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Autore: Gian Piero Orsini
Iron Tom - I misteri della tuta nera
Fantascienza
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Iron Tom - I misteri della tuta nera
Chiuse il lettore olografico, allargò le braccia sugli schienali delle poltroncine libere che aveva a fianco, accavallò le gambe e osservò la grande sala ovale. Numerose file di poltroncine arancioni, con gli schienali contrapposti, erano distribuite tutt'intorno in quella metà di sala, in corrispondenza ai gate d'imbarco. Bar, tavole calde e negozi duty free occupavano la metà opposta. Gran parte delle persone si concentrava là per ingannare il tempo dell'attesa.

Il profumo della carne, del pesce e delle salse arrivava smorzato, molti erano intenti a mangiare l'ugali.
Ancora aveva il buon sapore in bocca di quella specie di polenta che aveva appallottolato e intinto in salse a base di carne e pesce.
Il brusio era sovrastato dalla cacofonia di suoni che provenivano dalla pletora di schermi olografici che fluttuavano sopra le teste, con informazioni, pubblicità e notiziari. Alcuni mostravano a caratteri grandi 19/05/2129 12:38 e, in piccolo, l'ora delle principali città del mondo. Nulla di diverso da un qualsiasi aeroporto importante, anche se si sarebbe aspettato qualcosa di più da Nanyuki, il più grande spazioporto della Terra, l'unico dotato di un ascensore spaziale.

“È libera?”
Ritrasse il braccio sinistro. “Certo, si accomodi.”
Distese le gambe e assunse una seduta composta.
Una signora sulla cinquantina, bassotta e con una linea rotondetta, si sedette.
Nella fila di fronte, un bambino di circa otto anni, con i capelli molto corti e le orecchie grandi e un po' a sventola, giocava con la riproduzione di un'astronave.
Un servizio su Marte catturò la sua attenzione.
“Sono stati registrati una serie di atti vandalici ai danni dei negozi di Gran Via ad Ausonia, in concomitanza con una manifestazione di protesta in favore dell'indipendenza della colonia.
Circa tremila dimostranti, meno di cinquecento secondo le autorità locali, sono stati dispersi dalle forze dell'ordine con l'uso di dissuasori a microonde.
Gli organizzatori hanno diffuso un comunicato per condannare l'uso della forza da parte della polizia. A loro dire, un piccolo gruppo di disturbatori ha commesso i danneggiamenti e, invece di isolare i colpevoli, la polizia ha aggredito i dimostranti che protestavano pacificamente senza infrangere alcuna legge.”

La signora si voltò verso di lui, aveva i capelli biondo cenere che cadevano poco sotto l'orecchio. Gli occhi celesti rivelavano una mente acuta. “Lei non è preoccupato?”
“Preoccupato per cosa?”
“Del futuro di Ausonia: la transizione sarà molto sofferta. Tra cinque mesi ci saranno le elezioni che sanciranno il passaggio da colonia a nazione, nell'ambito dell'Unione. Guardi cosa è successo oggi, sarà sempre peggio.”
“Si riferisce agli indipendentisti?”
“A loro soprattutto, secondo lei, a chi gioverebbe l'uscita di Ausonia dalla EUN o comunque l'instabilità?” disse la donna e proseguì senza aspettare la risposta: “Alle altre superpotenze, non crede ci siano loro dietro ai disordini di oggi?”
“Perché cinesi e americani dovrebbero interferire? Posso capire i primi, in fondo abbiamo finito una guerra con loro, qui in Africa, da meno di dieci anni, ma con gli americani abbiamo buoni rapporti.”
“Non creda, gli americani non hanno mai digerito l'ingresso della Russia nell'EUN.”
“Sono passati più di quarant'anni, ormai se ne saranno fatti una ragione. Inoltre, la Russia è una solida democrazia da ottant'anni e condivide i valori dell'EUN.”
“Ragazzo, la geopolitica traguarda i secoli”, disse la signora.
“Seguo un poco le questioni politiche, ma di geopolitica non so nulla.”
Un ragazzo ben vestito, di neanche trent'anni, si avvicinò. “Signora, ci sono un paio di questioni da sistemare prima della partenza, il Segretario Generale aspetta una sua chiamata.”
“Vengo subito”. Si alzò, si aggiustò le pieghe della gonna color cappuccino, coordinata con una giacca di ugual colore, e gli porse la mano. “Non ci siamo presentati. Sono Dace Ozols, il nuovo segretario del Partito del Presente di Ausonia.”
Tom si alzò e ricambiò la stretta. “Molto piacere. Fierro, Tommaso Fierro.”
“Le presento il mio assistente, un suo coetaneo. Venga a trovarmi su Marte, mi sembra un ragazzo sveglio, sebbene poco preparato su questioni importanti. Se avesse bisogno di qualcosa non esiti e anche senza bisogno, ci faremo una chiacchierata.”
La guardò andar via, era incredulo per aver conosciuto un simile personaggio. Tra pochi mesi sarebbe potuta diventare presidente, ammesso che fosse riuscita a sconfiggere il candidato del Partito del Futuro.

