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Autore: Giannicola Nicoletti
Incubo Reale
Thriller Horror Splatter
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Incubo Reale
Capitolo I - Il viaggio comincia.

- Dai, Kevin! È ora di alzarsi! -
Così fui svegliato da quella peste del mio cuginetto Jack che sbattendo la porta mi aveva spaventato.
- Eccomi - risposi, mentre andavo in bagno.
Zia Hellen e Heidi erano già in cucina a fare colazione. Il piccolo Jack invece era in giardino a farsi rincorrere da Dug, un cane lupo di tre anni cresciuto insieme con lui. Erano inseparabili. Il loro rapporto era bellissimo. Lo psicologo aveva consigliato a zia Hellen di prendergli un cane più docile, ma Jack era stato irremovibile e la scelta era sembrata subito felice.
Il mio cuginetto aveva dei problemi psicologici già dalla sua giovane età: non so precisamente cosa, poiché a zia Hellen non piaceva tanto parlarne.
Del resto, ho sempre avuto qualche remora nel metterla a disagio con domande inopportune, anche perché era abbastanza chiaro che doveva trattarsi di qualcosa che aveva a che fare con l'autismo. Ho capito, però, che la compagnia di quell'animale doveva essere innanzitutto parte di una terapia, ma anche il risultato dell'ennesimo capriccio di Jack al quale come sempre, mia zia non era stata capace di opporsi.
Solo in poche occasioni, infatti, riusciva a essere dura con suo figlio: in particolare, quando si divertiva ad aizzare Dug contro gli altri cani o gatti di passaggio nelle vicinanze.
E lo aveva spiegato tante volte: se lasciato libero e abituato a quel comportamento, Dug sarebbe potuto diventare pericoloso anche per le persone e per la stessa famiglia. Soprattutto perché nonostante l'addestramento qualificato, il lupo che era in lui veniva fuori assai spesso.
Era quasi tutto pronto. Caricati gli ultimi bagagli nella roulotte, saremmo immediatamente partiti.
Eravamo diretti a sud per passare alcuni giorni di vacanza in uno di quei posti magnifici di montagna, che zio Billy aveva sempre amato e per cui aveva comprato la roulotte: secondo lui, che trovava scomodi hotel e bed&breakfast poiché li vedeva e li considerava come case altrui, saremmo stati più tranquilli e avremmo avuto tutto a nostra completa disposizione.
Io, per parte mia, avevo subito scoperto un'altra considerevole comodità nella circostanza di non fare soste per andare in bagno. Pur allontanandoci di tanto, insomma, sembrava di essere sempre nella nostra casa.
- Heidi, muoviti e chiudi casa! - gridò la zia.
Come al solito, mia cugina trascorreva ore in bagno con il suo make-up ed era sempre l'ultima a uscire. Proprio quella mattina, pensando di doversi mettere delle scarpe aperte, aveva creduto opportuno rifarsi lo smalto delle unghie dei piedi.
La sua naturale bellezza, in realtà, non avrebbe avuto bisogno di nessun ornamento per essere esaltata, ma lei s'intestardiva a usare cosmetici marcati e a indossare bracciali, collanine e altri accessori, volendo abbigliarsi come la diva che credeva un giorno di diventare.
Dopo diversi minuti che a me parvero ore, uscì. Chiuse la porta e, correndo a passi stretti, entrò in macchina. Continuavo a guardarla e un sorriso spontaneo, dettato dalla considerazione della sua ingenuità, prendeva vita sulle mie labbra.
- Hai la roulotte tutta per te - mi disse.
- Grazie! - le risposi.
Poi, rivolto a mia zia le gridai di avvisarmi quando le avrei dovuto dare il cambio nella guida.
Lei mi rispose quasi contemporaneamente, con il pollice in su.
Finalmente partimmo. In macchina, insieme a zia Hellen che guidava, c'erano Jack e Heidi. Io ero insieme a Dug, nella roulotte.
Diedi un'occhiata in giro e tutto mi sembrò in ordine, i letti già pronti, il frigo e la dispensa pieni di cibi e bevande di ogni tipo, in particolare stuzzichini e merende per il piccolo Jack. Non mi restava che preparare qualcosa da mangiare durante la sosta che avremmo fatto di lì a un paio d'ore.
