L'Ultima Frontiera degli Dei
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Cael si asciugò la fronte imperlata di sudore a causa del lungo lavoro nei campi. Era solo un ragazzo di dodici anni, ma il suo corpo già forte e robusto. Al suo fianco, suo padre continuava a zappare senza badare alla fatica. Erano una famiglia povera, il cui lavoro malpagato era l'unica fonte di reddito. Sua madre, donna Miriam, esile ma tenace, instancabile e dura come la pietra, passava tutto il giorno a lavorare senza concedersi tregua. Si divideva tra il lavoro nei campi e quello a casa, dove doveva badare ai suoi quattro figli. La primogenita Eleana, di tredici anni appena, era da poco stata data in sposa a Walter il mugnaio, un uomo vecchio ma dal reddito sicuro. Due braccia in meno erano state una vera perdita per la famiglia della giovane, che però ci aveva guadagnato in pane e cibo. Cael era il secondogenito, il figlio maschio tanto atteso e di cui i suoi erano fieri; poi c'erano i gemelli di sei anni Muriel e Séan. La prima era una bambina dai modi gentili e la testa tra le nuvole: troppo bizzarra per essere figlia di contadini. Era quella che dava i maggiori grattacapi alla famiglia: preferiva vagabondare per i prati in cerca di animali feriti da aiutare o perdersi nei racconti fantastici del vecchio druido Darragh il saggio, che il padre mal sopportava definendolo uno stregone perdigiorno. Il gemello Séan era troppo piccolo per fare i lavori pesanti, ciononostante il padre gli affidava compiti di ogni genere e lui faceva del suo meglio per portarli a termine. Cael adorava il fratellino e, nonostante le loro condizioni lo viziava e accontentava come poteva. - Voglio aiutare anche io! - esclamò il bambino aggrappandosi al maggiore - Sei troppo piccolo per zappare, ma se fai il bravo stasera ti racconterò una bella storia. Va bene? - - No! Io non sono piccolo! Ho sei anni! - Cael rise di quella frase. Aveva una risata cristallina che metteva tutti di buon umore. Tutti tranne il vecchio padre, che mugugnò. - Non possiamo permetterci di perdere tempo in sciocchezze, il sole calerà presto e abbiamo ancora molto da fare! - Il maggiore sorrise al fratellino passandogli una mano tra i capelli corvini e riprendendo a lavorare. Séan era un bambino molto vispo, i cui occhi di ghiaccio contrastavano con il resto del volto. Il sorriso simpatico e le lentiggini poco si combinavano con la freddezza che quegli occhi così strani erano capaci di trasmettere. Aveva preso le stesse pupille vitree di suo padre, ma per sua fortuna anche il sorriso caldo e dolce di donna Miriam. Cael riprese a lavorare cercando di mettercela tutta nonostante il caldo di quella giornata assolata. Poi d'improvviso, uno scalpitio di zoccoli gettò lo sgomento tra i presenti. Tre soldati e un uomo dagli abiti eleganti, si avvicinarono a loro incuranti del raccolto. I cavalli pestarono la terra smossa affondandovi dentro con gli zoccoli. Cael sbalordì quando vide un grosso stallone nero avvicinarsi sicuro, lo sguardo dell'uomo in sella lo colpì. - Allontanati Sèàn... - ordinò al piccolo, che però rimase accanto a lui aggrappandosi alle sue gambe. Il nobile signore si bloccò proprio davanti a loro. Strinse gli occhi come per metterli a fuoco e Cael lo fissò con sfida. - Ragazzo! Dov'è tuo padre? - Il maggiore rimase immobile, sostenendo quello sguardo truce senza mostrare alcun timore. - So...so...sono io signore... - rispose la voce debole dell'uomo. Il padre era un uomo di circa quarant'anni; ma il lavoro nei campi aveva fatto sì che invecchiasse presto. Ecco perché tutti in paese lo chiamavano - Il Vecchio - . I suoi occhi erano solcati da rughe profonde, la pelle era bronzea e il viso smunto. Non aveva un briciolo di spina dorsale e questo lo sapevano tutti. Era sua moglie ad occuparsi di tutto. Il nobile lo guardò severo. - La tua blusa! Buttala a terra, non metterò i miei stivali nel fango. Muoviti! - L'uomo fece come gli era stato ordinato, mentre Cael lo