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Autore: Giannicola Nicoletti
Gioco di Sangue
Thriller Psicologico Noir Storico
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Gioco di Sangue
1 - Padre e figlio.


Sulla scrivania non c'era più spazio per appoggiare altro. Avevo fatto rifare la targa col mio nome, quella in legno non mi piaceva più e inoltre puzzava di fumo. Questa in vetro, invece, era ben luminosa e rifletteva la debole luce gialla emessa dalla lampadina sopra la mia testa. Sembrava dare ai clienti l'impressione che io fossi una persona di un certo spessore. Ero convinto che a mio padre non sarebbe piaciuta. Era un Detektiv vecchia scuola e non dava molta importanza a queste cose.
- Noi siamo quello che facciamo - diceva sempre.
A volte mi pareva di voltarmi e vederlo, lì vicino a me. Ricordo che rideva poco, sempre così austero, da lui ho ereditato il senso delle priorità e del dovere. Ma avevo pagato tutto a caro prezzo. Un animo tormentato il mio, il bisogno di dare un giusto ordine alle cose e trovare il marcio mi aveva attribuito il nome di “Bluthund”, segugio.
Ne andavo fiero, ma la ruvidità del mio essere aveva avuto la prevalenza. Forse vedevo una parte di me nelle vittime, un bambino che era cresciuto senza madre e quel senso di privazione mi aveva segnato. Mi sentivo fatto di segmenti, mancavo di un intero e nella mia professione cercavo disperatamente di far quadrare quel cerchio mai chiuso dentro di me.
Lo Jägermeister nella bottiglia era quasi finito, dovevo uscire a comprarne dell'altro. Era fondamentale per il mio lavoro. Vivevo un rapporto conflittuale, ma di piena dipendenza, da una parte lo consideravo carburante, dall'altro era stato tuttavia una delle cause che aveva reso inesorabile il mio divorzio. Era la mia valvola di sfogo. Mi aiutava a sopportare tutta la merda che vedevo ogni giorno.
Di recente il lavoro era diventato un vero schifo. Non tornavo quasi più a casa; restavo in questo maledetto posto quasi a tempo pieno.
L'ultima volta che Amanda era passata di qui, dopo il mio ennesimo mancato rientro a casa per la notte, mi aveva trovato addormentato sulla scrivania con le dita ancora intorno alla bottiglia. Da quella volta in poi, ci eravamo rivisti solo in compagnia del suo avvocato.
Buttai giù l'ultima goccia di Jäger che restava nel bicchiere e spensi la sigaretta dentro il posacenere.
Era stracolmo, perciò nel premere sul fondo di vetro quell'ultima paglia, mi scottai le dita e un paio di mozziconi traboccarono, finendo sul tavolo insieme ad alcune braci ancora incandescenti.
- Merda! -
Quel tavolo era un fottuto casino, c'erano carte accatastate dappertutto e l'ultima cosa che volevo era dover smorzare un incendio con il liquore che mi restava nella bottiglia. Mi alzai dalla sedia, soffocai le braci usando un libro di diritto e ripulii le carte dalla cenere. Nel farlo alcuni fogli caddero sul pavimento insieme alla posta della settimana precedente, che del resto non ero riuscito ancora a leggere. Li raccolsi e li ispezionai velocemente. Tra tutte mi balzò subito all'occhio un telegramma che riportava nell'intestazione il simbolo dell'aquila imperiale posata su una svastica, al cui fianco era visibile la scritta Geheime Staatspolizei.
- E questi cosa cazzo vogliono da me? -
Mi risedetti lentamente, osservando lo stemma e il nome del mittente che mi risultò subito familiare: Oberführer Hans Hoffmann. Mi scriveva da Magdeburgo. La lettera riportava la data di mercoledì ventinove novembre, esattamente sei giorni prima. L'ufficiale mi invitava a contattarlo per telefono alla svelta, mi consigliava di non farlo dal mio ufficio, ma di usare una linea sicura e non rintracciabile. Non lo diceva esplicitamente, ma attraverso un codice, che avevamo inventato noi due durante il servizio militare. Pensai dunque che la migliore alternativa fosse quella di raggiungere la cabina telefonica all'angolo della strada.
Dopo qualche secondo, udii il rumore di alcuni passi provenire da dietro la porta d'ingresso.
Il fumo, che offuscava la stanza, si stava lentamente diradando rivelando a poco a poco la scritta sul vetro satinato della porta del mio ufficio.
Da quella posizione la leggevo al contrario, ma mi piaceva l'effetto delle lettere bianche che spiccavano su quel vetro color sabbia. Avevo fatto rifare anche quelle dalla stessa ditta che aveva creato la targa sulla mia scrivania.
Detektiv Frank Braum, suonava anche bene.