Sapevo che non rientrava nelle norme di sicurezza stare ai fornelli mentre l'auto era in movimento, ma in qualche modo volevo anch'io rendermi utile e cominciai a scaldare un po' d'olio in una padella. Dug era tranquillo accanto a me, sdraiato e con la testa appoggiata tra le sue grandi zampe anteriori.
Fissava continuamente il portellone d'ingresso, come se stesse aspettando che qualcuno l'aprisse da un momento all'altro. Non amava particolarmente viaggiare. Sembrava soffrirne fisicamente.
Lo chiamai.
Ansimò due volte muovendosi un poco. Per un istante, mi guardò con lo sguardo triste di chi sta per piangere. Lo compatii come se fosse una persona. Ogni volta che l'osservavo con attenzione la sua maestosità mi stupiva sempre. Accarezzai il suo bel pelo soffice color grigio scuro e la punta delle zampe bianche.
Scosse appena la sua grande testa e mosse la coda lunga e vaporosa di lupo. Sorrisi e tornai a frugare nella dispensa.
Dopo circa mezz'ora una brusca frenata dell'auto mi fece barcollare. Riuscii a mantenermi, cadendo sulle ginocchia. Mi rialzai velocemente con l'aiuto di una mano. C'eravamo fermati.
Dug si scosse e iniziò a emettere latrati molto alti. Rimettendomi in piedi, guardai la padella oscillare contro il pavimento su una macchia di olio ancora fumante.
L'olio bollente era finito su Dug, che ancora non smetteva di lamentarsi. Speravo solo che non fosse successo nulla di grave e che il latrato così acuto fosse dovuto solo allo spavento.
Mi diressi in fretta verso di lui nello stesso istante in cui Heidi apriva la porta.
- State bene? - domandò.
- Io sì, ma Dug ha bisogno immediatamente di un veterinario. -
L'olio bollente gli era finito in un occhio.
- Avverti tua madre di cercare subito aiuto per Dug e fai venire qui Jack! Presto! - gridai ancora.
Tolse dalla bocca le mani con le quali aveva soffocato un urlo e corse fuori della roulotte. Nel frattempo, afferrai un bicchiere di acqua e un asciugamano. Jack arrivò e, alla vista del suo cane in quelle condizioni, scoppiò in un pianto nervoso.
Lo invitai a sedersi a terra e appoggiai la testa di Dug sulle sue gambe, avendo cura di sistemargli sotto l'asciugamano umido, iniziando a versare un po' d'acqua sull'occhio ferito. Era grave.
Dug soffriva vistosamente e notai che l'occhio aveva un colore diverso, più pallido, sembrava fosse sbiancato. Speravo solo che non l'avesse perso.

Capitolo II - L'ospedale per animali

Dopo aver ripreso a muoverci in cerca d'aiuto, sentii che stavamo rallentando. Quando ci fermammo, scesi dalla roulotte e raggiunsi mia zia sull'auto. Eravamo in un'area di servizio.
- Cosa è successo? - domandò la zia, allarmata dal trambusto udito nella roulotte.
- Dug - risposi, - è ferito a un occhio, ustionato dall'olio bollente, ma tu perché hai frenato in quel modo? -
- Un cervo mi ha tagliato la strada all'improvviso -
Nell'area di servizio non c'era nessuno tranne una camionetta ferma un centinaio di metri più avanti. Domandai a zia Hellen di raggiungerla. Ci avvicinammo a un uomo, forse un cacciatore.
A tracollo portava quello che credetti un fucile custodito nel suo fodero. Gli feci sapere, cercando di controllare il fiatone del mio respiro ansioso, che avevamo bisogno di aiuto.
- Il nostro cane è ferito - spiegai. - Cerchiamo un veterinario. -
Il cacciatore appoggiò una mano sull'auto e, dopo aver osservato le donne per qualche istante, ci indicò come raggiungere un ospedale veterinario:
- Beh, siete fortunati! A meno di dieci miglia da qui c'è un ospedale per animali, è lì che molti ci portano le bestie che investono su questa strada. È dentro nel bosco, non ci sono indicazioni ma se prendete questa strada sterrata e la seguite ci arriverete facilmente. -
L'uomo aveva un'aria molto seria e nella bocca un mezzo sigaro spento che, tuttavia, puzzava terribilmente. Apparentemente ubriaco, mentre parlava sputava gocce di saliva gialla che finivano a volte sul finestrino dell'auto, a volte sul mio viso.
Dopo aver ringraziato e salutato, me ne tornai indietro pulendomi il viso.
