Ogni mattina saliva il viale dei cipressi appoggiando i piedi sulle lastre di pietra affossate nel terreno, avendo cu-ra di non calpestare il prato verde ai suoi lati. Stringeva le mani dietro la schiena e teneva la testa piegata verso il bas-so, come se portasse su di sé il fardello di tutte le delusioni che impressero nella sua vita insanabili e dolorose ferite. Quel giorno i raggi del sole filtravano attraverso gli alberi secolari, conferendo all'atmosfera un tepore settembrino. Di tanto in tanto, un soffio di vento portava dietro di sé il profumo del mosto fresco, verosimilmente proveniente dalle colline di Montevecchia, dove la natura prima, e l'opera dell'uomo poi, avevano creato le migliori condizio-ni per la coltivazione di uve pregiate. Quando raggiunse la cima del colle, si girò indietro a guardare le creste baciate dal sole delle montagne lecchesi, divenute amiche, e respirò a fondo per riprendere fiato; poi, ruotando lo sguardo verso la sottostante valle del Lambro, ammirò i laghi dalle acque verde smeraldo, le tor-ri e i campanili sporgenti dalla verdeggiante e rigogliosa natura. Estasiato e boccheggiante, pregò dentro di sé: “Grazie o Dio, che mi permetti di essere qui anche oggi a gioire di-nanzi a così tanta bellezza! Con lei nel cuore e Te vicino, la mia vita mi appare meno vana e solitaria”. Si sedette su una mensola granitica, sporgente dai ruderi della vecchia muraglia che recintava il soprastante maniero, e si lasciò andare ai ricordi. Gli tornarono alla mente avvenimenti che avrebbe voluto dimenticare: quelli nati da speranze svanite o da ingiuste sconfitte, quelli indotti dalla fiducia tradita da qualcuno in cui credeva, ma soprattutto quelli generati dall'odio pro-fondo delle persone che gli furono vicine e lo incolparono delle loro disgrazie. Con lucidità esaminò alcuni aspetti di quei fatti e non trovò nulla di cui dolersi, salvo la difficoltà a rapportarsi con le persone e a entrare in empatia con loro. “Se fossi sta-to più tollerante, le cose sarebbero andate diversamente?” si chiese nel suo intimo. La risposta gli fu suggerita da un detto manzoniano: - Del senno di poi ne son piene le fos-se - . A distogliere l'attenzione di Elio dai suoi cupi pensieri ci pensò una scolaresca, arrivata all'improvviso sul viale per una passeggiata. La gioia di vedere quello sciame di bam-bini felici, immersi in un angolo di natura dai colori autun-nali con sfumature policrome, gli intenerì il cuore. Nello stesso tempo, gli vennero in mente gli anni bui del-la sua infanzia, vissuti in una terra bellissima ma costellati da tanta miseria, che non gli avevano permesso di essere felice come quei bambini dei quali udiva le grida festose. Consultò l'orologio, era tardi. Si alzò in fretta e a passi lenti e incerti discese il colle dalla parte opposta a quella da cui era salito. A metà cammino si fermò nel cimitero in cui era stata sepolta la compagna della sua vita, deceduta anzitempo. Per lui era diventato un rito quotidiano. Quel giorno so-stò in raccoglimento davanti alla sua lapide più del solito: erano passati dieci anni dalla morte. Baciò la foto, sistemò i fiori messi il giorno prima e pregò, come era solito fare. Nel frattempo, rivisse alcuni frammenti di vita passati in-sieme e provò dolore, un dolore talmente forte che i suoi pietosi lamenti si sarebbero uditi molto lontano, se i rintoc-chi della campana del mezzogiorno non li avessero atte-nuati. Dopo aver bagnato di lacrime l'arida terra del camposan-to, s'incamminò verso casa dove nessuno degli affetti più cari lo attendeva. Al cancello d'ingresso trovò Agnese, la fedele governante. - Continuare a soffrire non serve a ripor-tarla in vita, deve farsene una ragione, dottore. Provi, piut-tosto, a immaginare la signora felice nell'altra vita, vedrà che l'aiuterà a lenire il dolore. - E lo prese sottobraccio per aiutarlo a salire i gradini di casa. - Grazie, sei sempre molto premurosa con questo vecchio. Mi dispiace d'aver fatto tardi. Il tempo è corso via veloce senza che me ne accorgessi. - - Non si preoccupi dottore, si appoggi a me, così le sue ginocchia non