Di fianco alla porta, appeso a un chiodo, era incorniciato l'articolo di un giornale, ormai ingiallito dal tempo e dal fumo, che parlava di mio padre, Detektiv Agilulf Günter Braum. Riportava la notizia della risoluzione di un importante caso di omicidio che la polizia era riuscita a risolvere solo grazie alla sua collaborazione, riconoscendogli così tutto il merito nelle pagine di quel quotidiano.
Avevo, ormai da qualche anno, ereditato questo posto proprio dal mio vecchio, un uomo molto serio e ombroso. Erano poche le volte in cui ricordavo di averlo visto ridere, l'ultima volta era successo quando ero ancora un bambino. Aveva un'ossessione per l'ordine e la pulizia, voleva che tutto fosse sempre al proprio posto. A influire sul suo temperamento era stata, ovviamente, la sua carriera militare. Prima di diventare Detektiv, infatti, era stato un soldato nell'esercito regolare e aveva militato sui campi di battaglia durante la Grande Guerra per oltre due anni.
Era già adulto quando scoppiò la guerra del 1914 e, come per la maggior parte degli uomini abili dell'epoca, fu costretto a prenderne parte. Non avevo idea di come avesse vissuto e cosa avesse visto in quel periodo della sua vita: non ne ha mai parlato. So solo che fu allora che nacqui io. Oltre a questo, al ritorno da quella orrenda esperienza, dovette assistere la mamma per parecchi mesi e, allo stesso tempo, badare a me che ero ancora un bambino.
Mentre io crescevo rapidamente, la sua donna combatteva contro un cancro che la consumava senza pietà, fino a quando la morte le restituì la meritata pace. Quel periodo non fu facile per lui. I problemi economici della crisi del dopoguerra, la malattia inesorabile e il doversi prendere cura di me avevano bruciato gli anni migliori della sua vita. La sua non fu un'esistenza ordinaria, almeno per quell'epoca. Decise di non risposarsi, ma dedicarsi totalmente al suo lavoro e alla mia istruzione.
Della mamma, invece, conservo pochi ricordi. Ogni volta che chiedevo a mio padre qualcosa su di lei e tentavo di penetrare quell'oblio, lui riusciva sempre a cambiare discorso in qualche modo. Non ne volle mai parlare e si portò i suoi segreti nella tomba, dopo che un improvviso infarto lo stroncò all'età di cinquantotto anni.
Nel vortice di questi pensieri avvertii dei passi sempre più vicini e quel ticchettio era accompagnato da un'ombra di colore rosso che stava prendendo forma dall'altro lato della porta. Man mano che si avvicinava, riuscivo a distinguere la sagoma in maniera sempre più definita attraverso il vetro satinato, finché la vidi fermarsi e bussare per tre volte sullo stipite di legno.
- Avanti, entri pure! -
La porta si aprì lentamente con un sinistro e inquietante cigolio, dando il benvenuto all'ennesima cliente. Mi alzai e la raggiunsi, invitandola a entrare con il mio sorriso migliore.
- Mi scusi, la farò oliare. Prego, si accomodi! -
Le indicai la sedia di fronte alla mia scrivania mentre con l'altra mano richiudevo la porta alle sue spalle; quindi ritornai a sedermi al mio posto. Mi stava di fronte una donna bionda, dagli occhi chiari, sui trent'anni. I suoi capelli, ben raccolti sotto il cappello, lasciavano totalmente scoperto il suo esile collo. Come avevo già notato, guardandola arrivare attraverso il vetro della porta, indossava un abito rosso che le disegnava la morbida silhouette dalle spalle fino sopra alle ginocchia. Sul capo portava un cappello nero a cupola, dalla tesa molto ampia, probabilmente per proteggersi dalla pioggia incessante degli ultimi giorni.
Sottolineava la sua eleganza un neo al lato dell'occhio destro che contrastava con il colore candido della pelle. Non sapevo se fosse naturale o lo avesse disegnato con una matita, ma le stava benissimo. Anche il suo profumo era di classe, delicato ma sensuale, tanto che riuscii ad avvertirlo malgrado il fumo che appestava la stanza.
- Mi dica signora, in che modo posso aiutarla? -
Non rispose. Cominciò, invece, a volgere lo sguardo in giro con attenzione. Si soffermò per un attimo a osservare gli scaffali degli armadi colmi di libri alla sua destra, poi le carte sparse qua e là sulla scrivania, la lucente targa di vetro col mio nome, finché si fermò sulla bottiglia quasi vuota di Jägermeister appoggiata sopra la posta, a quel punto disse:
- Sa, Detektiv Braum, la sua fama la precede. -
- Beh! Spero che queste voci dicano anche cose buone sul mio conto. A proposito, mi chiami Frank. -
Le risposi sorridendo e nello stesso istante afferrai la bottiglia dal collo e l'appoggiai sotto la scrivania. Nel frattempo, lei accavallò le gambe e vi appoggiò la borsetta, reggendola con entrambe le mani. Poi voltò la testa e di nuovo riprese a osservare lo studio.
