Dopo ogni riunione si sentiva più povera e allo stesso tempo più ricca. Il suo continuare a chiedersi il perché delle cose non si era attenuato con gli anni, mentre il suo desiderio di conoscere e farsi conoscere si era arricchito di risposte e nuove domande. Alla fine, aveva capito. Tutto ciò che imparava diventava in qualche modo parte di lei, perché lei ne era parte. Come spiegare tutto ciò a una bambina di cinque anni, seppure diversa? No, speciale, era la parola giusta... “Spesso ciò che siamo è così fagocitato da ciò che le contingenze e le circostanze ci obbligano a essere. Ci ritroviamo a dover seppellire il nostro io profondamente e per così tanto tempo da non ritrovarlo più... finché qualcosa o qualcuno ne riprende un piccolo lembo e ci aiuta a uscire da quella tomba. Quando qualcuno riesce a leggere ciò che siamo, ci pone davanti a uno specchio e ci costringe a riconoscerci, riscoprirci, forse per la prima volta... ad amarci.” Quella bimba speciale continuava ad accarezzarle le mani rugose e macchiate dal tempo; le sue piccole manine irradiavano un calore che Caterina conosceva da sempre. Quando era arrivata nel mondo parallelo le avevano parlato di energia. Lei già conosceva ciò che le dicevano, perché lo viveva, ma nel mondo dove era “la strana” nessuno lo avrebbe mai trovato normale. Chissà se quella piccola sapeva? Chissà se vedeva l'energia che emanava dal suo corpicino? Caterina pensava e cercava di ricordare quando per la prima volta si era accorta di poter aiutare le persone, ma i suoi ricordi partivano dal mondo parallelo e, pur scavando nella memoria, non riusciva a trovare il “quando”. “Tutto, ma proprio tutto ciò che so di essere, potrebbe stare in un pugno chiuso. Perché poi ciascuno di noi sa essere pioggia in una giornata di sole. La sua altalena lo porta in alto e poi lo riporta in basso solo per darsi nuova spinta e volare ancora e ancora, sotto i colori di un arcobaleno appena accennato, sicuro che la pentola d'oro sia solo una metafora della felicità. Quando ci arriverà, saprà di essere qualcosa, saprà di possedere le forze per volare sempre più in alto. Si volterà indietro e dirà: “Ho potuto”, guarderà avanti e dirà: “Posso, perché ho potuto”. E davanti vedrà sempre luce, dietro lascerà solo non-luce. Eppure, tutto potrebbe stare in un pugno chiuso.” Caterina sapeva che in fondo all'animo di quella bambina c'era quella luce che lei aveva incominciato a intravedere nel suo mondo parallelo. Pensandoci, l'aveva sempre chiamato così, parallelo... Ora forse sarebbe stato il caso di dargli un nome. Decise di giocare con la bimba: era seria, troppo seria e attenta. Non voleva caricarla dei suoi pensieri. Le propose un gioco. - Sai, io arrivo da un mondo “diverso”, anzi, “speciale” e ora, pensandoci, lo considero parallelo a questo, ma vorrei dargli un nome. Tu sai cosa significa parallelo? - La bambina non parlò, semplicemente mise due dita una a fianco all'altra e sorrise. - Ogni volta mi sorprendi, con e senza parole riesci a spiegare e comprendere tanto, forse troppo per i tuoi cinque anni - La piccola fece una risatina nascondendo la bocca con una mano, ma avrebbe dovuto chiudere gli occhi, perché Caterina non vi leggesse anche ciò che non diceva. - Dicevo, mondo parallelo... mi sembra lungo dirlo e anche solo pensarlo. Mi aiuteresti a dargli un nome vero e proprio? - Ora la bambina sorrideva apertamente: aveva sempre amato giocare con le parole; a cinque anni sapeva leggere e scrivere perfettamente e aveva tanti quaderni pieni di pensieri che teneva nascosti al mondo. Corrugò la fronte: una piccola vena sulle tempie in rilievo era la testimonianza della sua concentrazione. Anche Caterina si mise in “posa di riflessione”, aveva ancora voglia di giocare, nonostante non fosse più una bambina. - Ci sono...! No, no, troppo lungo... ecco, aspetta... no, no, troppo complicato - La piccola rideva e pensava, pensava e rideva, poi le si illuminò lo sguardo ed esclamò: - Oi! Lo puoi chiamare Oi! - Al primo “Oi” Caterina pensò che si fosse fatta del male in qualche modo, al secondo... capì. E comprese anche che quella bambina poteva essere davvero “colore” in una giornata di pioggia. Le tornò in mente un pensiero... Non è luce, ma illumina un mondo che ancora non sa vivere. “Oi” era il contrario di “io”, ma Caterina non si spiegava come mai le fosse venuto in mente, in fondo il mondo parallelo non era solo “suo”. Cercò di spiegarlo alla piccola. La bambina la ascoltò attentamente, a un certo punto si allontanò e tornò con un foglietto. Io non sono solo io, siamo noi, siamo il mio mondo e la terra. Io è il modo di vivere che ci hanno dato, senza permetterci di essere davvero quello che siamo, perché non possiamo mostrarlo. “Io” resta nascosto perché ha paura. Caterina lesse quel pensiero che le ricordò qualcosa. Non era un ricordo vivido, anche se le lacrime cominciarono a scorrerle