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Autore: Paolo Zanatta
La coda del Pavone
Romanzo Musicale
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La coda del Pavone
Il decollo.
Una vacca di nome Lulubelle III di razza frisona pascola su un prato della campagna inglese dal 1970.
Se ne sta lì senza muoversi da quando il grafico Storm Thogerson la immortalò e divenne l'iconica copertina dell'album “Atom Heart Mother” dei Pink Floyd. “L'album della mucca” è rimasto e rimarrà tale per decenni nella memoria degli appassionati e non al pari di altre copertine iconiche come la Banana di Andy Wahrol per i Velvet Underground o il basso di Paul Simonon fracassato sul palco di London Calling dei Clash.
Per me no. Per me “l'album della mucca” equivale ad una sola parola, la più sublime e desiderata, ovvero: “vacanza”.
Da almeno venticinque anni, quando ho un giorno libero e posso starmene solo, dedico 51 minuti e 46 secondi su 24 ore all'ascolto di un album controverso, giudicato in maniera non troppo bonaria dalla critica del tempo.
Ma non per me, che regolarmente decido di investire il 3,6 per cento della mia giornata per ascoltare quello che venne definito dallo stesso David Gilmour “un mucchio di rifiuti”. Posticipo il mio cerimoniale sono in un caso, ovvero se la vacanza includa un volo. Inutile specificare quanto possa essere noioso viaggiare su aerei di compagnie low-cost che continuano a disturbarti per poterti vendere qualsiasi cosa e quindi, qualche secondo dopo il decollo parte la suite e la mia mente è pronta a staccare e a rilassarsi al suono di “soool – la -si -do (diesis) – re – sool- mi – fa -sol – do (diesis)”.
Non mi sono mai formalizzato troppo sui mezzi di trasporto durante i miei viaggi e spostamenti e anzi, a voler essere completamente sinceri, ho sempre cercato di utilizzare i più economici possibili in modo da poter conservare una quantità maggiore di denaro per il resto della vacanza.
Ovviamente questo ha comportato qualche inconveniente come quando volai in Russia su di un Tupolev il cui modello sarebbe andato in pensione l'anno successivo ma, essendo il primo volo della mia vita e non potendo fare confronti, lo ritenni comunque un viaggio più che soddisfacente. L'unica situazione che mi incuriosì parecchio fu solo il servizio catering: un odore di cucina pari solo a quello di una pentola pantagruelica di ragù della nonna misto a minestrone della valle degli orti iniziò ad un certo punto a pervadere tutta la carlinga fino a quando, alle 07.45 del mattino mi chiesero se preferissi carne o pesce e mi servirono una braciola di maiale con dei piselli ed un'altra verdura bollita non meglio identificata in un contenitore in alluminio tipo chinese take-away .
L'unica situazione che non sopporto nei viaggi sono le soste. Prima e dopo i voli, per attendere transfert o per qualunque cosa possa essere ritenuta a mio insindacabile giudizio una perdita di tempo.
Perché quando stai viaggiando, lo stare fermi è un ossimoro insostenibile.
Quindi eccomi qui seduto, con la cintura allacciata, pronto a pigiare il tasto “PLAY” e a godermi un viaggio anche e soprattutto mentale.
LA CODA SI APRE
La luna si rispecchiava nel Lago di Garda, e la si vedeva benissimo dalla terrazza della trattoria Vecchia Torre. Il Nostro era seduto come sempre rivolto verso il lago, in un tavolino appartato da dove si potesse ammirare per intero quello spettacolo che solo una serata tardo primaverile unita al golfo di Manerba potevano dare.
Un'attività storica che prendeva il nome dal campanile accanto alla piazza, diventata un punto di ritrovo per la Compagnia del Lago sicuramente per l'ottimo cibo ma soprattutto per il rapporto ormai quasi fraterno con il titolare, un architetto famoso per non avere mai professato e per aver pregato quasi in ginocchio la commissione di laurea giustificandosi con la promessa che mai e poi mai in vita sua avrebbe nemmeno preso in considerazione di utilizzare tale titolo per una qualsivoglia occupazione.