Il bambino iniziò a strepitare. Raccoglieva da terra i pezzi dell'astronave e li consegnava alla madre. Lei provava a ricomporli, ma con scarsi risultati. Gli strepiti aumentarono con un'intensità proporzionale ai tentativi infruttuosi della donna.
“Dai mamma, aggiustala, aggiustala”, ripeteva il bambino in swahili.
Si alzò, si mise a tracolla la borsa e si avvicinò.
“Signora, posso aiutarla? Riparare le cose è il mio mestiere”. Era tanto che non parlava swahili.
La donna alzò la testa sorpresa, era tutta presa dalla ricostruzione. Doveva avere circa quarant'anni, un viso luminoso e occhi neri che brillavano sotto i corti capelli ricci.
“Le sarei molto grata.”
Si sedette a fianco del bambino. “Come ti chiami?”
“Obi”. Il dubbio aleggiò sul volto del bimbo, non sembrava avere fiducia in lui.
“Io sono Tom. Bene, Obi, passami prima i pezzi più grandi e poi gli altri.”
Il giocattolo si era solo smontato, nessun pezzo era rotto, fatta eccezione per una piccola scheggiatura su una fiancata.

“Ecco fatto, la nave può ancora volare. Se qualcuno chiede qualcosa per questo buchetto, puoi dire che è stato un asteroide.”
Il bambino era a bocca aperta, incredulo. Gli saltò addosso, era uno scricciolo, e lo strinse in un abbraccio.
Il giocattolo ondeggiò in maniera pericolosa, rischiò di cadere di nuovo.
“La ringrazio moltissimo, non posso immaginare un mese di viaggio con Obi senza il suo giocattolo preferito.”
“Di niente, si figuri, è stato un piacere.”
Obi parcheggiò l'astronave nel sedile libero a fianco della madre.
“Tom, sei mai stato su un ascensore spaziale?”
“Sì, quattro volte. Ho fatto due viaggi di andata e ritorno per la Luna.”
Il bambino lo scrutò. “Come funziona l'ascensore?”
Si prese del tempo per pensare, doveva trovare un modo per dare una spiegazione abbastanza semplice da essere compresa. “C'è un cavo di oltre trentaseimila chilometri che parte da qui e raggiunge un asteroide in orbita. L'ascensore usa il cavo come guida e sale con i motori al plasma fino alla stazione di scambio che sta prima dell'asteroide.”
Obi si grattò il mento. “Come fa il cavo a stare dritto?”
La questione si complicava. “Immagina di legare un sasso a una corda e poi di farlo ruotare sopra la tua testa alla maniera dei cowboy, che succede?”
Gli occhi di Obi brillarono. “La corda sta dritta.”
“Bravo, la stessa cosa accade con il cavo dell'ascensore, grazie alla rotazione della Terra.”
L'altoparlante annunciò: “I passeggeri diretti a Marte, colonia di Ausonia, con il cognome dalla D alla F, sono pregati di recarsi al gate sette.”

