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Autore: Antonio Cuccurullo
La cornice scomparsa
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La cornice scomparsa
Giravo per la stanza come un leone in gabbia. Con la scusa che lo sposo non può vedere la sposa prima del matrimonio, ero stato allontanato dall'appartamento che condividevo con Viktoria e costretto a ritornare due piani più giù, nel mio alloggio da single. La ragione principale era quella di non intralciare i preparativi della futura signora Esposito e delle sue complici, Silvia e Samantha. Giravo attorno al problema perché, in realtà, quello che non riuscivo a comprendere ancora del tutto era come mi fossi fatto incastrare in quello che, comunemente, viene definito addio al celibato. Aspettavo con terrore di sapere che cosa avevano partorito le geniali menti di Freddy Scognamiglio, detto il chimico, Sergio Foglia e Marco Antonio Senatore, in arte Augustus. Se tolleravo rassegnato il loro modo di fare, una ragione c'era ed era che quei tre, ex colleghi della Polizia, erano la cosa più prossima a una famiglia che mi fosse rimasta. Il suono del citofono mise fine all'agonia e, rassegnatamente, scesi le scale, la macchina di Sergio mi aspettava nel vialetto. Vigliaccamente, per un attimo, fui tentato di ritornare indietro e riuscii a fare solo un altro passo prima di fare conoscenza con un immobilizzatore elettrico. Sui manuali non viene descritta la sensazione del malcapitato, forse perché nessuno degli autori l'ha sperimentato direttamente. Mi sentii come se di colpo mi avessero scollegato il cervello dal resto del corpo, l'ultima percezione fu un dolore diffuso a tutti gli arti e un sapore acre in bocca e poi persi conoscenza. Al risveglio avevo freddo, ma fui preso da un senso di vertigine quando riuscii a riscuotermi del tutto e mi accorsi, con sconcerto, di quale fosse il motivo del mio malessere. Prima di cominciare a prendere in esame la situazione, dovetti sincerarmi di essere veramente sveglio, perché la causa della nausea era tra le più improbabili che avessi mai potuto immaginare. Mi trovavo a torso nudo, ammanettato a un tubo, su una specie di altalena a circa cinque metri dal suolo. Alla mia destra, a qualche metro di distanza, su un affare simile c'era Sergio ancora svenuto, nelle mie stesse condizioni: ammanettato e denudato dalla cintola in su. Alla mia sinistra, circa cinque metri più in giù, adagiato ancora sul pavimento, c'era un'altra di quelle specie di altalene vuota con a fianco i nostri indumenti. Potei ammirare la semplicità e l'efficacia del marchingegno, era un tubo, lungo circa un metro e novanta, fissato con una catena di un paio di metri e mezzo, a uno dei tiranti del capannone, la base era una piastra di metallo circolare del diametro di una sessantina di centimetri. Le manette che avevo ai piedi e ai polsi, erano fissate a due anelli che potevano scorrere lungo tutto il tubo. Per sincerarmi sulle condizioni del mio amico, provai a far dondolare quell'affare per avvicinarmi a lui, ma di colpo sentii una scossa elettrica a basso voltaggio e intuii che era solo un avvertimento. Era chiaro il motivo per cui ci avevano denudato e tolto le scarpe, volevano evitare che gli indumenti ci isolassero dalle scosse elettriche. Il capannone era vuoto, quindi il nostro carceriere ci sorvegliava con un sistema di videocamere. Misi in atto tutte le tecniche di respirazione per tentare di rilassarmi. Attesi a occhi chiusi che l'oscillazione diminuisse, poi feci girare lo sguardo attorno, per fare il punto della situazione. Mi bastò per fare una rapida considerazione su chi potesse avercela con me ma, al momento, non mi veniva in mente nessuno. Guardai il mio compagno di sventura e il trabiccolo vuoto in basso e nel frattempo mi concentrai sui pochi casi, con un tragico epilogo, in cui Sergio aveva collaborato con me, per comprendere chi potesse essere il nostro aguzzino. Il solo ad avere un motivo valido era Renato Arrigoni e, se il mio ragionamento era esatto, sapevo anche dove ci potevamo trovare. Capii di essere probabilmente in un capannone, che ricordavo essere di sua proprietà, situato nell'area artigianale, ormai abbandonata, tra la Salaria e la diramazione Roma nord. In attesa che diventasse una zona residenziale, qualche anno prima avevano dato inizio ai lavori di bonifica del territorio, ma la crisi che aveva colpito il mercato immobiliare, aveva bloccato tutto.
