La luna e il lupo tra passato e presente
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In piedi sul ciglio di uno strapiombo una donna fissava incredula il palmo delle sue mani. Sotto di lei il lago di Corbara, graffiato dalla luce della luna, faceva galleggiare, per poi lentamente affondare, una vecchia valigia di pelle scura. Tutto ciò che aveva, era al suo interno: era stato buttato dalle sue stesse mani, ora sporche di terra e di sangue. Prima di scagliare la valigia, si era inginocchiata affacciandosi sul dirupo, le mani affondate nella terra come per sentire di nuovo qualcosa tra le dita. L'aveva poi raccolta e lanciata. Rotolava giù in caduta libera fino a tuffarsi nelle gelide acque della gola del Forello: caratterizzata da diversi tuffetti ad altezza variabile, da lunghi corridoi con acqua verde, in cui le pareti sopra la testa fanno filtrare poca luce, era un luogo perfetto dove lasciare in ombra i misfatti compiuti. Le vasche abbastanza profonde e spesso ingombre di tronchi sommersi nascondevano la valigia. Una calata in riva sinistra con ancoraggio al suolo completamente fuori dell'acqua, permetteva per un attimo la sua ricomparsa. Poi un altro piccolo tuffetto, una catena con una calata di pochi metri, che portava in una piccola pozza, la faceva di nuovo scomparire. Dalla confluenza con il torrente Salcini, una bella pozza d'acqua color smeraldo e poi un tuffetto delicato in acqua poco profonda, la lasciavano riaffiorare. La forra di 90 gradi la nascondeva di nuovo. Poco dopo sulla destra gli ancoraggi di partenza del man corrente, necessari per raggiungere la catena di calata fortemente esposta a sinistra, rappresentavano per la valigia una possibilità di aggrapparsi per restare visibile. Una breve nuotata prima di arrivare alla penultima cascata, di pochi metri! All'uscita del laghetto la valigia rimbalzava sulla roccia a sinistra per un piccolo tuffetto di un paio di metri. Alla sorgente finale, un saltino delicato di tre metri con partenza scivolosa, la portava a un nuovo laghetto. Poi la forra si apriva definitivamente e proseguiva verso la roccia sulla destra. Il corso dell'acqua proseguiva per poche centinaia di metri, fino a incontrare alla fine un altro laghetto, dove la valigia finalmente poteva affondare. Era rimasta carponi Diana, mentre la controllava allontanarsi da lei. Lo sguardo attento e quasi ipnotizzato dal lento scivolare della valigia. Una sensazione di dolore colse le sue mani e come d'un tratto si svegliò. Allora le osservò e si accorse di sanguinare: c'erano dei vetri di bottiglia sbriciolati nella terra, che le avevano procurato quei tagli. Si alzò, mentre il vento le buttava in faccia la terra appena lanciata. Cercò di scrollarsi tutto di dosso, muovendo la testa e il corpo con veemenza. Continuò a guardare quel bagaglio nero che veniva man mano inghiottito dalla forza delle onde. Là dentro si nascondeva ciò che le aveva permesso di diventare una donna libera. Laggiù aveva gettato con violenza la parte peggiore della sua vita. Provava un senso di riscatto ma anche molta paura. Cosa aveva fatto? Cosa l'aveva portata a compiere quel gesto? Avvolta nel buio della notte, illuminata solo dal bagliore di una luna piena che si rifletteva sullo specchio del lago, stava lì in piedi, vestita di quei pochi stracci rimasti. Era pieno autunno, ma ciò che indossava era solo un leggero vestito estivo di cotone misto acrilico in stoffa di fiori, a maniche corte, con un leggero scollo rotondo. Uno scialle di lana grezza, fatto a mano, le copriva le spalle. Era sconvolta Diana. Appariva come non consapevole del gesto che aveva appena compiuto. Di nuovo lo sguardo verso il dirupo, per controllare che le prove del misfatto scomparissero. Si guardò nuovamente le mani ancora sanguinanti. Poi come per caso passò, davanti al suo volto gonfio di lacrime, un grosso fazzoletto di cotone in balia del vento. Lo prese al volo e vi si fasciò le mani, ma il dolore si fece più acuto di prima. Si accorse che alcuni pezzi di vetro erano rimasti attaccati alle sue mani e si erano incastrati nelle ferite. Si