- Grazie mille signore! Arrivederci - gli dissi, ripulendomi con un fazzoletto.
- Coglioni! - esclamò.
- Come dice, scusi? - domandai sorpreso.
- Sì, hai capito bene! Non sono altro che dei coglioni! - ribadì.
- Mi scusi, ma... -
- Mi riferisco a chi investe gli animali per strada e si preoccupa di portarli in quel fottuto ospedale! -
Fece una pausa sputando per terra, questa volta volutamente e poi riprese:
- Sapete quanto è faticoso cacciare un cervo? E questi che fanno? Li portano in ospedale invece di mangiarli. Coglioni! -
- Ok, ci dispiace ma adesso dobbiamo andare - risposi, rivolgendo lo sguardo verso zia Hellen.
Un essere spregevole. Lo ringraziai ancora una volta e ripartimmo verso l'ospedale.
Dopo aver visto e sentito quell'uomo, zia Hellen sembrò sconvolta e, almeno all'apparenza, un po' spaventata.
Continuava a tenere d'occhio lo specchietto retrovisore posto alla sua sinistra e poco dopo mi chiese se volessi guidare. Io assecondai la sua richiesta.
Valutai la possibilità del fidarci o meno di quell'uomo, ma ci trovavamo in un momento di emergenza, per questo, mi astenni dal parlarne con zia Hellen e decisi si rischiare.

Preso il posto di guida, mi accorsi che mia cugina era sdraiata sui sedili posteriori con le cuffie nelle orecchie e sembrava non dare molto peso a quello che stava accadendo.
Un po' innervosito da quell'atteggiamento, fermai di nuovo l'auto e le ordinai di andare a controllare come stessero Dug e suo fratello e di restare insieme a loro fino a quando non fossimo giunti a destinazione.
Imboccai la strada sterrata indicataci e dopo qualche minuto arrivammo a destinazione.
L'ingresso sembrava molto accogliente e i giardini ben curati. Superammo il cancello che era già aperto ed entrammo nel cortile.
Era enorme, c'era un distributore di benzina sulla sinistra e l'ambulatorio sulla destra affiancato da un minimarket. Era chiuso in quel momento. Sopra di esso, al primo piano, le finestre di un'abitazione. Di fronte, invece, c'era un secondo cancello che delimitava l'ingresso a un'altra area che sembrava fosse inaccessibile.
Fermai l'auto e corsi a prendere Dug. Zia Hellen, invece, si affacciò nell'ambulatorio. Ne uscì un uomo robusto con un camice bianco. Capimmo subito che si trattava di un dottore.
Correva spingendo un lettino con le ruote. Mi domandò quale fosse il problema e m'invitò ad appoggiare il cane sul lenzuolo e a entrare nell'ambulatorio. Eravamo soli.
Il dottore portò il nostro amico a quattro zampe in una stanza, invitandoci ad attenderlo lì e chiuse la porta dietro di sé.
Jack, intanto, non aveva ancora smesso di piangere. Cercai di rassicurarlo, ma senza successo. Fui quindi costretto a portarlo a fare un giro in cortile. Zia Hellen e Heidi rimasero sedute, aspettando notizie dal dottore.
Jack e io, intanto, giungemmo all'ingresso del minimarket. Lo presi in braccio e cercai di distrarlo, facendogli notare i vari snack in bell'ordine sugli scaffali e i colori delle bevande energetiche che spiccavano in prima fila.
Dopo una breve passeggiata, qualche minuto in tutto, il piccolo si fu calmato e decidemmo di tornare indietro.
Il dottore venne fuori dopo quasi un'ora e ci annunciò che aveva dovuto asportare l'occhio, poiché rischiava di infettarsi, ma che sarebbero potuti ripartire subito dopo il suo risveglio.
A quelle parole Jack scoppiò di nuovo a piangere, ma il dottore si avvicinò, si abbassò verso di lui e gli sussurrò:
- Hey, perché piangi così tanto? Il tuo cane non sta più soffrendo. Adesso dorme. -
Si alzò e sorrise.
- Qui ogni giorno arrivano tanti animali feriti che io devo curare: cervi, alci, uccelli e molti altri animali selvatici. Vuoi vedere la nostra stalla? - aggiunse.
Jack annuì e si asciugò le lacrime con le mani.