La porta del bagno era rimasta aperta per metà, lasciando intravedere la tazza del cesso e la manopola dell'acqua calda sul muro della doccia. C'era un gran disordine in tutto il resto della stanza e il materasso, lasciato in piedi sul muro all'angolo, non aiutava di certo a migliorare la situazione.
Riuscivo quasi a immaginare l'idea che quella donna si stava facendo di me in quel momento. Iniziai a provare un certo disagio, probabilmente perché ero attratto da lei, così pensai a qualcosa da dire per uscire da quella scomoda situazione. Per fortuna però, la donna mi anticipò:
- Me lo immaginavo differente questo posto e anche lei, a dire la verità. -
- Spero che almeno io non abbia deluso le sue aspettative. -
- In realtà, no. Mi ero immaginata che un uomo soprannominato Bluthund avesse un altro aspetto, ma non sono qui per farle dei complimenti. -
- Bene! Mi dica, allora, cosa posso fare per lei. -
- Non si tratta di me, ma di mia sorella. È scomparsa ormai da tre giorni e non abbiamo idea di che fine abbia fatto. -
- È già accaduto in passato? -
- No, mai. Questa è la prima volta. -
- Capisco. Quando è stata l'ultima volta che l'ha vista? -
- Gliel'ho già detto: tre giorni fa. Diceva che sarebbe uscita e che quella sera sarebbe venuta a cena da me, come ogni sabato. Non vedendola arrivare, sono andata a casa sua per capire cosa stesse succedendo, ma non c'era nessuno. È da allora che non abbiamo più sue notizie. -
Tirai fuori dal cassetto una penna e annotai la data sul mio taccuino, sabato due dicembre, poi le chiesi:
- Come si chiama sua sorella? -
- Elisabeth, Elisabeth Schulz, io sono Barbara. -
- Quanti anni ha? -
- Ne ha compiuti diciannove la settimana scorsa. -
- Ha una sua foto qui con sé? -
- Certo, eccola!? -
Aprì la borsa, estrasse dall'interno del suo portafogli una fotografia in bianco e nero e me la porse, ritraeva una ragazza sorridente che reggeva alcuni libri sottobraccio.
La inquadrava a mezzo busto e il viso, ben illuminato, restituiva immediata e chiara la sua fisionomia. Le sorelle non si somigliavano affatto, neanche per il colore dei capelli in quanto quelli dell'altra erano decisamente più scuri. Notai che solo i loro occhi sembravano identici, ma, in quel momento, decisi di tenere per me quell'osservazione. Cercai, invece, di portare l'attenzione su qualche eventuale segno particolare, ma non ne vidi, dunque, decisi di indagare:
- Sua sorella ha per caso un qualche segno distintivo, un piccolo particolare...che possa aiutarmi a riconoscerla? -
- Cosa vuol dire “un piccolo particolare”? Forse che mia sorella non sia un bell'esempio della più pura razza ariana? -
“Immaginavo questa sua reazione nei confronti di questo argomento!” pensai fra me e me.
Su quella questione avevo idee totalmente diverse, riflessioni che mi avevano portato all'osservazione di come, a volte, la bellezza fisica di una persona non rispecchi affatto quella del suo intelletto.
Lasciai cadere il discorso nel modo più semplice possibile.
- Mi perdoni signora, non volevo certo offenderla, volevo sol... -
- Ho capito cosa intendeva. Mia sorella ha un neo, uguale al mio, dietro l'orecchio destro. Sotto questo punto di vista è stata più fortunata di me. -
- Se permette, vorrei rassicurarla, il suo le dona molto, le garantisco che è un bene per lei che sia così in vista. -
- Se lo dice lei, ma, comunque... -
- A quando risale questa foto? -
- È passato poco più di un mese. L'abbiamo scattata in occasione del conseguimento del suo diploma. -
- Non è un po' troppo giovane per vivere da sola? -
- È maggiorenne ormai! La villa l'ha ricevuta in dono dal nonno. Disse di sentirsi pronta a lasciare la casa dei nostri genitori già quattro mesi fa, e, comunque, essendo noi all'apice della classe sociale della nostra nazione, non dovremmo avere nulla da temere, o sbaglio? -
- Non so, ma se così fosse non sarebbe qui in questo momento. -
- Sta per caso mettendo in dubbio l'importanza della nostra famiglia, Detektiv? -
- Assolutamente no, signora, anzi mi scuso per averle dato modo di crederlo. -
Decisi di troncare quella fastidiosa discussione nell'incertezza di dove avrebbe portato. Ora dovevo più che mai concentrarmi sul caso e raccogliere quanti più indizi possibile.
