Il sole dietro la collina
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Adriana diede un'occhiata alla cartina: mancavano ancora duecento chilometri.
L'aveva trattenuta per più di tre ore e adesso non ce la faceva più. La vescica era gonfia come un pallone e avvertiva dolorose fitte. L'autista si sarebbe arrabbiato. Durante la sosta nell'area di servizio di Contursi si era raccomandato di approfittarne, perché dopo non si sarebbe più fermato.
Adriana si fece coraggio e avanzò lungo il corridoio barcollando come se camminasse sul ponte di una nave con mare in burrasca.
Jacob guidava da cani, con improvvise accelerazioni e brusche frenate.
L'autista imprecò. Accostò e aprì la portiera.
Soffiava un gelido vento di tramontana.
Adriana si allontanò una decina di metri, scavalcò il guard-rail, calò i pantaloni fino al ginocchio, rabbrividì, si accucciò ai piedi di un albero e finalmente si liberò.
Nel pullman c'era un piacevole tepore. Raggiunse il suo posto e tentò di dormire un po'.
Lasciata la statale Appia proseguirono lungo una strada sterrata piena di buche.
I continui sobbalzi avevano finito per svegliarla.
Il pullman si fermò in una radura ai margini del bosco. Adriana e le altre, stanche e assonnate, scesero alla spicciolata. L'autista, un uomo sulla quarantina, alto e magro, con sottili baffetti, diede un sorso alla fiaschetta e si accese una sigaretta.
- Mişcativă cu bagagjele!1 - disse.
Prese il telefonino, compose il numero e attese.
- Pronto?! Sì, siamo dove detto tu. Quando venire? Aspettare. Okay, aspettare, capito - .
Schiacciò con la punta della scarpa la cicca e iniziò a tossire.
L'aria era fredda e dal cielo cadevano volteggiando radi fiocchi di neve. Sulla collina di fronte si vedevano le luci di un grumo di case spalmate sul versante della montagna.
Adriana aprì il borsone e scartò uno dei panini che la mamma le aveva preparato due giorni prima. Il pane era secco e il salame aveva un colore bluastro. Lo divorò.
Dieci minuti dopo arrivò un Ford Transit bianco. Scese un uomo con la testa calva insaccata nel bavero del giaccone.
- Ciao Jacob, come stai? - .
- Bene, Michele. E tu? - .
- Non mi posso lamentare. Com'è andato il viaggio? - .
- Tutto okay. Niente polizia, niente controlli... tutto okay - .
- Tieni. Contali - .
- Mi fido - .
- Quando il prossimo viaggio? Ho un sacco di richieste... - .
- Repede 2. Dieci, quindici giorni. Trovare altre donne e partire subito - .
- A presto, allora - .
- Ciao - .
Gheorghita le fece segno di sedersi accanto. Era sulla cinquantina, corpulenta e goffa nei movimenti, con un faccione tondo e due occhi piccoli e grigi. Lavorava in Italia da tre anni. Abitava in un villaggio vicino. Suo cugino Stefan l'aveva pregata di trovarle un lavoro. Le disse di non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene.
Adriana abbozzò un sorriso. Con il dito disegnò un oblò sul vetro appannato e restò a fissare il buio.
Strette come sardine, dopo un viaggio che le sembrò lunghissimo, giunsero a una masseria.
Michele suonò ripetutamente il clacson.
Dalla porta laterale della vecchia costruzione in pietra e mattoni uscì un uomo smilzo con il viso rovinato dall'acne. Si diresse verso un capannone e aprì la porta scorrevole.
- Venite, che si gela - disse a Gheorghita.
Adriana passò accanto all'uomo che le lanciò uno sguardo carico di desiderio.
- Ciao, Gheorghita - .
- Ciao, Pasquale - .
- Ora abbiamo anche il bagno - disse ironico. - È in quella baracca di legno laggiù - .
- Con tutti i soldi che ci guadagni, è il minimo - .
- Una percentuale onesta. Ricordati che lavorate grazie a noi - .
Nel capannone erano allineate delle brande. Su un tavolo di assi di legno c'erano alcuni cartoni con tranci di pizze, panini, bibite e un po' di frutta.
Dalle bocche uscivano nuvole di vapore.
- Visto che bella accoglienza? - disse l'uomo. Aveva gli occhi lucidi e un ghigno beffardo. - Avrete tutte un lavoro. Comportatevi bene. Non voglio rogne. Domani sveglia alle sette. Buonanotte e sogni d'oro - .