le faranno brutti scherzi. - Agnese era rimasta al servizio di Elio anche dopo la mor-te della moglie, poiché nessuno dei suoi familiari era più in vita. Proveniva da un paesino comasco, situato sui monti che si affacciano sul lago, dove le donne avevano un carat-tere forte ma anche molta umana comprensione. Elio aprì la porta del suo studio e la richiuse con delica-tezza; poi, si lasciò cadere sulla poltrona di pelle dietro la scrivania e si perse nei suoi ricordi. Ma un dettaglio attirò la sua attenzione: sul tavolo c'era il plico di lettere che Agnese aveva ritirato dalla cassetta postale. Una in partico-lare spiccava per il colore rosso acceso e la prese in mano. La busta era senza mittente e aveva il timbro postale illeg-gibile. D'acchito, si chiese chi avesse potuto scrivergli con una grafia così raffinata e curata. “Deve essere una donna, solo loro sanno scrivere così bene” pensò tra sé. Prese la busta tra le mani e la esaminò attentamente, spe-rando di trovare qualche indizio che lo aiutasse a identifi-care la scrivente. Ma non vide nulla di familiare, nessun segno distintivo o simbolo. Decise allora di aprirla con l'apribuste che teneva nel cassetto. Dentro trovò un bigliet-to bianco, con una frase scritta in corsivo: “La busta allegata è riservata a lei”. Elio sentì un brivido lungo la schiena. Si chiese cosa ci sarebbe potuto essere all'interno. La aprì con cautela e ne estrasse una lettera profumata. La lesse tutta d'un fiato. Quando i suoi occhi si posarono sulla firma, il suo cuore si fermò. - Oh mio Dio! - esclamò a voce alta. Si tolse gli occhiali e si portò la mano al cuore, come se volesse comprimere la fitta di dolore che aveva avvertito in quell'attimo. Puntò gli occhi verso l'infinito, per visualizza-re l'immagine di colei che un tempo aveva amato, e gli comparve il volto di Maria, l'amore della sua giovinezza. La lettera iniziava così: - Caro Elio, se stai leggendo questa lettera è perché io non ci sono più nel tuo mondo. Da tem-po volevo scriverti [...] - . Arrivato in fondo ripiegò la lette-ra, la rimise nella sua busta e la chiuse in un cassetto. Nel frattempo si erano affastellati nella sua mente tanti pensieri, in parte di nostalgia di un passato che non sareb-be più tornato, ma anche d'incredulità e d'inquietudine, che si aggiunsero a quelli con cui era iniziata la giornata, che non voleva più ricordare. Per fortuna, a distoglierlo da essi, arrivò puntuale e salvifico l'invito a sedersi a tavola da parte di Agnese e, in cuor suo, si sentì subito sollevato. I Elio venne al mondo nell'anno in cui l'Italia firmò l'armistizio con gli Alleati. Quando i suoi occhi azzurri si aprirono al mondo, il padre non era accanto alla madre: i militari della Wehrmacht lo avevano catturato al fronte e poi rinchiuso in un oscuro campo di prigionia. In quegli anni le famiglie friulane piangevano i loro morti in guerra, soffrivano per i dispersi e speravano nel ritorno degli internati nei lager tedeschi. Malgrado i dispiaceri, però, nelle campagne i vecchi col-tivavano i campi, le donne si occupavano della casa e dei bambini. Nel paesino in cui viveva Elio, un mattino, la gente fu svegliata dallo scampanellio improvviso e ininterrotto di una campana; impaurita, si riversò nelle strade e nei borghi chiedendo a voce alta cosa stesse succedendo. - È scoppiato un incendio! - gridava un vecchietto molto agitato. - Stanno rubando le bestie nelle stalle - urlavano altri. Tut-ti correvano verso la chiesa. In quel tempo, gli incendi divampavano di frequente nei campi, a causa del caldo torrido, e le stalle dei contadini erano prese di mira da sedicenti bande di partigiani che razziavano ciò che trovavano. Nel sagrato della chiesa, intanto, si erano riunite molte persone che attendevano spiegazioni dal parroco. Fra le tante c'era anche Angela, con in braccio il suo Elio. A un certo punto, don Giuseppe si affacciò alla porta del-la canonica e vide un folto gruppo di persone in ansia. Con voce ferma e chiara, annunciò: - Ho una buona notizia per tutti voi...
Roberto Tedesco
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