- È già riuscita a entrare in casa di sua sorella? -
- Certo! Ho una copia delle chiavi. -
- Ha notato qualcosa di insolito? Qualcosa che mancava o era fuori posto? -
- Non ci ho fatto caso, ma credo che fosse tutto nella norma. Solo che... adesso che ci penso, il suo orologio da polso era sul tavolo. Lei non esce mai senza. -
- C'è qualche luogo in particolare che frequenta di solito? -
- Ultimamente si recava spesso in biblioteca per preparare meglio gli esami e leggere qualche buon libro. Fin da bambina le è sempre piaciuto molto. -
- È già andata dalla polizia a sporgere denuncia? -
- Si, ma aiutare il partito a sbarazzarsi dei parassiti che infestano il nostro Paese ha la priorità assoluta; per questo mi hanno consigliato di venire da lei, Detektiv Braum. -
- Va bene, signora. -
- Può chiamarmi Barbara. -
- Gut, Barbara! Potrei aver bisogno di fare un sopralluogo a casa di Elisabeth. -
- L'indirizzo è scritto dietro la foto insieme al numero di telefono di casa mia. Nel caso in cui scoprisse qualcosa, la prego di riferirmelo immediatamente. -
- La chiamerò domani mattina per accordarci per un appuntamento a casa di sua sorella. -
- D'accordo! Spero che lei si dedichi totalmente alla ricerca di Elisabeth; le garantisco che sarà adeguatamente ricompensato. La nostra è una delle famiglie più ricche di Lipsia, i soldi non ci mancano. -
- Non si preoccupi, Barbara! Per me non si tratta solo di una questione economica. Ho giurato fedeltà a questo mestiere e le garantisco che farò del mio meglio. Adesso se vuole scusarmi, desidererei iniziare subito le ricerche. -
- Questi sono per lei. E si ricordi di tenermi aggiornata su ogni minimo sviluppo. -
- Danke! Lo farò senz'altro. -
Dopo aver lasciato una busta da lettere chiusa sul tavolo, si alzò. Feci lo stesso, subito dopo di lei, ma con un gesto della mano mi fermò e disse:
- No, non c'è bisogno! Resti pure seduto, conosco la strada. -
Quel cigolio della porta era diventato insopportabile. Avrei dovuto ingrassare le cerniere il prima possibile. Restai immobile e in silenzio a osservare il suo culo ondeggiare dolcemente da destra a sinistra mentre usciva dalla stanza. Peccato che avevamo punti di vista differenti sull'attuale situazione politica del nostro Paese, altrimenti avrei potuto anche cercare di approfondire la nostra conoscenza:
- Barbara Schulz. Uff! Che schianto! - pensai.
Aprii la busta. C'erano circa mille marchi in contanti. Tornai a sedermi e rilessi gli appunti presi su Elisabeth. Non mi restava altro da fare che mettermi al lavoro cominciando a organizzare le indagini sul caso, ma prima avrei dovuto fare una telefonata.

2 - Il Telegramma


Dopo poco decisi di muovermi.
Riposta la busta con i soldi nel cassetto, afferrai l'impermeabile dall'attaccapanni dietro la porta e uscii.
Scesi i due piani di scale in fretta, raggiungendo il portone sempre aperto che dava sulla strada.
Era buio ormai e stava ancora piovendo. I fari delle poche vetture di passaggio, che ancora erano autorizzate a girare per le strade a quell'ora, facevano brillare le pozzanghere sul marciapiede di fronte al mio. Sollevai la mano destra verso un'auto in avvicinamento per palesare la mia presenza e attraversai di corsa la strada.
La pioggia raccolta nelle buche del marciapiede sul lato opposto schizzava, al mio passaggio, sulle locandine di propaganda nazista affisse sui muri. Le strade non erano molto illuminate e continuai a fare attenzione a dove mettevo i piedi, sfruttando la luce di alcuni lampioni che erano rimasti accesi. Non volevo rischiare di cadere e dover tornare indietro per cambiarmi.
Da quando in città il nuovo Reich aveva istituito il coprifuoco, anche la spesa pubblica era stata ridotta ai minimi termini pur di dispiegare quanto più aiuti possibili nell'impiego di mezzi e risorse a scopi militari; dalle otto di sera alle sei di mattina, quindi, l'illuminazione delle strade era stata ridotta al minimo indispensabile. Dopo aver percorso qualche metro raggiunsi la cabina telefonica, aprii la porta ed entrai.
Mi accorsi con sollievo che almeno la luce nella cabina era rimasta accesa. Tirai fuori dall'interno della giacca il telegramma che mi aveva inviato Hans la settimana prima e lessi il numero al quale mi chiedeva di contattarlo:
- Tre nove uno, venti ventidue zero sei diciassette. -
Inserii alcune monete nella fessura del telefono e rilessi il numero una seconda volta mentre lo componevo, per essere sicuro di non sbagliare. Aspettai impaziente una risposta che arrivò esattamente dopo quattro squilli:
- Ja! -
- Cristo, Hans! Ti hanno fatto comandante!”