Tom si alzò in piedi e si mise a tracolla la borsa.
Il viso di Obi si rabbuiò. “Già te ne vai? Non puoi salire con me?”
Gli accarezzò la guancia. “Le cabine trasportano cinquanta persone e partono in sequenza a intervalli di venti minuti, se non salgo in quella destinata a me salterò il viaggio.”
Salutò madre e figlio. “Fate buon viaggio” e si avviò all'imbarco.

Qalok manovrava la console in maniera distratta e senza il solito entusiasmo.
“Che ti succede? Non sei contento? Oggi partiremo.”
Qalok lo guardò, era cupo, pensieroso. “Sono contento, certo che sono contento.”
“Hai litigato con Waran?”
Il tecnico si incupì ancor di più. “Scusa, non sono affari miei.”
“Tarnak, non è questo. Waran è strana da qualche giorno, e io anche.”
“Se vuoi parlarne.”
“Abbiamo deciso di avere figli, una volta a casa.”
“È quello che avete sempre detto.”
“Però poi non potremo tornare per parecchi cicli, o almeno uno di noi non potrà farlo.”
“Dove sta il problema? Guarda me, non ho nessuna intenzione di tornare qui o in altri mondi alieni, sono stanco di stare in gabbia.”
“A noi piace studiare gli umani.”
“Cosa ci trovi in quegli esseri?”
Kurzan entrò nella stanza. “Ci sono notizie?”
Si alzò e cedette il posto, si piazzò in piedi alla sinistra di Qalok.
“Chiameranno all'ingresso in atmosfera, dovrebbe avvenire entro pochi istanti”. Disse Qalok.
Kurzan prestava servizio su quel pianeta da più tempo di tutti. Indossava una tuta nera militare che emanava riflessi metallici, oggi esibiva anche le insegne del rango.
Non aveva mai avuto il coraggio di chiedergli perché un personaggio del suo livello fosse stato confinato in quell'avamposto sperduto. Non era più tanto giovane, però emanava energia e tirava fuori il meglio da ognuno di loro. Si era trovato bene con lui.
Nonostante questo, quel periodo di servizio gli era sembrato interminabile. Doveva garantire la sicurezza degli scienziati che studiavano quegli esseri, ma il suo intervento non era stato necessario. Gli umani possedevano la tecnologia spaziale, ma non erano mai stati in grado di individuarli e meno che meno mettere a rischio la sicurezza. Adesso era finita, basta con lo spazio, avrebbe chiesto un incarico su Nyumba, gli spettava di diritto.
La radio annunciò una comunicazione in arrivo.
“Emergenza, protocollo cinque, una nave occultata ci segue.”
Qalok allungò una mano, ma Kurzan la bloccò. “Non hai sentito? Protocollo cinque, non dobbiamo rispondere per non farci individuare.”
Qalok ritirò la mano e si voltò verso Kurzan. “Gli umani non possiedono quella tecnologia,” e aggiunse, “devono essere i rehmni.”
Restarono in silenzio a metabolizzare l'enormità di quella affermazione. I rehmni, i vecchi nemici.
“I rehmni così lontani da casa?”
Kurzan lo guardò, le rughe che solcavano il viso si allargarono fino a costruire una ragnatela.
“Tarnak, prendi Qalok e vai.”
“Qalok è un civile, meglio Kuv.”
“Non discutere, Qalok era un pilota in guerra, lo voglio con te.”
Qalok si alzò in piedi. La tuta color argento emanava bagliori metallici. Il volto tirato mostrava che era pronto.
“Andiamo.”
“Tarnak.”
Si voltò verso il Comandante.
“Se possibile evita lo scontro, lascio a te giudicare la situazione.”
Lui e Qalok uscirono dal piccolo edificio e raggiunsero la nave.
Alzò gli occhi alla bocca del cratere, era appena sufficiente per passare, non gli piaceva fare quella manovra.
Presero posto a bordo, le dita di Qalok volarono sui comandi. “Portello chiuso. Propulsione accesa.”
“Attiva l'occultamento.” Qalok eseguì.
Fece sollevare il velivolo dal suolo fino a metà della verticale disponibile, azionò in successione i getti di manovra per collimare con l'apertura, diresse la spinta sul basso e la navetta prese a salire con lentezza fino all'esterno della bocca vulcanica. Allineò la prua e spinse al massimo il motore convenzionale.

