Sono e non sei - 14 marzo 2018.
Esisteranno donne che non devono combattere per i loro spazi? Un luogo dove sia possibile essere donna, persona e non solo femmina? In quale posto credi sia avverabile essere piacenti, intelligenti, capaci e dinamiche? Non è qui, ne sono certa, non è con te in questa immensità ristretta che mi lasci. Ripenso ancora, sai, a quelle parole taglienti e dolorose “La porta è quella, se sei insoddisfatta, non devi fare altro che aprirla e uscire”. So che non lo vuoi, sono certa siano saette scagliate per rabbia. L'ira che ti assale ogni qualvolta ti mostro i tuoi limiti, i tuoi errori e anche i miei. Non accetti che ti sia consegnato il vassoio d'argento con la testa mozzata di questi anni di disordine, un doloroso e nauseante conato di rinfacci e acido che logora il mio stomaco. Una volta ci volavano le farfalle, sai? Mi bastava incontrare il tuo sguardo per far esplodere un vulcano, lava calda che si disperdeva tra il sangue e alimentava aria cocente che sosteneva pensieri a te rivolti, come palloncini che raggiungono le nuvole. Correva leggera l'ala che mi riportava i tuoi sorrisi, placido scorreva il fiume delle esperienze, fugace giocava la fantasia e la passione era consumata senza remore o freni. Oggi che ci resta? Musi duri d'indifferenza, sterili discorsi durante il telegiornale, gelida tramontana che soffia sul nostro triste letto. Come siamo arrivati a questo? Quale infame Cupido ha sbagliato freccia? Si è forse preso gioco di noi? Dove e quando hanno cominciato a incrinarsi gli argini, i confini tra il nostro amore e il disprezzo delle persone che siamo, o siamo stati? Credo quel giorno allo zoo – probabile che non lo ricordi... stavamo accarezzando gli asini e ti dissi “Che ne pensi se io ricominciassi a disegnare?”. La mia grande passione, disegnare e immaginare arredamenti per le case di altre famiglie, sapere che godranno la loro intimità, si stenderanno comode su divani, pranzeranno e cucineranno su spazi che io ho costruito per loro con amore e riflessione. “Sono gli asini a ispirarti?”, una risata e un gelato giusto per vivere intensamente ogni istante. “In realtà è un po' che ci penso, avrei voglia di prendermi degli spazi tutti miei”. Tu ti sei fermato e hai indossato una maschera di rigidità e freddezza. Che cosa è successo? Ti ho tolto forse qualcosa? Dove sono inciampata? Non ti ho messo dietro ad alcun impegno. “Cosa ti manca?”. La tua domanda è arrivata come la pergamena del piccione viaggiatore, abbandonata in qualche angolo attendendo risposta. E io non la sapevo dare.
Per fortuna i pavoni hanno mostrato la loro coda e nei colori abbiamo lasciato quel discorso. È stata una fortuna? Non saprei, poiché oggi, dopo quattro anni, la stessa domanda mi tormenta: cosa mi manca? Qualcosa di certo, ma cosa non saprei dirlo. Vedevo in te un uomo buono, fiero e intelligente, disponibile e caro, leale e altruista... Nonostante tutto questo, però, non manchi di detestare la mia autonomia, non tolleri che qualcuno mi consideri importante, i miei impegni non ti vedono re accomodato al trono delle mie giornate, il rosso della rabbia è come il mantello del torero.
Questo che significa? Che non mi ritenevi in grado? Che preferivi una moglie mediocremente agghindata alla tua spalla? Nulla ti ho fatto mancare e tu hai cominciato ad arare il campo della mia felicità, lasciando solchi senza semi. Cadeva pioggia negli avvallamenti, s'inzuppava il terreno e diveniva fango, neppure argilla per plasmare nuove forme, ma putrido impasto senza collante. Siamo rimasti imbrattati in attesa... avevamo un ruscello alle spalle, sarebbe bastato fare un passo indietro e gettarci nella fresca acqua per ripulirci. Invece no, entrambi, certo, abbiamo proseguito la marcia, come soldatini di piombo ingessati di rabbia e sconforto, con occhi coperti abbiamo cercato una via, ma ci siamo addentrati in un tunnel, dove non esistono bivi o svolte, dove è impossibile incontrarci. Poi è arrivata quella luce, un faro, un abbagliante lume che ci ha aperto un varco... quanto ero felice, non esisteva altro pensiero che non fosse parte del cordone che ci univa a nostro figlio. Non esistevano spazi vuoti, la sola pioggia aveva generato fiori dalle zolle, i prati verdeggianti e ariosi stavano al posto dei cunicoli, polvere di fata copriva la pelle, dove prima rinsecchiva il fango, profumo di zucchero e fragole il nostro cibo. “Sarà femmina e meravigliosa”, “un maschio”, sorridevi tu “forte e grande”. Non fu nulla più di un crampo al basso ventre e settimane di dolore e attese, “Attendere, forse il battito... ora non si sente, forse abbiamo sbagliato il calcolo, forse... forse...”. Sapevo, nessun forse. Anche nostro figlio aveva preso un tunnel, una direzione lontana anni luce dalla nostra e con lui certo era impossibile incontrarsi. Aveva lasciato una traccia sulla sabbia, delicata impronta dove potevamo cullarci, uniti, insieme, ancora noi.