Il dottore ci indicò dov'era la stalla, ma, in disparte per non farsi sentire dal bambino, ci disse che, poiché era stato sottoposto a un intervento importante, ci sarebbero potute volere diverse ore prima che Dug si risvegliasse e ci invitò a prendere in considerazione la possibilità di lasciarlo lì per riprenderlo al nostro ritorno.
Zia Hellen si oppose, dicendo che Dug sarebbe venuto con noi in vacanza. Era pur sempre un membro della famiglia e d'altra parte il viaggio stesso rischiava di diventare infelice a causa del tormento che Jack le avrebbe dato per l'assenza del suo cane.
Mentre le donne tornavano alla roulotte, nella speranza di tirargli un po' di morale, io accompagnai Jack alla stalla.
Capitolo III - La breve riflessione di Heidi

- Mamma, dove vai? - le domandai.
- Vado a chiedere al dottore come fare rifornimento all'auto. Tu nel frattempo inizia a preparare qualcosa. Siamo oltre le due. È necessario che, al suo ritorno, tuo fratello mangi qualcosa. -
Io annuii.
Restai a guardarla mentre si allontanava.
Mia madre aveva quarantatré anni ed era una donna molto dinamica, attenta nella cura della casa e premurosa nei confronti dei suoi cari, cioè noi, Jack e io, gli unici che le erano rimasti, dopo la perdita di suo marito Billy, il nostro amato papà.
I segni della sua età però non erano evidenti se non nel suo carattere, più remissivo di qualche anno fa, soprattutto nei confronti di Jack e dei suoi capricci e sul sedere, ora diventato più ampio e cadente.
L'osservavo spesso nei suoi movimenti e, devo essere sincera, mi divertiva molto quel suo ancheggiare un po' sgangherato.
Jack, il mio fratellino. Credo che a volte sia ingiusto nei suoi confronti e che, spesso anche a causa della sua condizione, metta a dura prova i suoi nervi. Comprensibilmente quindi, da quando è morto papà di cui è stata innamoratissima, non si prende cura di altri che di lui, rinunciando anche a sé stessa e all'eventuale relazione con altri uomini, anche di uomini importanti che avrebbero potuto elevare il nostro tenore di vita.
E ce ne sono stati diversi. D'altra parte, non si è mai più concessa neppure un'uscita con le sue amiche per fare shopping o per regalarsi una cena, come le capitava spesso, anche negli anni del suo matrimonio. La mia cara mammina! La amo così com'è, anche se spesso molto apprensiva. A volte avrei gradito che mi concedesse un po' più di libertà.
Spero che, se un giorno sarò mamma, possa essere brava come lei.
Poi c'è Kevin, il nostro cugino preferito, più giovane di mamma e che, da quando papà non c'è più, si offre sempre di farci compagnia in ogni nostra uscita. Questo viaggio ne è un esempio. E devo dire che la presenza di un uomo ci fa sentire più tranquille.
Adesso, però, meglio che mi metta all'opera e prepari qualcosa di buono per tutti.

Capitolo IV - Hellen

- Ma tu guarda cosa ci doveva capitare - pensai.
- Speriamo solo che questa storia finisca presto. Non vedo l'ora che Dug si riprenda per continuare il nostro viaggio. -
Entrai nell'ambulatorio e domandai ad alta voce se ci fosse qualcuno.
Mi rispose il veterinario:
- Prego signora, mi dica! -
- Senta, dovrei rifornire di carburante la mia auto e ho notato che in cortile c'è una pompa di benzina. Sarebbe così gentile da dirmi come potrei servirmene? -
- Certo, signora! - fu la risposta. - Il benzinaio sarà qui nel pomeriggio e aprirà anche il negozio a fianco, se le interessa. Se vede il negozio aperto, vuol dire che c'è anche il benzinaio. -
- Bene, grazie mille! -
Notai che mi stava osservando. Era uno sguardo attento ai dettagli. Continuava a fissarmi il seno e la generosa scollatura della mia maglietta.
Per combattere il caldo e guidare più comodamente, avevo indossato una maglietta sottile senza reggiseno. Quella fermata inaspettata mi aveva del tutto frastornata e avevo dimenticato di cambiarmi.
Temetti, perciò, che quell'uomo potesse essersi fatte strane idee sul mio conto. Provai un po' di vergogna e cercai di nascondermi alla sua vista mettendomi a braccia conserte.
- A proposito, signora... -
- Sì? Mi dica pure - risposi nervosamente.