***

Il segnalatore indicò la navetta amica dritta avanti a lui.
“Sono Tarnak, aggiornami.”
“Sono Alia, li abbiamo individuati subito dopo l'ingresso in atmosfera, non rispondono alle chiamate.”
Qalok si concentrò sui tracciati. “Rilevo due tracce di gas ionizzato. Per Akarut, gli stanno incollati. I nostri stanno tentando di seminarli, ma loro rimangono lì.”
Cosa volevano i rehmni? Era forse scoppiata un'altra guerra?
Non poteva saperlo, le comunicazioni impiegavano oltre sei cicli, le ultime informazioni le aveva portate lui, un ciclo prima. In un ciclo potevano essere accadute molte cose.
Quella era una posizione d'attacco, se ci fosse stata la pace i rehmni non sarebbero stati così aggressivi. Doveva agire subito o la navetta sarebbe stata spacciata.
La voce concitata di Alia animò la radio. “Tarnak, stanno sparando, lo scudo non reggerà a lungo.”
“Aggancia i cannoni al centro della loro nave.”
Qalok attivò due comandi. “Fatto.”
“Fuoco a ripetizione.”
Non poteva vedere i proiettili elettromagnetici, ma li immaginò divorare l'aria verso la preda.
La navetta rehmni divenne visibile e sparì di nuovo.
“Cessa il fuoco”. Non voleva esaurire tutta l'energia troppo in fretta.
“Hanno smesso di inseguire, vengono verso di noi”, disse Qalok.
“Proiettile a impatto, fuoco.”
Virò a sinistra e salì di quota.
“Sono dietro di noi, sparano”. Disse Qalok.
Tuffò la prua verso il suolo.
“Rapporto danni.” Ritornò in volo orizzontale.
“Gli scudi hanno retto, occorre dargli il tempo per ricaricare, nessun danno.”
“Tarnak, la nostra navetta è danneggiata”. Disse Alia.
“Puoi governare?”
“Affermativo.”
“Torna in orbita.”
“Negativo, il massimo che posso fare è raggiungere la base.”
“Vai quando attaccherò.”
“Qalok, trovali.”
“Sono dietro di noi a sette navette.”
“Reggiti forte.”
Impennò la prua verso l'alto, spinse la nave su un arco perfetto e tornò alla posizione iniziale.
“Sono davanti a noi”. Disse Qalok.
“Due proiettili a impatto, fuoco.”
Si sganciò e scese fino a sfiorare il suolo. Aveva la stella alle spalle, forse i loro sensori non avrebbero tracciato i gas ionizzati.
Qalok urlò: “Prendi quota subito, così ci vedono.”
L'occultamento poteva ingannare occhi e strumenti, ma non la stella che aveva alle spalle, l'ombra della nave era proiettata sul suolo di sabbia e rocce rosse.
“Proiettile a impatto, fuoco.”
Virò verso l'alto.
“Due proiettili a impatto in arrivo”. Disse Qalok.
L'urto gli fece perdere il controllo e la navetta si avvitò verso il suolo.
“Traccia la loro posizione.”
Lottò per recuperare l'assetto.
“La nave non è più governabile, cerco di minimizzare l'impatto. Continua a tracciarli.”
“Si stanno allontanando, sembra che abbiano difficoltà anche loro.”
“Vanno verso la base?”
“No.”
“Che Akarut sia ringraziato. Qalok, sei credente?”
“No.”
“Prega lo stesso.”
Scendevano troppo veloci, doveva calcolare bene i tempi.
“Tutta la potenza ai getti inferiori.”
“Fatto.”
Chiese al motore il massimo che poteva dare in quel momento.
Il suolo si avvicinava a gran velocità; riuscì a sollevare la prua.
Lo schianto lo proiettò contro le cinture di sicurezza, ma non era finita; la corsa della navetta, che rimbalzava sul suolo, non accennava a fermarsi.
L'urto violento arrivò all'improvviso: un gruppo di rocce aveva interrotto il moto del velivolo.