- Figlio di puttana, ti sei deciso finalmente!? -
- Hans Hoffmann. Adesso Oberführer. Chi l'avrebbe mai detto. A quanto pare te la stai passando bene. -
- Beh, diciamo che non mi posso lamentare! Tu, invece, cosa mi racconti? Segui ancora ogni bel culo che ti passa davanti? -
- Vecchio mio, ormai quei tempi sono passati! - troncai, per arrivare subito al motivo della sua telefonata.
- Ho ricevuto il telegramma! -
- Scheisse, Frank, è passata una settimana! Iniziavo a pensare che fossi morto. -
- Lo so, l'ho letto solo qualche minuto fa e ti ho chiamato subito. Allora, che succede? -
- No, non così. Sarebbe meglio parlare di persona. Devi venire a Magdeburgo domani stesso: è urgente. -
- Domani? Ma non posso lasciare tutto di punto in bianco e venire a farmi le ferie nella tua città! Mi dispiace, ma ci sono delle questioni importanti che richiedono la mia attenzione. -
- Piantala, Frank! Rimetti l'uccello nei pantaloni e porta il tuo culo qui: ho bisogno del tuo aiuto. -
- Ascoltami, Hans, meno di un'ora fa ho ricevuto la segnalazione di una ragazza scomparsa e ho già accettato l'incarico. C'è qualcuno che se ne va in giro a uccidere persone e non posso fregarmene e mollare tutto per venire da te così all'improvviso! -
- Lo so, l'ho sentito anch'io. Fottuto psicopatico. -
- Devo mettermi sulle sue tracce, devo fermarlo. -
- Gut, Frank, ma cerca di fare più in fretta che puoi, c'è una questione delicata di cui vorrei occuparmi e tu sei l'unica persona di cui mi fido al punto da poterne parlare. -
- D'accordo, se è così che stanno le cose cercherò di fare il prima possibile. -
Hans riprese, con tono turbato:
- Sono serio, Frank: è una cosa a cui tengo particolarmente! -
- Ho capito, cazzo! Non preoccuparti, sarò lì appena potrò. -
- Segnati questo indirizzo: appena arrivi in città, vieni a trovarmi qui. -
- Sono pronto. -
- Numero sei di Alter Markt, di fronte alla statua del cavaliere c'è il municipio, Stadtverwaltung Magdeburg, parla con le guardie all'ingresso e digli che abbiamo un appuntamento, qualcuno ti porterà da me. -
- Va bene, farò come vuoi. -
- Ah, un'altra cosa! Non dire alle guardie di essere un Detektiv. Preferisco che la tua identità resti nell'ombra. Chiedigli solo di portarti da me, intesi?”
- Si! Spero di poterti raggiungere già questa settimana. -
- Ci vediamo presto, allora. -
- Mach's gut! -

Riagganciai la cornetta del telefono e mi misi il cappuccio sulla testa. Aprii la porta della cabina per uscire in strada e tornare indietro, ma delle urla improvvise sovrastarono il rumore della pioggia facendomi sobbalzare.
- Halt! Halt! Mettiti in ginocchio! -
Due soldati delle Waffen-SS si precipitarono verso di me con i mitra spianati e mi intimarono di fermarmi. Conoscevo bene la reputazione di quei bastardi e quindi decisi di non opporre alcuna resistenza.
- Va bene, ma state calmi! - risposi portando le mani dietro la testa e inginocchiandomi lentamente.
- Cosa ci fai in giro a quest'ora? -
- Dovevo fare una telefonata urgente e la corrente in casa mia è saltata. Succede sempre quando piove molto. -
- Mostrami un documento! -
Aprii lentamente la cerniera della giacca per tirare fuori dal portafoglio la mia Kennkarte, ma uno dei soldati, quello più lontano da me, riuscì a vedere la pistola infilata nella fondina sotto la mia ascella sinistra
- Achtung! È armato! - gridò al suo commilitone.
L'altro soldato mi colpì all'istante con il calcio dell'arma sul volto facendomi cadere a terra.
- Verflucht! State calmi, cazzo! Sono un Detektiv e ho un regolare permesso per questa. -
Mi rimisi lentamente in piedi, mentre entrambi continuavano a tenermi sotto tiro con i loro mitra.
Riconobbi subito il sapore del sangue, che mi colava sulle labbra misto alla pioggia battente.
- Cazzo di animali! Mi avete rotto il naso. -
- Ce l'hai il lasciapassare? -
- Si, è qui nella mia giacca. -
- Mostramelo, presto! -
- Gut! Un momento. Ma questa volta state attenti a non eccitarvi troppo! -
Estrassi i documenti che mi aveva chiesto e glieli porsi; il soldato li prese e si spostò sotto la luce di un lampione lì vicino per ispezionarli meglio. Vedevo la pioggia rimbalzare sull' elmetto e quel flebile chiarore mi dava la possibilità di guardarlo in faccia.