Tipo strano l'architetto, persona squisita in grado di spiazzarti con epiteti incredibili rivolti alle proprie cameriere per poi passare a parlare di filosofia, di vecchie avventure con altri avventori e poi sfornarti la migliore pizza di tutta la riva del Garda.
Il tutto sempre condito da una simpatia di fondo, anche e soprattutto con i clienti stranieri ai quali si rivolgeva spesso parlando in dialetto Bresciano e che, pur capendo poco o nulla, si lasciavano convincere dal suo sorriso contagioso.
Il giovedì non era una serata normalmente dedicata al lago, ma si era fatto accompagnare da Omàr, uno dei suoi più fidati amici del paese in carrozzeria per ritirare l'auto, dopo che aveva avuto un piccolo disguido rientrando nel garage. Presentandosi all'orario giusto per un aperitivo non aveva potuto esimersi dal parteciparvi e quindi si era ritrovato al Baretto con i titolari della carrozzeria.
Ovviamente il tutto si era prolungato fino all'ora di cena ed alla spicciolata erano arrivati tutti gli amici della Compagnia del Lago. Non era sua intenzione far tardi e quindi salutò tutti, promettendo che si sarebbero rivisti sicuramente la serata successiva.
Arrivato in centro al paese però era stato bloccato da una deviazione ed allungando un po' lo sguardo aveva notato che fosse per colpa di una manifestazione.
Oltre agli occhi allungò quindi anche le orecchie ed iniziò a sentire il suono inconfondibile di una banda di paese.
La banda era una delle sue più grandi passioni e per tanti anni aveva suonato in quella del proprio paese.
Di conseguenza appena sentiva in lontananza un po' di “un-pà un-pà” non riusciva a resistere e si fermava ad ascoltare. Fortuna lo colse: non si trattava solo di una sfilata ma di un concerto vero e proprio e allora, in meno di due minuti, la spider era parcheggiata e lui accomodato nell'ultima fila dove, da che mondo è mondo, si sentiva meglio.
Appena prima del bis però si era reso conto di quanto la sua voglia di cucinarsi qualcosa fosse inversamente proporzionale al numero degli strumentisti sul palcoscenico e allora aveva deciso di salire a mangiarsi una pizza alla Vecchia Torre, dove un tavolo per lui l'avrebbero sempre trovato, soprattutto a quell'ora.
Il Nostro era lì, aveva quasi finito la sua pizza speciale con salame di cinghiale, gorgonzola e radicchio accompagnata dalla solita birra media, riflettendo su quante volte nella vita una decisione avventata o meno potesse portarti a vivere esperienze uniche.
Successivamente al sacrosanto caffè sarebbe arrivato l'architetto con uno dei suoi famosi distillati: una grappa barricata da condividere per chiudere la serata. Il tempo di due chiacchiere con il solito CD di musica rock anni 80/90 e poi via con la spider verso casa, nella solita e più immensa solitudine. Macchina aperta, musica alta, e un su e giù per le colline sulla strada tutta curve che in meno di quindici chilometri l'avrebbe riportato a casa nei consueti 17 minuti che lo dividevano dal lago o dalla visione di esso: barriera fra la vita quotidiana ed il relax da una vita stressata e troppo piena.
Il motore sei cilindri a V dell'ammiraglia tedesca ruggiva ad ogni affondo dell'acceleratore e Sultans of Swing dei Dire Straits riempiva l'abitacolo dove alzando gli occhi al cielo si potevano vedere una serie infinita di stelle. Le sei curve suddivise equamente fra salita a discesa dell'ultima collina l'avrebbero riportato alla normalità della vita di paese e come sempre, prima del ponte che ne delimitava l'ingresso, avrebbe abbassato il volume e diminuito la velocità in modo da passare inosservato, benché fosse conosciuto da tutti. Non voleva comunque attirare troppe attenzioni, o almeno non di più di quelle che già lo seguivano anche e solo per il suo soprannome: il Pavone, o meglio “Paù” nel dialetto locale.
