglia destra. Non avevi il casco ma, per fortuna, te la sei cavata con una lieve commozione cerebrale e qualche ematoma all'occhio destro. Poteva andare peggio, molto peggio. Come ti ho detto, devi stare calmo e vedrai che tutto si sistemerà. Vado a prepararti qualcosa. A proposito, mi chiamo Maddalena ma gli amici mi chiamano Mad. - Poi aggiunse sorridendo - Forse perché sono un po' matta! -
- Perché ti dai tanto da fare per me? Non ci conosciamo, non abbiamo niente in comune, perché? -
- Beh, quando ti ho visto lì, a terra, ai piedi della quercia, ho realizzato subito di avere solo due alternative. La prima era di portarti qui e cercare di curarti, la seconda, per certi versi più comoda, era quella di lasciarti dove eri e far finta di niente. -
In lontananza si sentì chiaro l'ululato di un lupo. Lei tacque e alzò l'indice come a sottolineare quel verso. - Come sarebbe andata a finire puoi immaginarlo. Ho preferito la prima alternativa. -
Lui abbassò lo sguardo e lei uscì dalla stanza.
Tornò poco dopo con un vassoio che appoggiò sul mobile, prese un cuscino e si avvicinò al letto.
- Aggrappati a me. Devo metterti il cuscino dietro la schiena. -
Lui le cinse il collo e, mentre lei lo aiutava a sollevarsi, sentì il profumo dei suoi capelli che sapevano di lavanda e di pino. Quando si fu sistemato, lei gli stese sul petto un tovagliolo e, presa la tazza poggiata sul vassoio, iniziò a raffreddarne il contenuto mescolandolo con un cucchiaio e soffiando sul vapore. Poi, un po' per volta, iniziò a imboccarlo.
- Non sono una grande cuoca, ma conto molto sul fatto che sono ormai tre giorni che non mangi. -
La minestra non era né buona né cattiva ma l'atteggiamento e la delicatezza di Maddalena lo colpirono. Sembrava quasi che la donna fosse animata da un sentimento materno o da qualcosa di molto simile. Dopo poche cucchiaiate lui disse - Basta, non mi va più. -
Lei sembrò non avesse sentito e continuò a riempire cucchiai rasi e a imboccarlo.
- Hai bisogno di recuperare le forze. Non posso tenerti qui per sempre! -
Lui avrebbe voluto dire qualcosa ma un nodo gli stringeva la gola. Nemmeno lui voleva restare ma dove sarebbe potuto andare? Quel buio che avvolgeva i suoi ricordi era molto più doloroso delle costole e della caviglia, era una cappa scura che lo bloccava e tagliava di netto, inesorabilmente, ogni possibilità di fare progetti, di pensare al domani.
Maddalena sembrò leggere nella sua mente: - So che ora vedi tutto nero e ti senti perso ma, credimi, fra poco comincerai a ricordare e ogni ricordo ne porterà altri. Devi solo avere pazienza. -
Pazienza. Aspettare. Sforzarsi di tornare indietro nel tempo e recuperare i suoi ricordi. Ma come si fa a sforzarsi di ricordare? Come si fa a uscire dalla gabbia del presente e tornare indietro senza un punto di riferimento a cui aggrapparsi?
Ancora una volta Maddalena intercettò i suoi pensieri e, asciugandogli con il bordo del tovagliolo la bocca, sussurrò - Domani sarà meglio di oggi, e pian piano i ricordi torneranno, credimi. -
Maddalena, tenendogli un braccio dietro la schiena, tolse il cuscino. - Ora cerca di riposare. -
Con il profumo di pino e lavanda scivolò nel sonno.

Franco Filiberto

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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