Era solo un ragazzo, avrà avuto circa vent'anni e Dio solo sa quante persone aveva già ucciso e quanto dolore inflitto.
Far parte delle Waffen-SS non era facile per nessuno. Non tutti potevano diventarlo. Era necessario passare una rigida selezione fisica, prima di poter cominciare la loro durissima formazione da malati. Di solito si trattava di ragazzi molto giovani, scelti e selezionati per le loro capacità e il loro aspetto fisico: la selezione razziale, la chiamavano alcuni e ne andavano fieri.
In seguito, i loro esaltati istruttori avrebbero provveduto a rimuovere ogni briciolo di umanità dalle loro teste e dai loro cuori, trasformandoli in vere e proprie macchine da guerra, senza pietà, sprezzanti sia del pericolo che della morte stessa.
- Allora? Siamo a posto? - domandai, dopo qualche secondo.
- Si! Puoi andare. - rispose, restituendomi i documenti.
- Grazie tante! - gli dissi, sporgendomi verso di lui in modo strafottente e strappandogli letteralmente le carte di mano.
Nello stesso momento, l'altro soldato scarrellò velocemente il mitra, intimandomi di non esagerare.
- Gut, scusate, andate a fanculo - biascicai sottovoce, voltandogli le spalle per evitare che mi sentissero.
Ero inzuppato fradicio. Mi diressi verso lo studio, ormai diventato ufficialmente la mia nuova casa, dove mi sarei fatto una doccia e avrei provato a dormire un po'.
Alzai la cornetta del telefono, composi il numero e mi sedetti alla scrivania. Versai quello che restava dello Jägermeister nel bicchiere e lo buttai giù tutto d'un colpo, poi presi una Nordland e la accesi.
- Schutzpolizei! -
- Salve, sono il Detektiv Braum, Thomas Bergmann per favore! -
- Solo un momento. -
- Danke! -
Nel portare la sigaretta alla bocca per la seconda volta notai che la mia mano era ancora sporca. Tirai fuori dal cassetto un fazzoletto di stoffa. Era un regalo di mia moglie, l'unica cosa rimasta ancora immacolata in quel posto. Lo aprii e mi pulii, poi lo premetti sulle narici per asciugare quel che restava del sangue ormai raggrumato.
- Bergmann! Con chi parlo? -
- Thomas, sono Frank! -
- Ehi, Bluthund, come mai mi chiami a quest'ora? Che succede? -
- Sto cercando una ragazza. Devi aiutarmi! -
- Di solito sei tu che aiuti me in questo genere di cose. -
- Elisabeth Schulz, diciannove anni, capelli lunghi neri, occhi chiari: prova a cercare in altri distretti, hotel e ospedali nel raggio di cento chilometri! -
- Cento chilometri! Frank sono quasi le undici, non vorrai che resti qui tutta la notte per chiamare ogni stazione di polizia del Sachsen e Sachsen-Anhalt? -
- Ascoltami, Thomas! La ragazza è scomparsa da tre giorni, potrebbe essere già troppo tardi. Inoltre, non ho molto tempo. Devo trovarla e mi serve tutto l'aiuto possibile... Allora, lo farai?”
- Va bene, Frank: farò del mio meglio! -
- Danke! Avvisami appena sai qualcosa. Buonanotte! -
Riagganciai e mi alzai dalla scrivania. Lanciai la giacca sulla sedia di fronte a me, staccai le bretelle e la fondina da sopra la camicia e, dopo aver estratto la pistola dal suo interno, appoggiai tutto sul tavolo insieme all'orologio. Il freddo preso poco prima a causa della pioggia mi fece venir voglia di pisciare. Spensi la sigaretta nel cesso e tirai lo sciacquone. Terminai di spogliarmi ed entrai in doccia. L'acqua calda che scorreva sulla mia schiena mi dava quasi l'impressione di un tiepido massaggio sensuale.
- Aaahh, finalmente! -
Dopo qualche minuto uscii dal bagno, mi asciugai e mi infilai un paio di mutande pulite. Spensi la luce, tirai giù il materasso appoggiandolo sul pavimento e mi ci buttai sopra. Ero stanchissimo. Un'altra giornata di merda come tante era arrivata al termine.
Provai a chiudere gli occhi. Il tintinnio della pioggia che batteva leggera sul vetro della finestra avrebbe conciliato rapidamente il mio sonno. Il naso mi faceva ancora male, lo sentivo pulsare, ma pensai che sarebbe stato meglio dimenticare subito tutta quella storia e cercare di concentrarmi sul mio attuale caso.
