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Autore: Katy Blacksmith
Il razziatore
Fantascienza Thriller
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Il razziatore
Sessantatré anni prima.

- È nato! - esultò il Patriarca. - Uniamoci in un canto di festa, un nuovo driota(*) è tra noi! -
La popolazione di Frarase, nell'udire l'annuncio, si sentì colmare di gioia per il lieto evento e all'unisono vibrò di felicità nell'accogliere la nuova vita.
E a quel punto, non più schermati dal grembo materno, i recettori emotivi del piccolo vennero travolti dall'attenzione e dall'affetto dell'intera colonia, focalizzata com'era sul nuovo nato per iniziarlo con l'impronta, unica, della sua famiglia. Era un momento sacro: l'accettazione di un nuovo membro nella comunità di cui avrebbe fatto parte per tutta la vita.
Esposto, privato della protezione materna, il piccolo annaspò, sopraffatto da quell'onda improvvisa. Si sentì aggredito dalla volontà soverchiante che cercava di farlo suo e di marchiarlo, inglobandolo nel mare emotivo circostante. Protestò con vagiti stizziti, agitando scompostamente le manine nel tentativo di allontanare quella moltitudine di menti che a migliaia si affacciavano alla sua coscienza, ciascuna lasciando il proprio segno. Già affaticato dall'impresa titanica di nascere, tentò di opporsi a quell'invadenza, ma senza successo. E così non gli restò altro che rifugiarsi in un pianto che nessuno poté consolare.

Quel malessere lo accompagnò giorno dopo giorno, anno dopo anno, al punto che spesso era costretto a letto da nausee, capogiri e feroci mal di testa. Una condizione che ben presto lo relegò nella solitudine, impossibilitandolo a frequentare altri bambini.
Aveva circa quattro anni quando mise piede per la prima volta nel bosco dietro casa. Inseguendo un animaletto che si era avventurato nel loro giardino, attraversò la siepe che lo delimitava e si inoltrò tra foglie secche e i ciuffi di vegetazione, alberi e cespugli, soffice muschio e piccole bacche profumate. Poi la bestiola si rifugiò in un buco nel terreno e lui si guardò attorno. La prima cosa che lo colpì fu l'odore di quel luogo: fresco, umido e con note speziate, entrava con facilità nei suoi polmoni saziandolo. Solo un istante più tardi scoprì una sensazione del tutto nuova; non provava più alcun dolore, neppure il malessere che lo affliggeva da quando aveva memoria. In quel luogo il piccolo per la prima volta fu in grado di percepire se stesso, integro e completo, finalmente indipendente e unico. Fu una rivelazione, scoprire di poter essere un individuo sconnesso dalla colonia, perché non gli era mai riuscita prima, essendo costantemente coinvolto dal mare empatico di Frarase.
Il bambino rimase nel bosco fino al tramonto, poi il buio e la fame lo costrinsero a riprendere la direzione di casa. A mano a mano che si avvicinava, tuttavia, ricominciò a provare il consueto malessere, tanto che fu tentato di fermarsi e tornare nel fitto del bosco, ma il suo stomaco non volle sentire ragioni.
Fu in quel momento che per la prima volta ebbe il sospetto che a causare la sua sofferenza fosse la presenza di altri drioti.
Da quel giorno il bosco divenne il suo rifugio, la sua oasi di pace: si svegliava il mattino presto, faceva colazione e arraffava qualche frutto o dolce, e poi via, correva lesto su per la collina a scoprire nuovi sentieri, a spiare le bestiole fuori dalle tane, a osservare ogni pianta, per rientrare la sera sporco e con le ginocchia sbucciate.
Un giorno i suoi recettori empatici percepirono una sensazione ignota, intensa. Ne individuò la direzione e la seguì, stuzzicato dalla curiosità. Poco distante, un grosso insetto era stato catturato da un predatore, il quale lo teneva tra le fauci. Il bambino riusciva a sentire le emozioni di entrambi, sia quelle del cacciatore, ancora eccitato, sia quelle della preda, viva e consapevole di quello che stava succedendo. Era terrorizzata e dolorante, e aveva due zampette rotte e le ali schiacciate, in quel morso; si dibatteva, ma nessuno dei suoi tentativi di fuga stava dando risultati.
Il bambino provò una forte attrazione per gli impulsi che gli giungevano dall'insetto e la sua disperazione, e vi si abbandonò con piacere estatico. L'ineluttabilità e la frenesia con cui cercava di liberarsi lo rapirono in una crescente e caotica intensità. Poi, improvvisamente, il nulla. Il predatore aveva serrato le fauci e messo fine all'agonia del suo pasto. Quel legame empatico spezzato in modo repentino rese ancora più significativi gli ultimi attimi della bestiola, accentuando ulteriormente le sensazioni che ne erano scaturite.
Il piccolo ne fu folgorato. Non aveva mai provato nulla del genere, non aveva mai percepito la disperazione palpitante di un essere vivente nei suoi ultimi istanti. Era tanto coinvolgente quanto affascinante. Il bosco gli divenne indispensabile: oltre a metterlo al riparo dall'influenza della colonia, era anche il suo personale dispensatore di eccitazione, e con poche e semplici regole: o si uccideva oppure si veniva uccisi.
Quando raccontò ai genitori la scena alla quale aveva assistito, lo fece con l'ingenua meraviglia della sua età, ma quelli, lungi dal volerlo assecondare, lo redarguirono, perché nessun driota avrebbe dovuto provare entusiasmo per situazioni dolorose.
Il duro rifiuto dei suoi parenti lo rese ancora più schivo e cupo, e incentivò le sue fughe verso i boschi. Negli anni il ragazzo crebbe sempre più solitario, finché i genitori, preoccupati, ne parlarono al consiglio degli Anziani. Dopo lunghe discussioni, quelli attribuirono la stranezza delle sue inclinazioni ai frequenti malesseri che lo avevano tenuto lontano dai suoi simili durante la crescita, impedendogli di trarre profitto dallo scambio emotivo e dell'armonia dei drioti. Con lo scopo di correggerne il comportamento, il giovane venne sottoposto a continue e costanti sessioni di affetto, le cui propaggini insistenti tentarono di scardinare le ultime resistenze dietro cui il suo animo ribelle e disperato si era trincerato; tuttavia, più affetto e attenzione gli venivano imposti e maggiore era lo strazio che provava.
Presto, il ragazzo si rese conto di non avere scampo: se fosse rimasto nella colonia la sua agonia non avrebbe avuto fine. Pertanto finse di cedere, finse di aver trovato il proprio posto, e nel frattempo iniziò a tenere d'occhio le esportazioni di merci che la colonia produceva.
Non dovette attendere a lungo: alla vigilia del suo quattordicesimo compleanno riuscì a fuggire di nascosto in un cargo, lasciando Frarase con la promessa che mai e poi mai avrebbe rimesso piede in una colonia driota. Anche se non sapeva che cosa avrebbe fatto per vivere, dove sarebbe andato e come sarebbe riuscito a cavarsela in un ambiente sconosciuto, ciò che contava era la libertà da quella oppressione intollerabile. Per la prima volta, ogni cosa gli sembrava possibile.
Da allora, nessuno a Frarase ebbe più sue notizie.