Non che si desse delle arie, ma gli piaceva viziarsi, “senza mai confondere il vizio con lo sfizio” come avrebbe detto l'amico fraterno Stefanood. Cercava quindi di vivere al meglio delle sue possibilità, senza eccedere ma anche senza privarsi di nulla.
Aveva sempre preferito starsene solo: un bilocale, un gatto bianco e rosso come convivente, una sfera di conoscenze che gli permettevano di trovare compagnia per cena con un paio di telefonate ed un lavoro che lo costringeva comunque a muoversi per la provincia per almeno quattro giorni su cinque.
Arrivato a casa decise di non parcheggiare nel garage del residence: troppo stretto e tre manovre dopo un paio di birre e due mezzi distillati avrebbero potuto rivelarsi nuovamente fatali al paraurti appena riverniciato. Salito in casa era solito concedersi ancora un ultimo giro sui social seduto sul terrazzino mentre con lo sguardo assente visualizzava le notifiche e dalla la campagna arrivava puntuale la brezza della valle.
Il giorno successivo sarebbe dovuto andare in città per un paio di appuntamenti ed il solito pranzo di lavoro del venerdì dagli amici dell'ufficio di Piazzale Arnaldo. Il pomeriggio si sarebbe rilassato nella piscina del residence e poi verso sera un aperitivo al lago e la conseguente cenetta frugale con qualche amico trovato in un chiosco della riviera. Normale amministrazione, tutto già programmato, o come era solito dire “assiomatico”.
Fino a quando non visualizzò una notifica.
SEI STATO TAGGATO
Il social blu mostrava un piccolo numero 1 sulla campanellina: sulle prime il Nostro pensò alla solita notifica per i compleanni. Come sempre avrebbe mandato il più ipocrita dei “Tanti Auguri” con un numero maggiore di punti esclamativi in base all'importanza che dava alle persone.
Nessuno ovviamente lo sapeva, ma lui sì: sei uno che mi incrocia per il paese e mi saluta da lontano? un punto esclamativo. Sei una mia compagna del Liceo a cui volevo particolarmente bene? due punti esclamativi. Per riuscire ad averne tre dovevi essere una persona speciale: nella fattispecie far parte del novero degli amici, quindi non più di otto o nove persone, se di sesso maschile o nella cerchia delle conquiste amorose presenti passate o futuribili se di sesso femminile.
Essendo un ingegnere per il Pavone tutto doveva avere un senso e tutto doveva portare ad un risultato. Non era ammissibile che 2+2 non facesse 4. In nessun caso.
Cliccò quindi sulla campanellina ma apparve una scritta che lo lasciò perplesso: Lulubelle III ti ha taggato nella foto al ristorante Vecchia Torre. Aprendo la notifica si poteva notare il nostro seduto al proprio tavolo, approssimativamente un'ora prima, con lo sguardo rivolto all'orizzonte. Il tutto da una posizione defilata, probabilmente da un tavolo non troppo vicino al suo e con un commento piuttosto strano:

“Ci siamo detti Addio ancor prima di dirci Ciao, quasi non mi piaci nemmeno, ma non dovrebbe importarmene affatto... nel tuo letto ho guadagnato un giorno ed ho perso un maledetto anno... e vorrei sapere come ti senti. Come ti senti?”

- Eppure la notifica non c'era mentre ero seduto al tavolo - , disse fra sé e sé. L'hanno fatto appositamente affinché non vedessi chi è stato.
- E poi, chi sarà mai questa Lulubelle III? Non ha nemmeno la foto del profilo. Fermi tutti, qui qualcosa non quadra - .