L'indomani avrei dovuto cominciare le indagini su Elisabeth, sperando di arrivare subito alla conclusione così da poter raggiungere il mio amico a Magdeburgo.

3 - Elisheva


Il tavolo d'acciaio su cui era sdraiata, era ormai sporco di sangue, ma non mi importava, non lo avrei rimosso, non in quel momento. Ai suoi piedi c'era un panno color blu che usavo per tamponare quel caldo fluido rosso che fuoriusciva, ormai lentamente, dal profondo taglio che le avevo aperto sulla parte frontale della coscia.
Quando lo osservavo uscire lento dal suo corpo era come se una musica soave cominciasse a farsi strada nelle mie orecchie, una sensazione strabiliante, sublime. Un vero e proprio stato di trance in cui però riuscivo a restare lucidissimo.
Potevo fare tutto quello che volevo con semplicità e naturalezza, mentre ne traevo il massimo godimento sia fisico sia psicologico. Ero compiaciuto dall'eccitazione del mio organo sessuale, che non mi aveva ancora abbandonato. Lo sentivo premere duro contro la fodera dei miei pantaloni, pronto a voler prendere il posto da protagonista nell'ennesima avventura che stavamo sperimentando insieme, ma questa volta, avrebbe dovuto aspettare ancora un po'.
Era una ragazza giovane, di circa sedici anni. I lunghi capelli neri donavano al suo viso un aspetto aggraziato. Lo smalto sulle unghie dei piedi era rovinato, ma non le stava male. I seni, non ancora sviluppati del tutto, erano molto soffici al tatto e la sua pelle era liscia, come un petalo di rosa.
Sul suo pube era ben vistosa della peluria setosa che iniziava a farsi strada tra le sue gambe e un giorno avrebbe ricoperto totalmente quel suo grazioso monte di Venere.
Mi chinai su di lei per odorare la parte più da vicino. Nonostante l'urina, ormai evaporata, che le aveva bagnato l'interno delle cosce qualche attimo prima di perdere i sensi, si poteva ancora distinguere bene un profumo di lavanda e melaleuca, come avevo già constatato su alcune altre donne in varie occasioni. Anche i suoi indumenti avevano lo stesso odore. Me n'ero reso conto spogliandola.
I suoi vestiti erano ancora ammucchiati sul pavimento in un angolo della stanza e riuscivo a vedere chiaramente la fascia con la stella di David infilata sulla manica sinistra della giacca. Per quelli come lei era obbligatorio indossarla già da qualche anno.
Non pesava molto. Avevo, infatti, sperato di non aver esagerato troppo con la morfina; non volevo mandarla in overdose, o quanto meno non ancora. Dovevamo prima spassarcela un po', poi avremmo potuto salutarci per sempre.
La morfina era la forma più pura della magia, la preferivo al Tiopental o ad altri oppiacei in circolazione, molto più forti. Di morfina, invece, bastava somministrarne una piccola dose nel collo per vederli accasciarsi su sé stessi dopo solo qualche secondo e il rischio di ucciderli per sbaglio era sicuramente molto più basso.
Purtroppo, però, le quantità a mia disposizione iniziavano a scarseggiare e in giro era sempre più difficile trovarne a causa della guerra. Il mio fornitore mi aveva avvertito l'ultima volta che c'eravamo incontrati, ma, per fortuna, quel pomeriggio ne era rimasta a sufficienza per catturare Elisheva. Avevo letto il suo nome sulla Kennkarte prima di bruciarla.
Su questo riflettevo, osservando il corpo nudo della ragazza, ma avvertii che mi stavo raffreddando. Il mio membro era ormai flaccido e decisi dunque che era giunto il momento di svegliarla.
Mi feci strada con le dita tra le carni aperte della sua gamba e riuscii ad afferrare il femore. I nervi e i muscoli che lo circondavano erano giovani e forti, ma la mia determinazione prevalse.
Nel momento in cui le dita avvolsero l'osso completamente, il sangue cominciò a inondare la mia mano, che si ritrovò totalmente sommersa da quel caldo fluido organico. In quello stesso istante l'orchestra che viveva nella mia testa ricominciò armoniosamente a suonare e il cazzo mi si rizzò nelle mutande in un istante.
Provai a sollevare leggermente l'osso verso l'alto e finalmente Elisheva tornò in sé.
- MMMmmmm! MMMmmmm! -
Non riuscii a interpretare i suoi lamenti soffocati dalla stretta morsa del bavaglio.
- Fottuto psicopatico, lasciala stare! -
Quelle urla iniziarono a sovrapporsi alle soavi note musicali che si rincorrevano nella mia mente, distogliendo la mia attenzione.
Non provenivano da Elisheva, però, ma da un'altra mia ospite, rinchiusa in una gabbia di ferro.