- Riguarda il suo cane. -
- Cosa? -
- No, in realtà niente di allarmante! È davvero un bell'animale, non c'è dubbio. Non si preoccupi. Quando si è ripreso, qualche istante fa, l'ho visto ancora molto sofferente e assai irrequieto. Ho dovuto dargli dell'altro tranquillante. Credo che sia necessario tenerlo in osservazione almeno per questa notte. Se non ci saranno particolari complicazioni, domani mattina potrete ripartire. -
- Guardi, i nostri programmi erano diversi, ma se lei lo ritiene necessario per il bene di Dug, allora resteremo. Mi lasci solo avvisare gli altri - gli risposi, ormai rassegnata a trascorrere la notte lì.
- Molto bene! - concluse sorridendo. - Potete parcheggiare la roulotte nell'area riservata, proprio dietro il fabbricato. Nessuno vi disturberà. -
Mi accorgevo che mi stava letteralmente divorando con gli occhi. Cercai però di continuare il discorso in una maniera quanto più disinvolta possibile.
- E dove sarebbe quest'area riservata? - domandai.
- È dietro il cancello, in fondo al cortile - disse, dandomi una chiave. - Quando avrà finito, lo richiuda dall'interno e me le riporti in ambulatorio, passando attraverso l'altro ingresso. -
- Perfetto! Lei è un uomo davvero gentile. La ringrazio. -
Lo salutai con un cenno della mano e mi voltai verso l'uscita dell'ambulatorio.
Ero sicura che in quel momento mi stesse fissando, come aveva fatto per tutta la durata della nostra conversazione.
- Avevo forse sbagliato a salutarlo in quel modo? - pensai.
Però mi era venuto naturale. Era stato molto gentile, e poi era un uomo e io ero una donna ancora abbastanza piacente. Sorvolai dunque su queste sofisticherie e mi diressi verso l'auto.
Non sapevo che ora fosse, ma doveva essere piuttosto tardi. Entrai nella roulotte e vidi mia figlia armeggiare tra i fornelli.
- Che profumino! - esclamai. - Cosa stai cucinando? -
- Torta salata con funghi, ma non mi è riuscita come volevo - disse masticando qualcosa.
- Stanotte restiamo qua! - la informai.
- Cosa?! Mamma, spero che tu stia scherzando! - disse, contrariata.
- Dug non sta bene e il dottore ha detto che deve tenerlo sotto osservazione almeno fino a domani mattina. Per la notte ci sposteremo nell'area riservata. Stai attenta che non cada nient'altro qui dentro. Per oggi ne abbiamo avuto abbastanza. -
- Ok, ma tu guida piano! La tavola è già apparecchiata. -
Mi avvicinai al cancello e lo aprii. Dopo aver spostato l'auto lo richiusi e avvisai Heidi che riportavo la chiave al dottore e che sarei tornata in pochi minuti.
- Heidi, se arrivano tuo cugino e tuo fratello, mangiate pure, non aspettatemi. Non ci metterò molto. -
Solo allora mi resi conto che era già da un po' che non li vedevo. Non avevo idea di dove fossero, ma non me ne preoccupai molto.
Kevin è un uomo ormai, e anche molto responsabile. Mi fidavo di lui. Sapevo che Jack era in buone mani.

Capitolo V – La Stalla

- Jack non correre e non allontanarti! - gli gridai.
A dire il vero però, mi pentii subito di averlo rimproverato, poiché in quel momento lo vidi davvero felice.
Giungemmo dinanzi all'ingresso della stalla. La porta era interamente di legno e molto pesante. Per aprirla dovetti usare parecchia forza. Notai che il bambino era rimasto indietro.
Subito lo richiamai e lui, che evidentemente si era accorto della porta aperta, arrivò immediatamente. Appena entrati sentimmo un forte odore, che non sapevo ben distinguere.
Sembrava fosse una mistura tra urina, sterco e sangue. Un lezzo ripugnante. Mi guardai attorno e ciò che vidi mi lasciò veramente senza fiato: gli animali erano rinchiusi in alcuni box fatti con tronchi d'albero legati tra loro con delle corde ed erano mutilati.
Vidi in particolare, tre cervi, di cui uno con una zampa amputata, al secondo ne mancavano due e il terzo ne mancava del tutto e, con evidente sofferenza, giaceva nel sangue e nei suoi stessi escrementi.