fissò disgustato. Come poteva essere suo padre quell'uomo codardo e debole? Il nobile smontò da cavallo e si avvicinò al ragazzino sovrastandolo completamente. Le manine di Sèan strinsero ancora di più la gamba del fratello, ma quell'uomo imponente lo fissò con disgusto allontanandolo con un calcio. Il piccolo ruzzolò a terra. Cael reagì andando addosso all'uomo che lo bloccò. - Cosa credi di fare, ragazzo! - - Figlio mio, sta' calmo... - lo pregò il padre. L'uomo afferrò la faccia del ragazzo per esaminarla. Cael era un bambino dal viso angelico: il naso sottile e proporzionato, gli occhi di un blu intenso e le labbra scarlatte e carnose. I capelli erano una nuvola bionda. Aveva uno sguardo così forte e fiero da intimidire chiunque, ma Lord Faraway, questo il nome del nobile, era tutto fuorché pavido. Frugò nella tasca estraendo un sacchetto con delle monete che gettò ai piedi del vecchio. - Prendi! Da questo momento tuo figlio non ti appartiene più. È di proprietà del Vescovo Longsdale! - - Cosa...? - disse il ragazzo incredulo. - Ma mio signore...! - bofonchiò il Vecchio. Cael si sentì tirare per le braccia e in un attimo si trovò seduto sulla sella dello stallone. Si voltò. - Padre! Padreeeeeeeeeeeeeee!!! - cercò di ribellarsi, ma fu tutto inutile. Il vecchio afferrò i soldi abbassando la testa. Fu Sèan a corrergli dietro e ad afferrare la gamba del nobiluomo, che gli sferrò un altro calcio. - Sèàn! - - Cael! - urlò a terra tra le lacrime. I cavalli corsero via e ben presto quelle voci sparirono nella nebbia.
***
Da quando i cavalli neri avevano portato via suo fratello, il piccolo Sèan aveva continuato a rimanere in silenzio. Non aveva detto una sola parola né a sua madre né a Muriel, che pazientemente si era presa cura di lui. Lei sapeva quanto il suo gemello fosse legato al maggiore, che emulava in tutto. Non aveva idea di cosa fosse accaduto a Cael, ma era certa che fosse trattenuto con la forza, altrimenti di certo sarebbe tornato a casa. C'era qualcosa di strano nel loro padre ultimamente, uno sguardo truce, quasi folle, ogni volta che li fissava. In cuor suo la piccola Muriel era convinta che il Vecchio volesse guadagnare anche da loro: Eleana era stata venduta per due soli sacchi di farina, Cael era stato venduto ad un prezzo vantaggioso che aveva permesso di saldare alcuni debiti ed era chiaro che presto o tardi a loro sarebbe toccata la stessa sorte. Corse via di casa verso la grande foresta dove Darragh il saggio era solito passeggiare immerso nei suoi pensieri. Era un uomo sacro agli Dei e Muriel lo ammirava moltissimo per il suo immenso sapere. Il destino di una donna era quello di lavorare duro e sposarsi. Lei però era diversa, sentiva di esserlo. Le piaceva imparare cose nuove e conoscere; sognava di viaggiare verso terre lontane, al di là dell'immenso blu che lambiva le coste dell'isola. Avrebbe voluto vivere di avventure e non sposare un vecchio disgustoso, barattando così la sua vita con qualche sacco di grano. Quando vide il vecchio druido gli corse incontro: - Darragh! - - Muriel, figlia mia...Sei scappata di nuovo dai tuoi doveri? - - Ricordi? Mi devi raccontare di Cù Chulainn e della principessa della torre d'oro - - Figlia mia...Tua madre ha bisogno di te. Non dovresti scappare così. Come sta il tuo fratellino? - Muriel si fece subito seria e si sedette accanto al vecchio, portando le gambe al petto: - Non bene - - Nessuna notizia di Cael? - - No... - Il silenzio cadde tra i due per un po'. Poi il vecchio sacerdote osservò la bambina con la coda dell'occhio. Continuava a fissarsi i piedi mentre si mordicchiava nervosamente le labbra. Muriel era diversa da ogni altra: sebbene l'aspetto fosse comune a molte, il suo spirito emanava una grande forza e i suoi pensieri erano troppo acuti per una monella di quell'età. Darragh aveva già letto nel destino di quella bambina, scorgendo un futuro fatto di avventure e grandi sofferenze. Ne osservò il volto pallido. - Cosa ti turba figlia mia? - - Sapevo