Un misto di curiosità e voglia di bloccare il contatto pervasero il Pavone. Con le prime WH questions che iniziarono a frullargli per la testa. - Chi sarà? Dove mi ha visto? Da quanto mi sta seguendo? -
Al contrario di quanto avrebbe sempre fatto decise di posticipare al giorno successivo la decisione. Col tempo e l'esperienza aveva imparato che rispondere o peggio ancora inviare messaggi o richieste d'amicizia non completamente da sobri avrebbe potuto generare grossi problemi e quindi decise per la scelta più saggia: spegnere tutto, farsi una bella doccia ed andarsene a letto.
- Dopotutto domani è un altro giorno - , avrebbe detto Rossella O'Hara.
La curiosità è un tarlo che si insinua nella testa e che non ci lascia stare, soprattutto se hai cenato con una pizza non propriamente leggera ed hai in corpo un tasso alcolemico al limite del ritiro della patente di guida.
Il continuo rigirarsi notturno agitò Yoda, il gatto di casa, che non potendo dormire sul fondo del letto come suo solito, decise di iniziare a graffiare la portafinestra in modo da poter fuggire da quella situazione per lui decisamente troppo movimentata. Il Nostro quindi fu costretto ad alzarsi per sottostare alle richieste dell'unico inquilino che potesse sopportare e si ritrovò quindi mezzo sudato ed in mutande seduto sulla sedia di vimini sul terrazzino. Nulla e nessuno si stava muovendo e solo le luci lontane della tangenziale sembravano attraversare un quadro altrimenti fermo e appeso alla notte. Ogni tanto, se il vento cambiava, arrivava pure il rumore degli autoarticolati che sfruttavano la frescura dell'oscurità per avvantaggiarsi sul lavoro del giorno successivo.
Rimase lì imbambolato, non sapendo cosa fare se non ascoltare i rumori che arrivavano da lontano.
Una civetta, forse un pipistrello e qualcosa che sembrava muoversi nel campo vicino al fosso e null'altro.
Anni prima si sarebbero viste delle lucciole ma ormai erano diventare rarissime, e tanto valeva guardare le luci della tangenziale che ne avevano preso il posto.
Gli sarebbe piaciuto trasferirsi in un contesto più isolato, magari sull'altopiano di Cariadeghe a Serle o a Marguzzo, uno dei pochi borghi rimasti incontaminati e a poco a poco lasciati semi abbandonati: il posto ideale per un pensatore ma non altrettanto per un professionista che aveva bisogno di starsene in un luogo baricentrico fra la città e il Lago, tantomeno per uno scapolo che aveva esigenze logistiche per una vita di cene frugali e relazioni estemporanee.
Come sempre si mise a pensare ed arrivò alla soluzione più ovvia, ovvero accettare la richiesta.
- Tutto questo pensare per un click - , si disse.
Rimase quindi incollato al tablet sperando che potesse succedere qualcosa ma, com'era ovvio accadesse, tutto rimase immobile. L'unico davanti ad un dispositivo mobile era lui. Prese quindi in braccio Yoda, che come al solito iniziò la sua coccola ruffiana fatta da un misto di fusa e leccate all'orecchio e rientrò in casa, chiuse la portafinestra e si rimise a letto imprecando per l'ora abbondante di sonno persa.