sulle guance rugose. La bambina cercava di asciugarle le lacrime con un lembo della maglietta. Caterina si riprese, ma ancora non riusciva a capire. Cominciò a credere di non essere lì per la bambina, ma per se stessa. Su Oi, quando aveva dubbi, parlava con il suo compagno, ma ora lì era sola. Il suo meraviglioso compagno, conosciuto su Oi, non l'aveva mai lasciata sola, ma ora non era con lei. Insieme vivevano lunghi silenzi nei quali parlavano gli sguardi o intavolavano lunghe discussioni sulla vita, la morte, il mondo. Ora le mancava. Amo il tuo sospirare, gemere, ridere, gridare. Sono dentro le mie vene le tempeste che generi, la burrasca e la calma piatta. È nei miei polmoni, il tuo profumo che mi porta ricordi non miei. Grida nel mio cuore lo struggersi dei momenti che lottano per giungere alla riva e si sentono riportare alle origini. Ti amo. Sgorga dai miei occhi il sale quando mi perdo nell'immenso tuo orizzonte. Questa poesia l'aveva scritta per il suo compagno. Ora avrebbe voluto il suo abbraccio. Sapeva di dover fare qualcosa, anche se non capiva cosa. All'inizio, ritrovandosi con una bambina, pensava di doverle in qualche modo aprire gli occhi, ma più parlava e ricordava, più si accorgeva che quella bambina non aveva bisogno di lei. Perché era lì, allora? Si rese conto che fuori qualcuno ancora cantava. Quella voce le faceva male dentro, come se le si incrinasse un cristallo nel petto. Non aveva mai ascoltato la musica con le orecchie, la sentiva con il corpo. Entra, ti scava l'anima, ti confonde col canto. Lenta, potente, per chi la sa ascoltare. Ascolto, piango, sorrido e canto. Aspetto che il vento mi trasporti. Anche l'aria porta voci che entrano nell'anima, per chi le sa ascoltare. Un passo... triste, lento, pesante come il tempo, suono di campane. Un cuore, un battito nuovo, galoppa, freme. Un filo che il tempo e lo spazio hanno aggrovigliato. Si apra il sipario! Musica nel corpo. Si gioca la vita. Sussurri, voci, canto, risate... Pianto. Che la libertà fugga, echeggiando. Galoppo sfrenato, sale, sabbia, zolfo. Fiori da cogliere, scintille e braci accese sotto la cenere. Scorre il fuoco crepitando dentro le vene. La sua essenza esplode, s'irradia, terrorizza, riscalda, regala la sua potenza. Chi tiene il capo del filo aggrovigliato non lasci che si perda. È Amore. Chi apre il sipario non faccia che si chiuda. È Rinascita. Chi coglie quei fiori non permetta che si spengano. È Perseveranza. Chi sente il galoppo non fermi quel cavallo. È Libertà. Perché anche l'aria porta voci che entrano nell'anima, per chi le sa ascoltare. “Saremo uno solo con la nostra madre terra. Torneremo ad ascoltare il battito d'ali delle farfalle e a leggere negli occhi. Se sai leggere ci trovi l'anima. Perché chi ti concede di leggere, ti affida la sua anima. Perché chi ama sa leggere. Tornerà l'amore per la vita. Comincia anche così, una storia d'amore, e quando è così... è per sempre.” La bambina Stava seduta lì, al “suo” posto, accanto al camino, sulla sedia impagliata che il nonno aveva costruito per lei quando era nata. Zitta, immobile, nel suo mondo magico e incantato, dove animali e piante respiravano e parlavano con lei. Era strana, stava ore e ore con il suo nasino all'insù a seguire un insetto, una farfalla, qualsiasi piccolo essere le passasse accanto. Allo stesso modo e con lo stesso impegno, ignorava gli esseri umani, compresi i genitori, che erano sempre impegnati a correre da casa al lavoro e viceversa e ormai erano abituati a quella figuretta che stava zitta e buona. Bionda, esile, occhi di un colore indefinito tra il verde e il giallo, era una bella bambina di cinque anni che aveva deciso di “essere” così. I genitori lavoravano in un supermercato con orari proibitivi; erano sfruttati, mal retribuiti. Lasciavano la piccola in custodia ai nonni. La nonna era ben felice di averla con sé, perché non le dava noia: stava lì, tranquilla, a guardare il mondo che le girava intorno, senza proferir parola. Se i bambini fossero stati tutti così, la nonna avrebbe avuto tanta pazienza in più. Il nonno stravedeva per lei, la prendeva sulle spalle e la portava in giardino, le mostrava le piante e gli animali, le raccontava favole e fiabe. Caterina ascoltava e sorrideva. Giocare con il nonno le piaceva più di quanto le piacesse giocare con insulse macchinine o bambolotti come pretendeva il figlio dei vicini suo coetaneo. A Caterina non piacevano gli esseri inanimati, né chi li utilizzava. Istintivamente, allontanava chi non le andava a genio. Quando accadeva, si chiudeva in un mutismo totale e anche per questo motivo era tacciata come “strana.” “Strana” era l'appellativo più gentile che l'avrebbe accompagnata per tutta la vita. L'avrebbero chiamata idiota, pensato che fosse psicopatica e lei avrebbe imparato a nascondere la sua stranezza.
Irene Salidu
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