Convenni, amaramente, che era il posto adeguato, il sogno di ogni sequestratore perché potevamo sbatterci come ossessi, gridare a squarciagola, ma nessuno ci avrebbe mai sentiti. Lasciai che il senso d'impotenza passasse, non era ancora giunto il momento di cedere alla disperazione, dovevo tentare di concentrarmi perché la priorità era valutare tutte le possibilità per trovare uno stratagemma per toglierci d'impaccio. Con la scusa di sgranchirmi le articolazioni mi guardai intorno e scoprii di avere una videocamera proprio sulla mia testa, sulla catena, un metro o poco più dalla carrucola a cui era fissata con del nastro adesivo. Siccome mi era bastato solo un attimo per individuarla, per un eventuale tentativo di fuga, sperai che, chiunque ci stesse sorvegliando, non avesse capito che avevo scoperto la posizione della video spia. Nell'attesa che il mio amico si riprendesse, ripensai a Renato Arrigoni. Tutto era cominciato due anni prima, quando, per divergenze di opinioni con i miei superiori, avevo rassegnato le dimissioni da commissario, presso la Centrale di Polizia in Via San Vitale e mi ero reinventato investigatore privato. Enorme era stata la meraviglia di tutti quelli che avevano scommesso sulla brillante carriera che avrei fatto in Polizia e l'unico a non aver mai giudicato male la mia scelta era stato Augustus, mio capo e vicequestore. Mi conosceva bene e i fatti gli avevano dato ragione e, proprio perché ero suo vice, sapeva che non ero per nulla avvezzo alle mezze misure. La mia cocciutaggine, unita alla conformazione mentale semplice da uomo d'azione, ma soprattutto al rifiuto di ogni compromesso, mal s'accompagnavano alle promozioni. Poiché solo Sergio era appeso di fronte a me, sperai che non fosse successo niente al mio ex capo perché, a dire di Arrigoni, eravamo stati proprio noi tre i responsabili della sua rovina. Passata la fase di stordimento, cominciai a fare mente locale sui fatti avvenuti all'epoca e ricordai di aver letto che l'uomo era stato scarcerato pochi giorni prima, per incompatibilità col regime carcerario e con una diagnosi impietosa di tumore allo stadio terminale; la malattia e quei due anni di galera di certo non avevano mitigato la sua voglia di vendetta. Siccome sapevo che era inutile disperdere le energie, momentaneamente non correvo il rischio di farmi prendere dal panico. Avevo passato la fase di smarrimento iniziale e continuavo a esaminare la nostra posizione. Mio malgrado, dovevo ammettere che definire la nostra situazione scoraggiante, non rappresentava appieno la condizione contingente. Perfino a voler essere ottimisti a tutti i costi, tenuti presente i mezzi che aveva usato, era legittimo supporre che, chiunque fosse, quando ci aveva piazzato là sopra, non l'aveva di certo fatto per farci uno scherzo. Le intenzioni del nostro sequestratore erano chiare, ricalcavano lo schema criminale classico, spesso utilizzato da chi vuole vendicarsi: ci avrebbe tenuto un po' a mollo per logorarci e, quando saremmo stati frollati a sufficienza, si sarebbe fatto vivo per consumare la vendetta vera e propria. Se le mie deduzioni sull'identità del colpevole erano esatte il piano, per castigarci, era maturato lentamente nei due anni di detenzione, ciò significava che aveva avuto tutto il tempo di pensare anche ai minimi particolari. Tutto questo, deponeva dannatamente contro di noi. Il movimento del trespolo di fronte a me, mi comunicò che Sergio si stava riprendendo e capii che era venuto il momento di unire le nostre forze perché, nonostante tutto fosse contro di noi, dovevamo provarci e non sarebbe stato per niente facile elaborare un piano per uscire da quella situazione. Tentai di mettere in guardia il mio amico, ma non feci in tempo ad avvertirlo che provò anche lui il dissuasore elettrico. Il guaio fu che contemporaneamente presi anch'io la scossa e ciò significava che chiunque di noi due avesse provato a fare una mossa sbagliata, entrambi avremmo avuto la stessa punizione. La situazione sembrava senza via d'uscita, ma non ero il tipo che si facesse abbattere dalle contrarietà della vita e allora mi costrinsi alla disciplina. Nonostante la testa vorticasse di pensieri, tentai di isolare solo quelli che potevano indicarmi una possibilità di fuga. Il solo fatto che stessi pensando a qualcosa per togliermi da quella posizione, mi calmò. Come una lucciola nella notte, cominciò a farsi largo un'idea; la lasciai decantare un po' poi, solo quando ebbi la percezione che potesse essere una strada percorribile, mi decisi a passare all'azione. Con un fischio cercai d'attirare l'attenzione del mio compagno di sventura e dovetti arrischiare ripetuti tentativi, prima che Sergio si voltasse dalla mia parte. Era ancora intontito, quando si voltò dalla mia parte in un primo momento non mi vide, ma poi si riscosse e mi guardò dritto negli occhi. Sperai vivamente che si fosse veramente ripreso, era importante, per lo stratagemma che si stava modellando nella mia testa, che lui fosse pronto all'azione. Misi in atto la prima parte del mio piano a beneficio dei nostri rapitori e, scandendo bene le parole, parlai in tono meravigliato: - Sergio, tu ti ricordi che cosa ci è successo? - il tono delle parole era un'ottava più alto del normale, mi schiarii un po' la voce prima di continuare: - mentre stavo per avvicinarmi alla tua macchina ho sentito una scossa e poi non ho più capito niente. Mi sono ritrovato appeso a ciondolare, come un salame - .