che sarebbe accaduto, l'avevo visto nei miei sogni... Avevo visto Cael immerso nelle tenebre e una grande mano ghermirlo, l'ho sentito urlare... Perché non ho ascoltato quelle visioni? Perché ho taciuto? - - Pensi che qualcuno avrebbe creduto a quella storia? - - Probabilmente no. Ma non è tutto. C'è qualcosa di cui non ti ho parlato - . L'uomo rimase immobile e in silenzio, concentrando lo sguardo su quella piccola figura accanto a lui, in attesa che continuasse a parlare. - Ho visto Sèan e una croce d'oro sulla sua testa. Ho visto la mia mano brandire una spada e trafiggerlo. Il sangue ha avvolto tutti noi, l'Isola Corvo, gli alberi, i boschi sacri e tutto il cielo. Ogni cosa è stata immersa nel sangue di mio fratello... - sussurrò appena. Muriel iniziò a piangere a dirotto, spaventata da quella funesta visione di morte. Il sacerdote la strinse tra le braccia intonando un canto al suo orecchio, così da allontanare le cupe tenebre che avevano avvolto il suo cuore. - La vista è un dono su cui dovremo lavorare. Non tutto ciò che vedi è reale. Il futuro cambia in base alle nostre azioni, Muriel. Non permettere alla paura di accecarti... - - Lo so, ma se accadesse? Non la voglio più, Dar! Io non voglio più vedere niente! Tu lo chiami dono, ma per me è solo dolore... - - So quanto possa essere dura per te, ma se la Dea Madre ti ha fatto questo dono è perché sa che ne potrai portare il peso. Credimi, puoi farcela figlia mia... - . Poi le mani nodose del vecchio sacerdote afferrarono l'amuleto che portava al collo e lo sfilarono, passandolo alla giovane bambina che lo guardò. Era una semplice pietra con due linee vicine e una centrale che le attraversava. Le seguì con il dito. - Questa è Uruz la forte. Colei che protegge dalle avversità. Trova in lei e in te la forza per superare il dolore, Muriel - - Maestro, ma questa è vostra! - - La dono a te, così che possa esserti di aiuto nelle difficoltà...Tu sei stata prescelta per servire la Dea con la tua vita, piccola, e presto sarà lei a guidare le tue scelte. Ora va a casa, continueremo con la storia domani - . Muriel fissò l'amuleto e poi si gettò sul druido, abbracciandolo e sorridendo per la prima volta dopo molto tempo. Quando la vide andar via, il vecchio druido serrò le labbra. Sapeva che quella sarebbe stata l'ultima volta che la vedeva, poiché anche lui aveva visto il destino di quella bambina. Presto quel dono avrebbe richiesto il suo prezzo e sconvolto le loro vite per sempre.
L'ULTIMA FRONTIERA DEGLI DEI Parte prima
1
Robert fissò la piccola e spaventosa figura dell'abate chiudere la celletta alle sue spalle. Era riuscito a fuggire dai suoi doveri ancora una volta: odiava che gli imponessero cosa fare. Detestava che tutti si prendessero la libertà di comandarlo, ma soprattutto non voleva finire sotto le grinfie del cellario: lo spaventoso fratello Gonnor, un monaco alto come una colonna e dagli occhi scintillanti di follia come uno spettro. Era sempre il primo a confinarlo nella cella di punizione e a frustarlo per molte volte, per - educarlo alle buone maniere - . Lo detestava, come detestava quel luogo che da quando era nato lo nascondeva agli occhi del mondo come un reietto. Ogni tanto guardava dalle piccole finestrelle al di fuori dell'abbazia, ma a parte campi verdi e cieli uggiosi, le strette feritoie non sembravano rivelare molto altro. Il mondo fuori Saint Tomas gli era del tutto oscuro. Attese nascosto che il feroce Abate Ionas se ne andasse e si avvicinò pian piano alla piccola porta di legno massiccio. La finestrella era chiusa a chiave, così tentò di sbirciare attraverso le fenditure del legno, ma non vide che buio. Non sapeva chi o cosa il monaco custodisse con tanta cura, ma non gli era sfuggito lo strano movimento che c'era davanti a quella cella. Robert era molto curioso ed era proprio la sua curiosità a metterlo nei guai, ed era certo che quella volta non avrebbe fatto eccezione. Mise l'orecchio sulla porta e gli parve di udire come un