LA GANG DI PIAZZALE ARNALDO
This is affascinante jazz rilassante come sempre risuonò alle 6.45 di mattina. Il Nostro si girò e disse: - Alexa, stop! - . Queste radiosveglie moderne erano comode ma il solo fatto di doverci parlare per spegnerle infastidiva tutti quelli che erano abituati a schiacciare un pulsante per terminare il BEEP BEEP misto alle radio locali. La routine del Nostro era tutto sommato quella di un italiano medio con nulla a che vedere quindi con il Patrick Bateman di American Psycho, se non per la doccia di rito. Quindi sveglia, cibo per Yoda, colazione con un thè english breakfast accompagnato da quattro biscotti ai cereali e poi due quotidiani, uno nazionale e l'altro sportivo. Rapido giro sui siti di notizie locali e poi accensione del cellulare al quale, da quando era rimasta vedova, la mamma inviava sul social verde un audio messaggio contenente una sola parola: - buongiorno - . Lui rispondeva con tre emoticon con un bacio. Contro risposta con un emoticon con bacio e cuoricino e poi via, pronti per la giornata. Mancava solo l'ultima cosa: scelta della camicia rigorosamente su misura con le iniziali sul polsino sinistro e, sempre sul social verde, foto sul profilo con l'accostamento con giacca e cravatta. Era pur sempre il Pavone e, come era solito rispondere a chi gli facesse notare l'inutilità di quella prassi, lo faceva per “le sue fans”.
Era partito tutto da una relazione di un paio di mesi con una commessa che gli aveva consigliato degli abiti e dato il numero di telefono per eventuali promozioni. Il Nostro non si era lasciato sfuggire l'occasione ed aveva iniziato a postare fotografie con gli abiti acquistati desideroso di consigli. Era ovviamente un'esca ma per una commessa inviare un commento o un apprezzamento faceva parte del proprio lavoro e del proprio essere. Entrato poi in confidenza era scattata quella che lui chiamava “manovra di accerchiamento”: prima un caffè, poi un aperitivo magari sul lago e una cenetta intima. Con il solo scopo di avere una partner per le settimane successive. Normalmente mai più di sei, al massimo otto. Tendeva a ricoprirle di attenzioni inviando fiori, regali inutili, poesie per telefono dimostrandosi quindi un good old-fashioned lover boy salvo poi chiudere le relazioni nel momento in cui il tutto stesse diventando troppo serio e le sedotte non iniziassero a puntare i piedi volendo quel qualcosa in più che lui non sarebbe mai stato disposto a concedere. La sua libertà veniva prima di tutto: dei sentimenti, dei legami ed ovviamente di una qualsivoglia relazione stabile. Ovviamente non si trattava di un gioco, lui si innamorava veramente ed in quel lasso di tempo dava tutto se stesso ma poi un senso di oppressione misto a malinconia lo prendeva e diventava il più freddo degli amanti facendosi lasciare inesorabilmente.
Riportata da sobrio la spider nel garage era montato sull'auto aziendale in direzione della città con Big G e Radiofreccia sempre ad un volume volontariamente elevato e dopo un paio di consulenze cantieristiche ed energetiche, tra una Hitsville U.K. dei Clash ed una Little Black Submarines dei Black Keys si era diretto all'autosilo alle porte della città: lì vi erano ad aspettarlo gli amici della gang.
Un nucleo di liberi professionisti per i quali il pranzo in compagnia del venerdì era sacrosanto e quindi si accomodò all'ombra della statua di Arnaldo da Brescia ordinando il solito pirlo, in attesa dell'arrivo al gran completo dell'allegra combriccola.
Era stato introdotto da Carlo, fidato amico del liceo e rampante consulente finanziario che gestiva parte delle sue finanze. Un'amicizia iniziata sui banchi di scuola, in terza superiore.
Carlo proveniva da una sezione smembrata mentre il Nostro era stato bocciato agli esami di settembre: classe nuova per entrambi e quindi era stato più facile creare un legame per i due nuovi della classe. Sempre insieme seppur totalmente diversi.
Bello il primo, più giovane di due anni avendo frequentato la primina e con quell'eleganza cittadina che al Nostro da sempre mancava, venendo dal paese.
A questo però sopperiva con l'esperienza di una maggior stagionatura di 24 mesi ed una furbizia degna della tradizione contadina nota come “scarpe grosse e cervello fino”.
Una coppia ben assortita quindi, una sorta di Gatto e Volpe di fine millennio in un liceo dove tutto sommato le diversità venivano ben digerite e non vi erano mai stati grossi problemi di convivenza.