Gheorghita tradusse.
Molte, sfinite dal lungo viaggio, si addormentarono subito. Qualcuna russava.
Il guanciale era giallo di sporco. Avrebbe dormito senza cuscino. Tirò la ruvida coperta fino a coprire la testa. Nonostante fosse stanca non riusciva a prendere sonno. Pensava alla famiglia, a suo padre malato, ai sacrifici fatti per raccogliere i soldi per il viaggio. Li immaginò seduti davanti al camino nella piccola casa di campagna immersa nel verde con i monti dalle cime imbiancati di neve che toccavano l'orizzonte.
Si rannicchiò sulla branda. La fatica e la tensione ebbero il sopravvento e sprofondò in un sonno inquieto e intermittente.
Un pallido sole entrava dai finestroni del capannone. L'aria era gelida.
- Sveglia! - gridò Pasquale. - Dopo la colazione si parte - .
Adriana uscì fuori. Vicino al capannone c'era un recinto con un centinaio di pecore e una tettoia di eternit sotto la quale erano accatastati grandi cilindri di paglia.
Il bagno era una lurida latrina con il cesso alla turca. L'odore era nauseabondo. Si lavò la faccia e uscì.
Pasquale fece segno a Gheorghita di seguirlo.
- Siediti - le disse. - Vuoi un caffè? - .
- Sì, grazie - .
Riempì le tazze.
- Quella ragazza bionda... quella alta. Dille che se vuole può lavorare per me. Le do settecento euro, molti di più di quelli che guadagnerebbe facendo la badante o qualsiasi altro lavoro - .
- Lasciala stare. È una mia parente - rispose Gheorghita, mentendo. Lo aveva già fatto con altre ragazze. Sceglieva le più carine, le blandiva con soldi e regali, e dopo che se l'era portate a letto le costringeva a prostituirsi.
- Come non detto - .
Adriana, seduta su una panca, fissava l'orizzonte.
Gheorghita la raggiunse. - Lavorerai presso una vecchia signora. È malata e ha bisogno di assistenza. Riceverai cinquecento euro al mese, più vitto e alloggio. Se hai bisogno di me chiamami in qualunque momento. Questo è il mio numero - .
Adriana l'abbracciò commossa.
Gheorghita prese dei soldi e glieli porse. Adriana non voleva accettarli.
- Prendili, possono servirti - .
- Grazie - .
Il piccolo paese era circondato da alte montagne ricoperte di boschi di cerri. Le strade erano strette e le case addossate le una alle altre.
La signora Mariangela Blasi abitava in un antico palazzo seicentesco nel centro storico, un dedalo di strette viuzze di impronta araba, nei pressi della cattedrale romanica.
Adriana suonò al citofono.
- Chi è? - .
- Adriana, la ragazza rumena - .
- Ti stavamo aspettando, sali - .
Il portone si aprì. Sulla volta dell'atrio era dipinto lo stemma gentilizio su cui capeggiava un leone d'oro attraversato da una fascia azzurra ornata di tre conchiglie e sormontato da una corona marchesale. Attraversò il cortile interno con al centro una cisterna col parapetto ottagonale e giunse ai piedi della scala in pietra che conduceva, biforcandosi, al piano superiore.
In cima l'attendeva la governante, una donna magra con i capelli grigi tagliati a caschetto.
- Accomodati, prego. Io mi chiamo Antonietta - le disse porgendole la mano. - Parli italiano? - .
- Poco. Se lei parla piano, io capisco - .
- Allora parlerò piano. Andiamo a conoscere la signora Mariangela - .
Bussò alla porta, attese un attimo e girò la maniglia.
- Signora, è arrivata la ragazza rumena - disse restando sull'uscio.
- Falla entrare - .
La stanza, con la volta a crociera dalla quale pendeva un enorme lampadario di Murano, era ampia e illuminata. C'era odore di lavanda. La signora Blasi, sostenuta da due guanciali, leggeva un libro.
- Come ti chiami? - le chiese fissandola.
- Adriana, signora - .
- Antonietta, le hai spiegato quali sono i suoi compiti? - .
- Sì, signora - .
- Bene, potete andare - e riprese a leggere.
- Buonanotte, signora. Vieni, ti mostro la casa, così potrai muoverti con più facilità - .
Tommaso Carbone
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