Capitolo 1: L'arte di coltivare

Giunse l'alba, e se quella notte vi erano stati presagi nessuno li aveva colti; il cielo era troppo luminoso per individuare nuove pallide scie, e gli abitanti non avrebbero comunque dato alcun peso all'eventuale passaggio di una cometa. D'altronde, per gettare scompiglio nella comunità, il cumulo di ghiaccio e rocce in transito avrebbe dovuto essere in rotta di collisione con il loro mondo.
Mitila era una minuscola cittadella mineraria posta nella zona temperata di un anonimo pianeta. Occupava, insieme alle sue due lune, la seconda orbita attorno a una stella gialla, situata a metà strada dal centro di una delle innumerevoli galassie conosciute. Trovandosi su un braccio di spirale piuttosto affollato di corpi celesti, le notti non erano mai buie e alcuni degli astri erano talmente vicini e luminosi da mostrarsi anche durante il giorno. A minuti, infatti, sarebbero sorte Le Quattro Sorelle, un gruppo di stelle di una piacevole sfumatura color porpora, tipiche del cielo estivo.
Mitila era anche l'unica parte colonizzata del pianeta, e le abitazioni dei minatori erano nei pressi della miniera. Se ne stavano appollaiate come grasse matrone sul più grande giacimento di tyuyamunite(**) che si fosse visto da un pezzo. Attorno alle casupole c'era un parco rigoglioso e curato che ospitava un'enorme palestra, un lago artificiale e innumerevoli piante, fiori e animali: alcuni di essi erano autoctoni, altri erano stati portati lì dai residenti. A perdita d'occhio si estendeva un folto bosco, parzialmente incluso nella zona di sicurezza che circondava la cittadella; una fitta rete di sorveglianza vigilava per scoraggiare e individuare l'intrusione di ladri e altri pericoli. Soltanto a nord il paesaggio cambiava: le cime rocciose e ripide delle montagne, altissime e screziate di rosso e di bianco, fungevano da scudo contro le correnti gelide provenienti dal polo; non di rado erano ricoperte di neve e nubi temporalesche. Inoltre, quando la furia dei fulmini si accaniva sulle altissime rocce senza scalfirle, i lampi erano visibili fin da quella distanza e sembrava di assistere a scontri epici.
L'alba, come dicevamo, era giunta. La flora, affamata, diffondeva nell'aria richiami ormonali, esche perfette per far avvicinare ignare prede da catturare tramite le corte antenne, sensibili e uncinate. Erano pasti necessari per far giungere a maturazione i semi, presenti nelle sacche nei pressi delle radici, tossiche. Era una continua lotta per sopravvivere, un'attività a cui nessuno aveva la libertà di sottrarsi, e che in estate giungeva al proprio gioioso culmine.