spaventò: doveva andare a casa a curarsi. Sì, ma quale casa? Ella non ne aveva più una o per lo meno non poteva tornare là. Se si fosse ripresentata, avrebbero scoperto tutto. L'avrebbero incolpata ed ella aveva appena nascosto le prove della sua scelleratezza. Però non poteva nemmeno rimanere così. Se fosse andata al pronto soccorso, le avrebbero chiesto spiegazioni ed ella non sapeva che scuse inventare. No, doveva tornarci: doveva raccogliere le sue cose e solo dopo avrebbe potuto partire. Dietro di lei scorreva la strada. Si girò e cominciò a camminare sul ciglio. La notte era scesa da poco e, se avesse fatto in fretta, sarebbe riuscita a rientrare a casa e riuscirne senza che qualcuno se ne potesse accorgere. Il passo era sempre più veloce. La casa da cui veniva era lontana. Arrivata entrò furtivamente, guardandosi intorno: per strada non c'era anima viva. Andò in bagno, per curarsi le ferite alle mani: le cosparse d'alcol. Il dolore era lancinante. Aveva voglia di urlare. Poi sciacquò le mani sotto l'acqua gelida, per attenuare il bruciore. Si guardò allo specchio: aveva un aspetto orribile! Corse in camera e raccolse i suoi vestiti in un trolley, nel beauty-case mise shampoo, bagnoschiuma, dentifricio, spazzolino, pettine, spazzola. Pose l'asciugacapelli nella valigia. Tutto ciò che le serviva era pronto. Prese con sé anche la sua borsetta. Dentro gli ultimi soldi rimasti e i documenti. Chiuse dietro di sé la porta di casa: le chiavi infilate nella serratura all'interno. Percorse il vialetto senza voltarsi. Era stanca ormai di stare in quel paesino, in quel piccolo appartamento, in cui viveva in affitto con la sua metà. Essa aveva prevaricato su di lei per anni, la opprimeva. L'unico modo per liberarsene era di mettere a soqquadro la casa, come per fingere una lite o una rapina finita male. Poi gettare i suoi resti in quella vecchia valigia di pelle nera: la sua metà era stata rinchiusa lì dentro, lanciata nel vuoto per diversi metri, fino a sentire il tonfo sonoro di quello splash, che le aveva dato la garanzia: missione compiuta! In quel momento però un dubbio la colse: e se la valigia non fosse affondata nel lago? Doveva andare a controllare! No, non poteva, qualcuno avrebbe potuto vederla. Guardò l'orologio: erano solo le tre del mattino! Caricò nel migliore dei modi tutti i suoi bagagli e partì con lo scooter. Ritornò allo strapiombo. Si affacciò. La valigia non c'era più. Controllò più volte. Un sorriso soddisfatto le colse le labbra. Un enorme respiro di sollievo uscì dai suoi polmoni. Ripartì col cuore in gola. Doveva percorrere 20 chilometri per arrivare a Orvieto. Avrebbe raggiunto la sua amica Sara. Sarebbe rimasta lì ospite da lei per qualche giorno, il tempo necessario per fare calmare le acque e per organizzare la sua sistemazione nella nuova città. Arrivò sotto casa dell'amica, in via Ripa Medici, alle sette del mattino. In realtà era arrivata a Orvieto prima, ma si era più volte persa per la città. Non era mai stata là e, anche se non sembrava, non era poi così piccola. Provò a fare squillare il cellulare di Sara, ma risultò spento. Allora suonò il campanello una volta, ma nessuna risposta. Una seconda volta con un suono più prolungato. Nulla di fatto. Allora si attaccò finché una voce assonnata rispose: - Sì, chi è? - . - Come chi è? Sono Diana! - gridò lei. - Ma che ore sono? - la voce sbadigliò. - Senti, se mi fai salire te lo dico - rispose Diana infreddolita. - D'accordo - e così dicendo aprì il portone e la porta di casa. Sara era alta un metro e cinquanta, i capelli lunghi ricci e rossi, gli occhi verdi. Era avvolta nella sua vestaglia, i capelli arruffati e gli occhi semichiusi, quando Diana se la trovò davanti. - Ti degni di dirmi che ore sono, adesso? - e sbadigliò di nuovo. - Sono le sette del mattino di giovedì 14 ottobre. Posso entrare ora? - . - No, te ne vai fuori! Dai che scherzo. Vieni! - il sorriso comparve finalmente sul viso ancora addormentato di Sara. Diana si accomodò e portò la sua valigia nel ...
Marinella Mariani
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