I loro versi lasciavano intendere come gli animali non avessero più forze e riempivano l'ambiente di un angosciante lamento. Non riuscivo a capire per quale motivo il dottore ci avesse invitato a visitar quel posto e, in particolare con un bambino, ma cercai di contenere il mio disappunto.
Mi avvicinai di più a Jack e lo presi per mano. Non sembrava turbato. Chissà che cosa pensava in quel momento. La zia mi aveva spiegato che a volte Jack interpretava le cose diversamente da noi.
- Che puzza! - commentò Jack.
E questo fu, effettivamente, la prova che non capiva la drammaticità della situazione.
Non sapendo cosa dire lo invitai a fare silenzio e a non spaventare gli animali.
Quindi, proseguimmo. Notai ancora molti altri animali: mucche, cavalli, cervi, cerbiatti. A un tratto, mi fermai di scatto e tirai il mio cuginetto verso di me.
Avevo visto un grande orso che giaceva immobile su un cumulo di abbondante paglia. Sembrava stesse dormendo, poiché il suo respiro era accompagnato dal lento movimento del suo enorme addome.
Era rinchiuso in una gabbia più grande e più robusta delle altre, l'unica di ferro ed era sistemato, per evidenti ragioni di sicurezza, in un angolo della stalla, lontano dagli altri animali.
Oltre a mancargli una zampa, aveva una ferita ancora sanguinante, all'altezza dello stomaco. Era impressionante vedere un animale della sua stazza e forza ridotto in quelle condizioni.
Con molta prudenza ci avvicinammo alla gabbia. Il rumore provocato nel pestare la paglia secca vicino a essa attirò la sua attenzione. Aprì un occhio e ci guardò con indifferenza. Non emise nessun verso, solo un sospiro, tanto forte che riuscimmo quasi ad avvertirne il calore.
Continuammo a camminare fino a raggiungere un altro recinto, dove era rinchiuso un cervo. Aveva un bel palco, che confermava si trattasse di un esemplare maschio adulto.
Jack stese completamente il braccio nella gabbia per accarezzarlo sul muso. Non sembrava spaventato. Mi avvicinai anch'io e notai che anche a lui, come agli altri, mancava una zampa. La ferita non era stata fasciata a dovere, poiché la benda era ancora madida di sangue.
Ricordo ancora il modo in cui mi fissava. Sembrava fosse di qualcuno che avesse visto cose talmente atroci da desiderare soltanto di morire il più presto possibile.
Provai una stretta al cuore. Gli occhi neri, lacrimosi e pieni del suo dolore, mi ispirarono un profondo senso di pena nei suoi confronti. Credetti dunque di averne avuto abbastanza.
- Jack, andiamo via di qui! Tua madre sarà in pensiero - gli sussurrai.
Ancora una volta notai che non sembrava molto turbato dalla visione di quegli animali mutilati e sofferenti. Decisi però che avrei preso a pugni il dottore per aver dato modo a un bambino di assistere a quello spettacolo raccapricciante e che, in fin dei conti, aveva turbato anche me.
Appoggiai una mano sulla spalla di Jack per portarlo via di lì. Improvvisamente, un forte rumore ci fece sobbalzare.
La luce che entrava dall'ingresso e illuminava parzialmente la stalla era scomparsa. Spaventato, presi Jack per mano e tirandomelo dietro iniziai a correre verso la porta ormai sbarrata.
Ebbi un brutto presentimento. Jack invece, sebbene apparentemente tranquillo, era ammutolito.
- Qualcuno ci aveva volutamente intrappolati oppure aveva chiuso la porta, ignaro della nostra presenza? - pensai.
Sperai con tutto me stesso che la reale spiegazione di quanto ci era capitato fosse soltanto quest'ultima. Iniziai pertanto a gridare, nella speranza di attirare l'attenzione di chi aveva chiuso.
Non poteva essersi già allontanato troppo, non in così poco tempo. Appena giunto a contatto con la porta, iniziai a colpirla più volte con forza con il palmo della mano. Nulla. Nessuna risposta.
Dai riflessi della luce che entravano dalla parte inferiore della stessa, notai un'ombra che si allontanava silenziosamente. Era chiaro che aveva volutamente ignorato la mia richiesta di aiuto.
Fui quindi certo che stava accadendo qualcosa di strano e iniziai a temere realmente per la nostra incolumità e per quella di zia Hellen e Heidi, rimaste sole ad aspettare il nostro ritorno.