Funzionò, per un certo periodo, proiezioni di ciò che volevamo essere si aggiravano per questa casa, agghindata a festa, fiocchi rosa e azzurri nella mia scatola del ricamo, grandi fogli dove inserivamo nomi di piccoli angeli, per poter poi scegliere quello che brillava tra tutti, scarpine camminavano solitarie accostandosi a questo o a quel bavaglino. Perché non abbiamo cancellato le tracce del sogno? Non sarebbe stato un giusto ritorno alla realtà? Dimentichi dell'esperienza, avremmo potuto presto cercarne una nuova, insieme. Invece ci siamo lasciati cullare, per troppo tempo, da un fantasma. Dolorose catene, pesanti macigni, sciabole infuocate che di notte venivano a turbare il sonno; di giorno poi, il giorno... non v'era scampo. I simboli, i ricordi, tutto stava lì. a che non sei intervenuto tu, uomo grande e forte come il figlio che desideravi, tu a far rogo di tutto. Non ti sei accorto che bruciavano anche le mie carni nel falò? E le tue speranze? Finirono. Cessarono. Morirono. Poi la rabbia, si gonfiava come la spuma nel mare durante la burrasca, alimentata dall'incapacità di affrontare i problemi. Sotto i miei piedi sentivo sabbia fredda, correvo nella spiaggia deserta dei miei sogni, la pioggia non cessava, il rancore e lo sconforto si cibavano delle colpe che ci scagliavamo. Il tutto per l'insoddisfazione, per uno, mille, centomila dialoghi mancati... Tu credevi e io pensavo, nessuno dei due si esprimeva e le carcasse dei nostri spettri creavano una catasta di obbiettivi mai raggiunti, di battaglie non affrontate, di desideri repressi. Abbiamo smesso di fare l'amore. Abbiamo smesso di desiderarci. Forse anche di amarci e siamo divenuti due. Coinquilini che, di soppiatto, facevano progetti di fuga, lasciando le mappe sparse in ogni stanza con la speranza che l'altro le trovasse e pretendesse spiegazioni. Non avvenne mai. Io ti tradii. Con la mente capitò tante volte da perderne il conto. Il giorno che regalai il mio corpo a un altro, quel giorno seppi con assoluta certezza che ero un'altra persona. Non so perché decisi di non dirtelo, volevo mettere fine alla nostra relazione e quello sarebbe stato il modo più facile. “Ho trovato in un altro uomo quello che tu mi neghi!” ma la verità non era quella, né allora né oggi che ho sfogato le mie necessità con un secondo e un terzo...
Allora è chiaro che manca qualcosa a me e che io sono sbagliata. Se nessun abbraccio mi conforta, se il tuo non lo desidero, ormai atrofizzato, e se nessun calore è sufficiente a scaldare i miei desideri, allora è palese, sono io ad avere qualcosa che non va. Cosa? O forse la realtà è più semplice. Non sono la donna che credevo, non sono la persona che volevo essere, sono tutto quello ho detestato sin da ragazzina: un'insoddisfatta cronica, con la necessità di un uomo accanto per sentirmi completa e amata, lussuriosa e superficiale! Una donna che non bisogna amare. E quando è arrivata quest'intrusa? Perché si è affacciata alla finestra di casa occupando un posto al tavolo della mia vita? No, no, no, mi assilli! Non è così, non sono un mostro da gettare dal grattacielo. Ho riempito dei vuoti e questa è una colpa, a quanto pare, impossibile da perdonare. Ogni vuoto ha atteso, ha lasciato stendere la polvere, leggera e impalpabile, sino a rendere ogni oggetto simile ai tetti della città fantasma dopo l'ultima neve d'inverno. Fu quello il momento. Un treno correva sferragliante sui binari, senza blocchi né controllo ha cominciato una discesa infinita, ho abbandonato i comandi per lasciarmi trasportare, di certo sono quella che ha pagato il biglietto più caro. La mia siccità d'avventura e la carestia di possesso sono divenute insaziabili. Non bastava un uomo, ma diversi in pochi giorni. Prendevo la tua auto e percorrevo strade ignote sino a quel momento, poi la necessità di allontanarmi sempre più mi ha spinto all'aeroporto, mille chilometri in un giorno per incontrare quegli espedienti di cui oggi neppure ricordo i nomi e i volti. L'esigenza primaria era servirsi di tutti i mezzi possibili per dimostrare il mio comando, il dominio, le istruzioni che ero in grado di dettare. Leggi da eseguire inesorabilmente. Necessità primordiale di sentirmi appagata. La sete aumentava a ogni sorso di godimento, la carne bramava sempre più a ogni graffio; a un certo punto mi feci pena. E più mi piangevo e più esigevo la mia droga. Non ti sei mai accorto di nulla...
Sheyla Bobba
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