Avevano finito il percorso insieme, scambiandosi esperienze e confidenze, anche se il fatto che Carlo fosse riuscito a finire il Liceo in soli cinque anni senza bocciature sarebbe rimasto uno dei più grossi misteri del mondo, ben più dei famosi tre di Fatima.
Avevano vissuto insieme quel genere di esperienze che ti lasciano il segno.
Come quando il 24 Gennaio del 1996 avevano preferito andare a comprare la cassetta di “Nessun pericolo... per te!” di Vasco Rossi il giorno esatto dell'uscita anziché entrare in classe per poi salire in castello ed ascoltarlo da un walkman utilizzando una cuffia per uno.
Ancora si ricordavano entrambi le rispettive espressioni nel sentire per la prima volta “Gli Angeli”, con le lucciole e le cicale.
Oppure quando Carlo aveva fatto da tramite al Nostro per farlo invitare ad una festa di compleanno in modo da avere il numero di telefono di una compagna di liceo, della quale si sarebbe innamorato alla follia e che avrebbe finito per perdere, non solo di vista, dopo un unico pomeriggio passato nel seminterrato dell'Oratorio Don Bosco.
Erano pomeriggi interi al telefono di casa, quello con i tasti a casa di Carlo e quello con la rotella a casa del Nostro, con la mamma che urlava a squarciagola il suo nome rendendolo oggetto di scherno da parte di tutta la classe.
E mattinate tutti infreddoliti sulle scale del liceo cercando di arrivarci il prima possibile per riuscire a copiare i compiti non fatti, caratteristica che li univa da sempre.
D'inverno Carlo con i Doctor Marten's ed il Nostro con le Timberland, ma entrambi con le Stan Smith nella bella stagione: diversi ma uguali e soprattutto sempre insieme.
Entrambi scapoli, o single che dir si voglia, erano soliti nelle giornate di sbatto, dove si entrava in un loop misto di noia e depressione, fare voli pindarici su criptovalute o investimenti al limite del grottesco che poi si risolvevano sempre con un - meglio andar avanti a lavorare sul serio, va! -
Un po' come venticinque anni prima sulle scale della scuola quando, prima o poi, comunque si sarebbe dovuto iniziare a studiare per essere promossi.
Con la sola differenza delle dimensioni delle campane in sottofondo: da quella che suonava per richiamare gli studenti all'entrata a quelle della chiesa di Sant'Afra, che riempivano l'ufficio di Piazzale Arnaldo.
Vi erano poi un avvocato civilista, che parlava sempre e solo di cause giudiziarie, ed un manager calabrese che era il fulcro della compagnia: decideva sempre dove e cosa mangiare ed era impossibile contraddirlo, ma proprio per questo era benvoluto e ritenuto il leader della gang.
- Carlo - disse il Nostro - mi è successa una cosa - .
- Ecco, ci risiamo. Chi è stavolta? -
- No, no, no. Non puoi capire... - ed iniziò a raccontare quanto accaduto la sera precedente.
La storia si era fatta interessante, concordarono tutti e quattro.
Perché quando c'era da parlare di donne era normale cercare di avere il parere della gang al gran completo.
Il manager calabrese, come sempre, gli disse: - Tu non sei un pavone, tu sì nu tzimbaro! - per canzonarlo, ma il Nostro sembrava più preoccupato del solito.
“Ci siamo detti addio ancor prima di dirci ciao...”
Cosa significava? Probabilmente si era trattato di un incontro breve e frugale al quale poi non era seguita nemmeno la solita relazione di quattro-sei settimane?
“nel tuo letto ho guadagnato un giorno ed ho perso un maledetto anno...e vorrei sapere come ti senti.”
Tutta la gang convenne su una teoria: doveva sicuramente trattarsi di una sedotta-e-abbandonata in vena di scherzi inopportuni. Ma perché agire in questo modo? Perché su di un social, e per di più a distanza di un'ora? Forse per timidezza, ma - creare un nuovo profilo ad hoc consisteva in una premeditazione - disse l'avvocato.