Gashur, l'anziano e unico driota a Mitila, percorreva il vialetto lastricato attorno al parco con lieta impazienza: la popolazione di minatori, le cui case si trovavano più avanti, si stava svegliando e lui percepiva il ritorno di ciascun cittadino allo stato di coscienza.
Il mattino era di gran lunga il suo momento preferito, così pieno di potenzialità dopo un sonno ristoratore, perché portava con sé tutti i migliori propositi e le energie per portarli a termine. Sapeva per esperienza che a volte bastava un piccolo incoraggiamento per realizzare qualsivoglia impresa, piccola o grande che fosse, e lui non aveva mai negato il giusto sostegno ai suoi protetti.
Anche se, e lì stava la sua abilità, nessuno ne era mai stato consapevole.
I canali empatici, spalancati e tesi a cogliere ogni presenza, lo avvisarono dell'arrivo dei ragazzi prima che i suoi occhi color miele e screziati di pagliuzze ramate potessero individuarli.
Puntualissimi come ogni mattina, scorse i dodici giovani furliani(***) della prima generazione nata su Mitila, che procedevano lungo il percorso che li avrebbe portati in palestra per l'allenamento mattutino impegnati in una gara di velocità e resistenza. Gli otto maggiori guidavano il gruppo, inseguiti dai quattro cugini più giovani di un anno. Giorno dopo giorno, tuttavia, al completarsi dello sviluppo degli ultimi, il distacco tra i due gruppi sarebbe diminuito sempre di più.
Con oltre due metri e mezzo di altezza, avevano quasi terminato la crescita, e le placche cornee del tipico colore blu scuro tendente al nero che li ricoprivano interamente stavano completando il proprio ispessimento. Anche se ancora non erano entrati a pieno titolo nel ruolo, indossavano già l'uniforme nera della sorveglianza, una tradizione di famiglia. Pur essendo quasi adulti, ancora non si erano guadagnati il diritto di avere un nome: erano chiamati ancora con l'iniziale del nome della madre seguita dal numero che indicava l'ordine nel quale si era schiuso l'uovo.
- L'ultimo che arriva pulisce gli spogliatoi! - gridò C3, la cui voce aveva il timbro di un brontolio di tuono. Tallonava C5, solidamente in testa al gruppo; nelle retrovie, gli altri tentavano di allungare il passo per raggiungerli.
- Oh, maddai! Di nuovo! Dovremmo fare a turno, non è giusto che tocchi sempre a noi! - si lamentò H1 tra gli ultimi del gruppo. Anche se nella sua covata si era avventurato per primo fuori dall'uovo, tutta la sua intraprendenza sembrava essersi esaurita alla nascita: era il più minuto e in effetti il più pigro di tutti.
- Meno chiacchiere, e alza bene le ginocchia - lo riprese C5, quasi materna. Anche al di fuori degli allenamenti, aveva spiccate doti di leader.
Nonostante la mole e il fatto che stessero correndo, i passi dei furliani erano inudibili, il che era il frutto di un continuo addestramento volto ad affinare le caratteristiche di quelli che per natura, un tempo, erano stati predatori implacabili.
- Buongiorno, zio! -
- Buongiorno, zio! -
- Buongiorno, zio! -
I ragazzi, sfrecciando accanto a Gashur, lo salutarono a turno evitandolo con agilità pur facendo svolazzare la sua lunga tunica borgogna. Lui ebbe appena il tempo di ricambiare il saluto con un cenno della mano, pallida e delicata, prima che sparissero dietro un gruppo di alberi. Altrove, il contrasto tra quei giganti scuri e corazzati e il suo fragile ed esile fisico, curvo sotto il peso degli anni, avrebbe fatto sorgere domande circa l'utilizzo del termine zio. A Mitila, però, tutti sapevano che l'appellativo se l'era ampiamente guadagnato contribuendo a crescerli, come già aveva fatto con le loro madri.
Trattenne per qualche altro istante nella mente tutta la freschezza e l'energia di quelle giovani vite, desiderose di afferrare il cosmo tra le mani e farne qualcosa di ancora più bello. Si sentì orgoglioso; sarebbero diventati degli splendidi adulti.

(*) Driota: specie anticamente originaria del pianeta Drio; al di fuori di esso si trova in colonie. Sono capaci di comunicazione empatica (fino a divenire comunione empatica, negli insediamenti) per cui sono particolarmente richiesti per facilitare gli accordi: da quelli commerciali alle situazioni di conflitto. Fisicamente sono esili e pallidi, delicati.

(**) tyuyamunite: minerale da cui si ricavano uranio e vanadio

(***) furliani: esuli dall'ormai distrutto pianeta Furlo. Sono i più alti tra gli esseri in era-spazio, raggiungendo quasi i tre metri; hanno un colorito tra il blu e il nero e sono ricoperti di scaglie cornee. Sono cacciatori naturali e guerrieri per vocazione, il che li rende temuti da ogni altra razza. Sono costretti a disperdersi in piccole colonie per poter sopravvivere.

Katy Blacksmith

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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