Era trascorsa qualche ora da quando le avevamo lasciate. Conoscendo la zia, preoccupata del nostro forte ritardo, sarebbe venuta a cercarci o avrebbe chiesto aiuto.
A quel punto, non mi restò che sperare che fosse solo questione di tempo prima che qualcuno ci venisse a tirare fuori di lì.

Capitolo VI – Il Dottore

- Dottore, ecco le chiavi! - gli dissi, appena ebbe aperto la porta dello studio.
La fretta e il pensiero per il ritardo di mio figlio, ancora una volta mi avevano fatto dimenticare di cambiarmi la maglietta.
Dopo aver posato le chiavi sulla scrivania, come di consueto con lui, mi misi a braccia conserte. Ancora una volta, sperai che il dottore non interpretasse quel mio modo di vestire come scelto appositamente per provocarlo.
Con l'atteggiamento gentile che lo caratterizzava mi ringraziò e mi salutò, domandandomi se andasse tutto bene.
Io gli palesai soltanto la mia ansia per il mancato rientro di Kevin e Jack.
- Non deve preoccuparsi, mia cara. Nella nostra stalla ci sono parecchi animali da vedere. Di sicuro suo figlio si starà divertendo un mondo. E d'altra parte, con lui c'è suo nipote che mi sembra un ragazzo in gamba. Non credo abbia alcun motivo per essere preoccupata. O sbaglio? -
- Si, ma sarei più tranquilla se mi portasse da loro. -
- Ma sta scherzando? Non permetterei mai che una signora come lei entrasse in una stalla. Lasci che ci pensi io. -
Digitò un numero telefonico e chiamò qualcuno.
- Albert? Sono Sam. Vai nella stalla. Dovrebbero esserci un giovane e un bambino. Saranno nostri ospiti per la notte. Di' loro di venire subito in ambulatorio: la signora Hellen è qui e li aspetta preoccupata. Mi raccomando, va' subito! -
Messo giù il telefono e spostati sulla fronte i suoi occhiali da presbite, tornò con lo sguardo su di me.
- Si accomodi un po' signora Hellen - esclamò il dottore, con voce più bassa e suadente. - Posso darle del tu? -
- Certo! Anzi, la ringrazio per l'invito. Credo però che sia meglio che ritorni da mia figlia. -
Mi voltai e cominciai a camminare verso l'uscita. Speravo che non insistesse.
Lui invece tornò all'assalto. Adesso la sua voce aveva ripreso il suo tono normale, ma i modi erano sempre affabili.
- Hellen, suvvia! Di cosa si preoccupa? Sua figlia mi è sembrata una ragazza responsabile, potrà cavarsela anche da sola e comunque suo figlio tra poco sarà qui. La prego, sia gentile: rimanga qui qualche minuto! -
Usò un tono molto rassicurante. Per non essere scortese con tanta gentilezza e peraltro sicura che non mi sarei trattenuta a lungo, mi accomodai su una sedia vicino alla scrivania.
Appena seduta, lui si alzò e si diresse verso un mobiletto lì vicino. Al suo interno intravidi varie bottiglie di alcolici e dei bicchieri molto ben puliti e brillanti. Cominciai a non mi sentirmi più a mio agio, anche perché il modo in cui continuava a scrutare con gli occhi la mia scollatura non mi piaceva affatto.
Non so dire, però, il motivo di ciò, ma cercai di nascondere il mio forte imbarazzo e di continuare a ricambiare la sua gentilezza.
- Allora, Hellen, io sono Sam; chiamami Sam, non dottore. -
Trascorse qualche secondo in silenzio.
- Hellen, c'è una cosa che potresti fare per me - continuò.
- Cosa? - domandai.
- Sai, sono un uomo molto solo e non capita spesso che una bella donna come te si presenti alla mia porta e volevo chiederti se ti andrebbe di bere un bicchiere di vino con me e, magari, fare due chiacchiere. Approfittiamo dell'attesa necessaria all'arrivo dei tuoi parenti per conoscerci un po' - mi porse il calice.
- Ti prometto che farò il bravo - concluse, sorridendo.
Ero molto tesa. In qualsiasi altra circostanza avrei rifiutato, ma in quel caso credetti che forse un bicchiere di vino era proprio quello di cui avevo bisogno. Probabilmente mi avrebbe aiutato a rilassarmi un po'. Dovevo solo aspettare che tornassero mio figlio e mio nipote e avrei lasciato quel posto.