“Qalok, ci sei?”
“Ci sono, sto bene, eseguo una diagnostica.”
Il compagno era chino sui comandi. “Il motore convenzionale è andato, quello a deformazione è integro. La prua è compromessa e la nave non è riparabile, non con gli strumenti che abbiamo qui. Conviene mettere i caschi.”
Inviò un ordine con il pensiero, il casco fuoriuscì dal colletto della tuta e gli avvolse la testa.
“Com'è il tempo fuori?”
“Vento forte e visibilità scarsa.”
“Meglio, la sabbia coprirà i segni che abbiamo lasciato.”
Era tempo di chiamare Kurzan. “Qui Tarnak, chiedo il recupero.”
Nessuna risposta, dovevano essere ancora in protocollo cinque.
“Non resta che aspettare.”
Guardò il compagno. “Perché ti piacciono gli umani?”
“Sono molto simili a noi.”
“Che dici? Certo sono quedadoidi, ma hanno un aspetto orribile.”
“Hanno colonizzato questo pianeta non adatto a loro.”
“Anche noi viviamo in due mondi.”
“Appunto. Mi piacerebbe osservarli da vicino, parlarci.”
“Sai che non è possibile, non è permesso il contatto con gli alieni.”
Qalok cambiò discorso. “Ora che succederà? Partiremo nonostante questo?”
“Non lo so, lasciare la base senza navetta è un rischio, se succedesse qualcosa, chi resta non avrebbe vie di fuga.”
“Cambia poco.”
“Che intendi?”
“Siamo in dodici con una sola navetta. Soltanto sei potranno evacuare.”
Aveva ragione. “Si saranno salvati i rehmni?”
Qalok lo guardò. “Penso di sì, dovrebbero essere nelle nostre stesse condizioni.”
“Magari sono stati fortunati e hanno trovato qualche vulcano dove rifugiarsi.”
“Se è così sono pericolosi.”
“No, se la loro navetta fosse danneggiata come la nostra.”
Qalok si agitò sul sedile. “Potrebbero decidere di rubare quella che ci è rimasta.”
“Tarnak, qui Kurzan. Quattro mezzi umani sono in volo e stanno venendo lì. Abbandonate la nave e lasciatela occultata, cancellate le tracce, se vi è possibile. Invio le coordinate per il recupero.”
Si alzò e aprì un ripostiglio sulla sinistra, prese due corti fucili e ne porse uno al compagno. “Impostalo su stordimento.”
Si avvicinò al portello. “Cosa possono aver sentito?”
“Devono aver scambiato le navette ravvicinate per un meteorite, ogni volta escono a cercare i frammenti.”
“Quanto sono curiosi”. Attivò l'apertura del portello e uscirono.

Il vento soffiava impetuoso e sollevava ondate di sabbia e polvere. Si vedeva poco, ma abbastanza per fare quello che dovevano. Il solco che avevano lasciato, strisciando sulla sabbia, era già in parte colmato.
Chiuse il portello e andò a prua. Gli spuntoni di roccia sparivano nel nulla era tutto occultato e le ombre delle rocce avrebbero avvolto quella della nave. Molto bene.
“Attiva l'occultamento.” Qalok sparì.
Lo attivò a sua volta, controllò il braccio e non vide nulla.
“Andiamo. Segui il mio segnale.”
In condizioni normali, sarebbe stata una passeggiata, la gravità di quel pianeta era poco più di un terzo di quella di Nyumba. Camminare con quelle raffiche di vento laterali però non sarebbe stato per niente agevole.
Delle luci dall'alto fasciarono la polvere in sospensione.
“Sono già qui.”
Gli umani dovevano essere stupidi, che senso aveva una ricerca con quel tempo, avrebbero fatto meglio ad aspettare.
Si incamminarono.

Gian Piero Orsini

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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