pianto. Non era che un flebile suono, ma era quasi sicuro di aver sentito qualcuno piangere. Poi uno scalpitio di passi lo fece sussultare e si nascose nell'ombra di uno stretto corridoio. Era minuto per natura e non gli fu difficile farlo. Così, da quel nascondiglio, vide la gigantesca figura di fratello Gonnor fermarsi davanti a quella porta portando un vassoio con un tozzo di pane e dell'acqua. Gonnor posò a terra il vassoio, aprì la serratura e scomparve all'interno, in una luce fioca. Robert non si avvicinò di un passo perché temeva quella enorme figura, ma quando lo vide uscire senza cibo ebbe la conferma che qualcuno stava rinchiuso in quella piccola cella buia. Questo mistero accese la sua curiosità nuovamente. Attese che il monaco se ne andasse, poi si avvicinò alla porta e sussurrò. - Chi c'è? - Per un po' sentì solo silenzio. Il pianto che aveva udito appena qualche istante prima pareva essersi fermato di colpo. Il cuore di Robert prese a battere forte per la paura di aver combinato un altro pasticcio. Tuttavia pensò che se se ne fosse andato subito nessuno lo avrebbe riconosciuto e così mosse un passo, ma una flebile voce all'interno della cella misteriosa rispose. - Zero - . Robert rimase sorpreso. Non aveva mai sentito nessuno chiamarsi in quel modo, né era certo esistesse un nome tanto strano. Eppure la voce sottile lo colpì. Non poteva che appartenere ad un bambino, uno piccolo forse come lui. Così ripeté. - Come ti chiami? - - Zero, sono Zero - ripeté la voce. Gli occhi color nocciola di Robert rimasero fermi per un po', poi si decise a dire. - Quanti anni hai? - - Sette - rispose nuovamente la voce del recluso. - Devi aver fatto qualcosa di davvero brutto se sei là dentro - constatò il novizio grattandosi la testa. - Che hai combinato? - - Non lo so, io... - un rumore di passi zittì entrambi e il piccolo Robert si affrettò a salutare il prigioniero scappando via. Corse all'impazzata cercando di non farsi vedere e si rifugiò nello Scriptorium, dove fratello Paolo, il suo maestro, lo fissò truce. - Sei di nuovo andato in giro a combinare guai, Robert? - Il bambino lo fissò sorridendogli. Gli mancavano diversi denti e per un attimo il volto del monaco si rabbonì. Fratello Paolo era il suo più caro amico, l'unico che Robert avesse a Saint Tomas e nel mondo. Non sapeva niente delle sue origini, ma era chiaro che nessun bambino condividesse la sua natura curiosa: erano tutti troppo spaventati da fratello Gonnor e dall'abate per appoggiare le sue marachelle. In fratello Paolo, il piccolo aveva trovato un maestro e una guida; in lui trovava le risposte alle sue molteplici domande ed era l'unico di cui potesse fidarsi. Eppure per qualche motivo, non gli rivelò del prigioniero dal nome misterioso. Non voleva che Paolo ne fosse coinvolto perché era certo che lo avrebbe rimproverato per aver ancora una volta evitato i suoi doveri. Così stette in silenzio, pensando che il giorno seguente sarebbe tornato davanti a quella celletta in attesa di saperne di più. La notte passò senza che riuscisse a prendere sonno. Così attese le prime luci dell'alba, quando i novizi furono condotti alle lodi del mattino. Era la sua occasione: sgattaiolò via insinuandosi negli stretti corridoi dell'abazia. Era un gioco troppo allettante per lui che non riceveva altro che sguardi ostili e freddi. Arrivò di nuovo davanti a quella porta, vi poggiò l'orecchio e sentì di nuovo quei lamenti. - Perché piangi? - chiese attendendo una risposta. - Sei di nuovo tu? - disse di nuovo la voce. - Sì, ma non ho molto tempo, allora perché piangi? - - Chi sei? Un monaco? Uno spirito? Cosa sei tu? - - Mi chiamo Robert, ma non ho tempo e ti ho fatto una domanda! Perché piangi? - - Perché ho paura, e voglio uscire! - Robert si grattò il naso con il dito, come faceva sempre quando qualcosa lo impensieriva. - Vorrei aiutarti, ma non so come fare - - È inutile...La porta è chiusa a chiave, non c'è modo di aprirla - . - Penserò a qualcosa, ma non posso star