- Che cosa mi dici, allora? - domandò con una leggera nota d'impazienza che, chissà perché, mi suonò piuttosto inquietante.
Avevo sempre apprezzato il buon vino rosso ed era da tempo che non ne sorseggiavo un po'. Considerando che non avrei più dovuto guidare fino alla mattina seguente, accettai volentieri.
- Grazie, Hellen! Sono molto contento. Ti servo subito. -
Prese due grossi calici e una bottiglia di vino rosso, che scelse accuratamente fra le altre presenti nel mobiletto.
L'aprì, a occhi chiusi annusò il tappo di sughero e sospirò. Riempì i calici e posò la bottiglia. Prese una sedia e la trascinò di fronte alla mia.
Non sembrava pericoloso. Decisi, quindi, di accettare quella sua posizione. Ebbi cura solo di spostare i piedi verso la mia sedia per fargli più spazio.
- Prego! - fece, porgendomi il calice. - Questo è uno dei migliori vini che abbia mai bevuto; lo gradirai sicuramente. -
Dopo qualche minuto di conversazione, svuotato il mio bicchiere, gli chiesi:
- Potresti cortesemente provare a sentire se mio figlio e mio nipote stanno arrivando? -
- Certo! - rispose.
Si alzò e andò al telefono.
- Albert? Sì... Ho capito......ehm ehm, fantastico! Avviso subito la signora. A dopo. -
Dopo aver terminato la telefonata, si rivolse a me.
- Hellen, i tuoi ragazzi sono già in roulotte insieme a tua figlia! Li ha accompagnati Albert personalmente. Hanno preferito andare lì direttamente, perché tuo figlio ha detto di aver fame. -
- Grazie al cielo! - mi confortai. - Sarà meglio che vada! Grazie per il vino, era buonissimo. -
Mi sollevai dalla sedia.
- Un'ultima cosa, Hellen! -
Mi prese la mano e mi guardò negli occhi intensamente.
- Se stanotte volessi riposare in un letto vero e più comodo di quello della tua roulotte, potresti venire a stare da me. Ecco, il mio letto è molto grande e non posso negare che mi piacerebbe passare un po' di tempo insieme a te. - poi aggiunse:
- È tanto tempo che non sto con una donna. -
La proposta mi lasciò a dir poco scioccata. Trovai però il coraggio di reagire e tornai a stabilire le distanze, ricominciando subito a dargli del lei.
- Come si permette? Io sono una donna sposata. Mi lasci e badi a fare bene il suo lavoro, perché domani voglio ripartire di buon'ora! - gli risposi con tono deciso, liberando bruscamente la mia mano dalla presa delle sue.
- Lo sapevo! Ci avrei scommesso! Ma non credevo che arrivasse a chiedermelo così spudoratamente. -
Indignata gli diedi le spalle e mi preparai a lasciare la stanza. Lui, però, mi fermò e riprese a parlare.
- Hellen, scusami! Non so cosa mi sia preso - mi disse, avvicinandosi un po'.
- Scusami! Non so perché l'ho detto. Mi avrà ingannato la tua gentilezza o forse il vino, ma non avevo di certo intenzione di offenderti. -
Non avendo ricevuto la risposta sperata, aveva evidentemente provato a uscire da quella scomoda situazione.
Io però tacqui. Posai il calice sulla scrivania e, dandogli le spalle, mi diressi verso l'uscita. Chissà perché, però, riuscivo quasi a sentire il peso dei suoi occhi sui miei glutei in movimento. Ero disgustata.
Con quello stato d'animo mi affrettai a tornare dalla mia famiglia. Arrivata di corsa alla roulotte, fu un autentico sollievo rivedere mia figlia.
- Mamma! Insomma, che fine avete fatto? - mi chiese lei, evidentemente seccata dall'attesa.
- Dove sono tuo fratello e tuo cugino? -
- Qui non si sono visti. Pensavo foste insieme - rispose.
Fissai mia figlia negli occhi e improvvisamente credetti di soffocare.
Avevo sempre quella reazione quando mi prendeva una sensazione di paura particolarmente forte.
Scoprii di essere stata ingannata da una carogna della peggior specie e non so perché, ma ebbi subito chiaro che finire in quel luogo era stata la cosa peggiore che avrebbe potuto capitarci.

Giannicola Nicoletti

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