Tutte domande che davanti ad un piatto di casoncelli alla bresciana seguiti da un memorabile filetto di maiale alla senape antica avevano movimentato le discussioni del pranzo nella trattoria del vicolo.
Il caffè di rito nell'ufficio privato fra il fumo di un cigarillo alla vaniglia rigorosamente senza filtro ed una svampata di fumo bianchissimo e dolciastro proveniente da una sigaretta elettronica era prodromico alla chiusura della giornata ma il discorso era continuato senza soluzione di continuità fino a quando arrivò il colpo di genio: - Ma perché il nome Lulubelle III? -
Al Nostro ricordava qualcosa di musicale, di antico, di letto sui libri, di domanda da chi vuol essere milionario.
Santa Wikipedia venne in aiuto e gli ricordò di quanto fosse ben presente nella sua vita la frisona pezzata dei Pink Floyd e facendo sempre il proverbiale 2+2 si rese conto che non potesse essere un caso e che quell'account dovesse avere qualcosa di ben più profondo rispetto ad uno scherzo tardo primaverile.
- Ciaone - , disse come sempre per congedarsi: - questo pranzo è durato fin troppo a lungo ed è ora che me ne ritorni al patrio lido - .
IL PATRIO LIDO
Quello che il Nostro chiamava “il patrio lido” non era nient'altro che la piscina del residence dove risiedeva.
Chiamarla piscina era già come aumentarne l'autostima e quindi lido era oggettivamente sproporzionato per uno specchio d'acqua di tre metri per cinque.
Ma tant'era: vi si potevano posizionare ai lati delle sdraio e rilassarsi al sole.
Anche il termine rilassarsi era abbastanza sproporzionato essendovi una dozzina di appartamenti con almeno una trentina di persone residenti di cui buona parte bambini al di sotto della soglia dell'adolescenza.
Era quindi ovvio che per potersene stare un po' in tranquillità si dovessero utilizzare i ritagli di tempo in cui la scuola non fosse ancora finita. Il venerdì pomeriggio era quindi l'optimum per stendersi e resettare la mente ascoltando buona musica magari leggendo un buon libro senza un vociare incessante e scherzi tipo “bomba, bomba, bomba!” simpatici quanto una cartella esattoriale inaspettata.
Cuffie bluetooth collegate, SIM del telefono aziendale disattivata, la compilation this is radiohead su Spotify, occhiali scuri, cappello tipo Panama e nient'altro.
Se non il pensiero di Lulubelle III.
Aveva una conoscenza approfondita della musica con laurea magistrale nel rock anni 80-90 e come molti suoi coetanei credeva che il 1991 fosse stato l'anno di grazia dopo il quale tutto ormai se ne fosse andato alla deriva. Con ancora alcuni picchi certo, ma mai e poi mai in un anno ci sarebbero potuti essere un agglomerato simile di capolavori.
Citando Paura e delirio a Las Vegas: “si poteva andare su di una ripida collina e con il giusto tipo di occhi quasi vedere il segno dell'acqua alta, quel punto dove l'onda infine si era infranta e poi tornata indietro.”
In un solo anno, dodici mesi, cinquantadue gloriose settimane.
Blood Sugar Sex Magic dei Red Hot Chili Peppers, Nevermind dei Nirvana, Use Your Illusion I & II dei Gun's n' Roses e addirittura il Black Album dei Metallica per poi proseguire con U2, R.E.M, Queen, Dire Straits: sembrava che il gotha della Musica si fosse coalizzato per dare il meglio di sé e sparare canzoni o interi album memorabili a raffica.
- Mai più, mai più potrà esserci un simile allineamento di stelle - .
Ma i Pink Floyd erano un'altra storia: quelli per lui erano stati la rivelazione, il motivo per il quale aveva deciso di ascoltare musica.