qui! Ora devo andarmene, se mi vede padre Gonnor sono nei guai - - Il gigante dagli occhi di fuoco? - - Proprio lui. È un monaco spaventoso, hanno tutti paura di lui. Però non temere, cercherò il modo di liberarti - - Non c'è speranza - - C'è sempre speranza! E poi sono certo che riuscirò a trovare il modo per tirarti fuori di qui. Come diceva Platone: - ogni problema ha tre soluzioni: la mia soluzione, la tua soluzione e la soluzione giusta - - - Non credo di capirti - - Non saresti il solo...Tornerò domani, tu cerca di resistere - . Robert fuggì di nuovo, ma proprio allora qualcuno lo afferrò tirandolo su di peso. Gli occhi inquietanti del cellario lo fissarono furiosi. - Ancora tu. Vediamo se questa volta imparerai la lezione! - gli ringhiò e, nonostante il piccolo novizio cercasse di liberarsi da quella presa di acciaio, si sentì trascinare nel buio dei sotterranei e capì di essere nuovamente nei guai. 2
La schiena gli doleva per le frustate ricevute: fratello Gonnor non aveva risparmiato la verga su di lui. Era un crudele spettro dall'animo nero come la notte: di questo Robert era certo. Erano passati due giorni da quando era stato pizzicato da quel malefico monaco e da allora il vitto consisteva di solo pane raffermo ed acqua. Aveva molta fame, così lentamente andò a rifugiarsi nell'unico posto che conoscesse. Paolo lo vide entrare zoppicando e lo prese prima che potesse cadere a terra. - Robert! Che ti è successo? Ero così preoccupato! - Il bambino lo guardò con gli occhi pieni di pianto e stanchezza. Non era un piagnucolone, ma questa volta aveva davvero temuto che quella bestia lo avrebbe ucciso. Tra le braccia del suo maestro sfogò il suo dolore, poi il monaco dagli occhi gentili gli diede del pane e gli passò dell'acqua sulla schiena pulendo le sue ferite. - Fratello Gonnor è stato spietato questa volta... Oh Robert, quante volte ti ho raccomodato di stare lontano dai guai! Sai quanto l'abate tenga alla disciplina e sai che impiegherebbe qualunque mezzo per farla rispettare. Quindi dammi retta figliolo, una buona volta! - - Padre questa volta è diverso. Ho visto un bambino, o meglio ne ho sentito la voce. Un bambino di soli sette anni. Lo tengono nei sotterranei. Sono sicuro che ci sia qualcosa di oscuro sotto questa storia. Dovete aiutarmi a liberarlo - . Padre Paolo lo fissò scuotendo il capo. Era chiaramente preoccupato, ma non pareva stupito di quella notizia o forse semplicemente non credeva alle sue parole. - Vi sto dicendo il vero! C'è un bambino spaventato nei sotterranei! Si chiama Zero, o almeno è quello il nome con cui si è presentato. Perché non volete credermi? Non vi ho mai mentito! Venite a vedere con i vostri occhi, vi condurrò laggiù. C'è un passaggio: è nascosto, molto stretto e buio: nessuno ci noterà. Vi prego, Padre! - Il monaco fissò il suo prediletto: Robert era un bambino sveglio e curioso, dall'animo avventuroso e gli occhi vispi. Era il suo preferito tra tutti poiché sin da piccolo aveva dimostrato una spiccata dote per la conoscenza. Faceva molte domande e conosceva a menadito i filosofi pagani che lui stesso, di nascosto dall'Abate, gli aveva fatto conoscere. Certi scritti erano vietati, ma era stato un vero piacere per Paolo aiutare una mente così acuta come quella di Robert ad imparare. Amava molto quel bambino, dal primo giorno in cui la sua povera madre glielo aveva affidato. Era una donna povera e malata. Era arrivata al convento in un giorno di pioggia e lo aveva implorato di accogliere il suo bambino, così che potesse sopravvivere. Paolo lo aveva preso tra le braccia ancora in fasce nonostante le proteste del vecchio Abate. Lo aveva curato e cresciuto nel segno della conoscenza ed ora Robert era diventato la sua ombra. Ma una mente così acuta si adattava poco agli obblighi e di conseguenza si ficcava spesso nei guai, facendo infuriare i suoi superiori che lo punivano duramente. Tuttavia era vero: il piccolo Robert non gli aveva mai nascosto niente. Così annuì accarezzandogli