Intanto che parlavo, abbassando ripetutamente gli occhi, cercavo di richiamare la sua attenzione sulle mie mani. Scosse un paio di volte la testa, come a volere mettere a fuoco le evoluzioni delle mie dita, prima di rispondermi. La voce era incerta, biascicava ancora le parole: - Avevo da poco suonato al tuo citofono e, poiché avevo parcheggiato in seconda fila, ti aspettavo in macchina. Siccome faceva caldo, avevo il finestrino dell'auto aperto, un tizio si è avvicinato per chiedermi un'informazione, mi sono sporto per rispondere. Di colpo ho sentito un dolore al braccio che si è esteso su tutto il mio corpo, ed eccomi qua - .
Nonostante si fosse ripreso da poco capì subito il mio intento, quello di usare l'alfabeto dei segni, che avevamo elaborato nell'operazione “Polvere di stelle”, per comunicare senza essere intercettati dalle microspie che avevamo scoperto nel mio ufficio, in commissariato. Cominciai a parlare solo a beneficio dei nostri carcerieri: - Non riesco a capire a chi abbiamo pestato i piedi, per spingerlo a farci questo - .
Contemporaneamente cominciai a testare i suoi ricordi del linguaggio delle mani. All'inizio cominciai adagio: “Se come penso si tratta di Renato Arrigoni, ci troviamo in un capannone vicino all'uscita del Grande Raccordo Anulare, zona Salaria, la struttura era nelle disponibilità della società di cui deteneva il quindici per cento delle azioni; ma, da quel che abbiamo scoperto, lo usava come rimessa per gli automezzi che utilizzava per i collegamenti per i suoi traffici illegali.”
Tirai subito un sospiro di sollievo quando vidi che Sergio, anche se lentamente, mi rispondeva con lo stesso sistema. Cominciò col rispondere a voce alla mia domanda: - Tutti quelli che potrebbero avercela con noi, sono in galera, non potrebbe essere qualcuno su cui hai indagato da privato? -
Poi fece parlare le mani: “Hai scoperto come fanno a controllarci?”
- Nella mia nuova professione mi sono occupato solo di casi ordinari, gente comune, nessun criminale incallito, deve essere un caso a cui abbiamo lavorato insieme prima che uscissi dalla Polizia - continuò.
“C'è una videocamera proprio sopra la mia testa, il cavo elettrico è sicuramente collegato al tirante, da qua io la vedo. Senza fartene accorgere, cerca di individuarla anche tu, è meglio che non capisca che ci stiamo organizzando.” gli comunicai io.
- Credi che ci vogliono fare la festa? - chiese a voce alta.
“Non ho visto luci in giro, se non vengono a prelevarci prima, dobbiamo agire appena farà buio, sperando che la monotonia dello spettacolo faccia calare l'attenzione del nostro voyeur. Oltre al salto di cinque metri, il problema sono questi braccialetti.”
- Non lo so, forse vogliono solo spaventarci - gli risposi per poi comunicargli di nascosto: “Le manette non sono un problema, il modello è quello che usavamo al corso, si aprono facilmente, basta un pezzo di fil di ferro e le lezioni di Giggino o'mericano, amico d'infanzia e scassinatore di professione; fortunatamente sono quelle che si usano per i trasporti detenuti, dovendo essere indossate per molto tempo, hanno qualche anello in più perciò danno qualche possibilità di movimento. Dimmi che cosa hai pensato per cavarci da questo impiccio, lo unirò a quello che ho in mente, sperando che basti per toglierci da questa situazione.”
Per accentuare il suo disagio fece alcuni colpetti di tosse prima di rispondermi: - Ho una sete bestiale quasi non riesco a parlare, le gambe mi fanno un male atroce, tutta colpa della mia paura; non ho mai voluto accomodarmi sul tavolo operatorio per farmi togliere una scheggia di proiettile conficcata nella quinta lombare - .
“Avevi ragione, l'ho individuata, ho visto dove si trova. Se tu riesci ad aprire le manette, le potremmo unire e usare come una corda, per scendere dai trespoli e fare un salto solo di un paio di metri. Se hai in mente qualche altra cosa dimmela presto che una volta fatto buio non potremo più comunicare senza farci sentire” aggiunse.
- Non me ne parlare, oltre alla sete, ho le vertigini e una fame pazzesca, vi stavo aspettando proprio per andare a mangiare qualcosa; inoltre, con questi braccialetti ai piedi e alle mani, a causa della posizione, ho braccia e gambe intorpidite - .
“Avremo poco tempo a disposizione per disattivare le videocamere, questa è la prima cosa da fare, ma credo che con questi anelli sarà facile arrivarci velocemente. Appena le avremo disattivate, non possiamo perdere eccessivo tempo per liberarci delle manette e scendere, avremo al massimo in un paio di minuti. Predisponiti anche tu psicologicamente, dobbiamo essere preparati a ricevere qualche scarica elettrica di cui, purtroppo, non conosciamo l'intensità”.

Antonio Cuccurullo

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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