Ed il tutto capitò per caso quando in un afoso pomeriggio del 1988 accompagnò suo cugino a pesca e su una Fiat Tipo DGT, per le strade della campagna che portavano al fiume Chiese, ascoltò al massimo del volume “Another brick in the wall – parte I” ed in sequenza “The happiest days of our lives” ed “Another brick in the wall – parte II” sparata a tutto volume da un'autoradio Pioneer con Amplificatore e casse JBL nel pannello sopra al baule.
Eccoci, come John Belushi nei Blues Brothers, il Nostro “aveva visto la luce”.
Amore a priva vista o a primo ascolto si potrebbe dire, ma da quel giorno niente più sarebbe stato uguale.
Ecco perché Lulubelle III non poteva essere un caso: dell'album Atom Heart Mother ne aveva parlato con pochissime persone.
Parlare di un album per lui voleva dire starsene sdraiati ascoltandolo in religioso silenzio, cercando di captarne ogni suono e sfumatura. Potevi conoscere a memoria The Dark Side of the Moon o The Wall e magari con un po' di impegno pure Animals o Wish You Were Here, ma l'album della mucca no, quello era per esperti se non proprio per intenditori.
Un amore non corrisposto. A nessuno piaceva e tutte le volte che aveva provato ad introdurlo era stato rimbalzato con commenti che andavano dal - ma cos'è ‘sta roba - al - ma che zuppa - . Bisognava essere sensibili per capirlo e per apprezzarne tutte le sfaccettature.
Exit Music (for a film) incombeva con la sua tristezza poetica:
Breathe, keep breathing - Don't lose your nerve
Breathe, keep breathing - I can't do this alone
Respira, continua a respirare, non perdere la pazienza, non posso riuscirci da solo.
Sì, doveva per forza essere una persona conosciuta. L'unico indizio erano i suoi gusti musicali ed allora cercò di fare mente locale per ricordarsi a chi avesse provato a far ascoltare la Suite perché voleva dire aver raggiunto un livello di intimità che con pochissime persone era stato superato.
Una soglia varcata da un numero di persone non più ampia delle dita di una mano, quello era poco ma sicuro.
Forse riascoltare l'album incriminato avrebbe portato a qualcosa di nuovo, sembrava abbastanza scontato ed era stato sciocco non pensarci prima.
E fu così che il miracolo avvenne:

“We said goodbye before we said hello, I hardly even like you, I shouldn't care at all. From your bed I gained a day and lost a bloody year... HOW DO YOU FEEL? HOW DO YOU FEEL?”

Bingo! Ecco svelato l'arcano... Summer of '68, terza traccia dell'album Atom Heart Mother.
Tutto torna: il nome della mucca ed una frase dell'album.
Ma tutto torna cosa? Questa scoperta non faceva altro che infittire il mistero peggiorando la situazione.
Significava che a maggior ragione nulla fosse stato fatto per caso e che l'avvocato avesse tutte le ragioni di questo mondo: c'era un'evidente premeditazione.
Si voleva colpire nel segno e in un certo senso ci si era riusciti: dall'altra parte dello steccato, e parlando di una pezzata nessun paragone avrebbe potuto essere migliore, si celava una persona intelligente, molto intelligente. E probabilmente ferita, molto ferita.
Potenzialmente un mix esplosivo e molto pericoloso, ma troppo intrigante per il Nostro che era abituato a giocare a gatto e topo e mai e poi mai si sarebbe sottratto ad una simile sfida, a maggior ragione adesso che aveva tutti gli elementi per fare la sua prima mossa.
Fu allora che prese la decisione più banale e scontata.
Aprì il tablet, cliccò sull'icona del social blu per poi spostarsi sull'applicazione di messaggistica istantanea e digitare la più semplice delle domande:
- C'eri anche tu nell'estate del '68? -

Paolo Zanatta

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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