la testa. - E sia! Aspetteremo la notte per andare; non voglio che fratello Gonnor ti faccia ancora del male. Verrò a chiamarti io stesso. Attendi nella tua cella, figliolo, e se quello che dici è vero faremo il possibile per aiutare quel bambino - . Robert guardò il suo maestro, poi gli sorrise grato. Era certo che presto il piccolo Zero sarebbe stato libero. Le ore passarono lente, scandite dalle preghiere e dal lavoro dei monaci. Quando ormai solo il silenzio regnava nel monastero, tre colpi alla porta fecero sussultare il piccolo novizio. Si avvicinò alla pesante porta di legno e l'aprì cercando di fare il più piano possibile, ma essa cigolò comunque, facendo gelare il sangue del monaco dagli occhi gentili. Per un attimo i due si bloccarono, poi fratello Paolo, con una flebile candela tra le mani, si guardò intorno: nessuno pareva averlo notato. Fece cenno a Robert di seguirlo e i due si inoltrarono nel buio corridoio. Il piccolo novizio indicò al suo maestro la strada nascosta. Erano una serie di piccoli corridoi stretti e lugubri che Paolo non aveva mai notato. Fu davvero difficile per lui, dal fisico magro, ma alto come un giunco, seguire il bambino all'interno di quei bassi cunicoli. L'aria pareva mancare, ma non si lagnò mai di quella strada. Poi, una volta arrivati nei sotterranei, si bloccarono. Paolo fece appena in tempo a spengere la piccola fiammella e a nascondersi nell'ombra quando vide comparire l'imponente cellario. Fratello Gonnor reggeva una torcia e la sua ombra proiettata sul muro era spaventosa quasi quanto lui. L'enorme monaco passò oltre e i due restarono immobili ancora per un po'. Poi, nel buio, il piccolo Robert indicò una porta. Non c'era che la luce della luna, che filtrava da una feritoia, ad illuminare l'oscuro ambiente. Il novizio corse verso la porta e vi poggiò l'orecchio. Nessun suono. Forse Zero stava dormendo. Gli occhi di Robert, ormai abituati all'ombra, guizzarono sulla finestrella notando qualcosa di nuovo. Con le dita andò a tastare lo sportello e lo trovò aperto; vi sbirciò dentro e vide la cella completamente vuota. - Robert, che stai facendo? - domandò preoccupato il monaco. - Zero! È scomparso! Non c'è più! - Fratello Paolo lo fissò un attimo, poi si avvicinò alla porta: la spinse e la trovò aperta. La cella era vuota e i raggi della luna la illuminavano in tutto il suo squallore. - Era qui! Ci ho parlato! Lo giuro! - . Lo sguardo del monaco ruotò nella stanza sino a scorgere dei particolari. C'era qualcosa a terra: un vassoio con del pane morsicato e un bicchiere d'acqua, ma la cosa che più attirò la sua attenzione fu un monile. Lo afferrò con le sue lunghe dita e lo guardò: era un ciondolo di legno intagliato a forma di cervo, legato con un laccio di cuoio. Una vecchia leggenda pagana ordinava che alla nascita di un figlio si intagliasse per lui una piccola testa di cervo, un portafortuna in onore del dio cornuto adorato dai pagani, per proteggere il nascituro dagli spiriti maligni. Mostrò il monile al suo novizio. - Qualcuno c'era di sicuro, figliolo. Dobbiamo solo sperare che non gli sia accaduto nulla di male. Ora andiamocene da qui, prima che qualcuno noti la nostra assenza - - Quindi rinunciamo così? Non facciamo niente? Zero aveva paura, molta paura. Sono certo che gli sia accaduto qualcosa di brutto - - Non esagerare Robert. Deve esserci una spiegazione logica! In fondo... per quanto severo, non posso credere che l'Abate abbia agito per il male... Dobbiamo avere fiducia in lui e in Dio. Ora torniamo nelle nostre celle e domani penseremo a qualcosa - . Il novizio non era per nulla convinto di quelle parole, ma seguì il suo maestro e rientrò nella sua cella poco dopo. Tuttavia il pensiero del piccolo Zero non smise di tormentarlo per tutta la notte. Fu allora che prese una decisione: lo avrebbe cercato ancora e non l'avrebbe lasciato solo. Aveva fatto una promessa e l'avrebbe mantenuta.
Aurora Scano
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