Tirai fuori la mano dall'interno della gamba di Elisheva e la asciugai con il panno situato ai suoi piedi. Lo feci molto lentamente per evitare che il sangue andasse sprecato riversandosi sul tavolo.
La osservai dimenarsi dal dolore per qualche istante, ma i nodi ai polsi e alle caviglie erano ben stretti e ne limitavano i movimenti.
Le lacrime scendevano copiose dai suoi occhi e il suo sguardo irrequieto rimbalzava velocemente dal mio viso alle mie mani, cercando forse di carpire quali fossero le mie prossime intenzioni.
Le spostai delicatamente una ciocca di capelli dalla faccia e accarezzandola, diedi modo alle mie dita di bagnarsi delle sue lacrime e del suo sudore.
Mi diressi verso la gabbia. Alla sua destra c'era una grossa batteria appoggiata sul pavimento. Apparteneva a un camion, l'avevo trovata a in una discarica mentre cercavo di sbarazzarmi dei resti della mia vittima precedente. Non era stato facile trasportarla fin qui, ma ne era valsa sicuramente la pena.
Collegai il morsetto all'elemento positivo, mentre il cavo negativo era già ben saldato alla gabbia di ferro. L'amperometro indicava che era carica quasi del tutto. Aumentai leggermente il voltaggio girando la manopola, finché il rumore sordo della tensione elettrica non fu ben udibile.
- No, ti prego! Non di nuovo! -
Infilai un braccio nella gabbia e la afferrai per i capelli. La tirai verso di me, facendola sbattere con forza di faccia sulle sbarre, poi mi avvicinai a lei fino a quando i miei occhi furono a pochi centimetri dai suoi.
La sentivo tremare sotto la mia presa, nonostante fosse immobilizzata, bloccata con le guance a contatto del ferro.
- Tu puzzi! - le dissi, fissandola negli occhi.
- Lasciami, ti prego, non parlerò più, te lo giuro! -
- Questo lo vedremo! -
Appena terminai di pronunciare quelle parole, le leccai la faccia partendo dal mento fino alla fronte. Lo ripetei per due volte, come fa una bestia appena dopo aver catturato la sua preda, e poi di colpo la rilasciai scagliandola sul fondo della gabbia.
Impugnai l'elettrodo dal manico in gomma e cominciai a farlo scorrere sulle sbarre di ferro.
- Aaah Aaaaaaahhh! Basta! -
- Non riesci proprio a far silenzio vero? In tal caso, sarà meglio alzare un po' il volume... -
Feci ruotare la manopola del trasformatore fino a raggiungere il massimo voltaggio possibile. Chiusi gli occhi e iniziai a strusciare l'elettrodo da destra a sinistra sulle sbarre, immaginando di essere un direttore d'orchestra al teatro dell'Opera.
Quei suoni armoniosi ricominciarono, accompagnati dal ritmo delle scariche elettriche e dal crepitio del metallo.
La donna saltava all'interno, piangendo, e continuava a dimenarsi nel tentativo di sfuggire alle scosse, ma la sua pelle nuda non poté offrirle alcun isolamento.
Adorai l'odore della sua carne che bruciava, lo sentivo entrare, caldo, direttamente nel mio cervello.
Mi fermai e la osservai asciugarsi le lacrime con le sue sudice mani. I suoi lamenti non furono sufficienti a coprire il rumore dell'urina che cadeva nel secchio mezzo pieno sotto la gabbia.
Mi portai l'indice alla bocca e le dissi:
- Shhhh! Fa silenzio, troia! Cos'è, sei gelosa di quella ragazza? E va bene, visto che non riesci più ad aspettarmi, asseconderò la tua richiesta. -
Tornai da Elisheva, che mi guardava con gli occhi sbarrati. Aveva una respirazione molto accelerata, era in un evidente stato di agitazione. Entro poco l'effetto dell'anestetico sarebbe svanito del tutto e quindi dovevo muovermi.
Mi avvicinai e le accarezzai nuovamente il volto. Rimossi il bavaglio e schiusi le labbra con il pollice, che poi le infilai in bocca.
La sua lingua era calda e umida, di solito a quel punto non avevano neanche più una goccia di saliva, ma lei no, lei era speciale.
Riportai di nuovo la mano all'interno della ferita alla gamba e lei esplose in un grido lancinante:
- Aaaaaah Aaaaaaaaah! -
Mi divertì molto vederla in quello stato. Avrei potuto giurare di aver visto la sua anima uscire da dentro di lei attraverso le sue urla.
I suoi occhi roteavano fino a far scomparire le iridi sotto la sua fronte. Poi mi fermai, dandole la possibilità di ritornare finalmente a respirare.
Quei seni piccoli e perfetti danzavano freneticamente prima in alto e poi in basso, spostati dallo sforzo affannoso dei polmoni che, cercavano di ristabilizzare il normale livello di ossigeno nel suo sangue.
Mi appoggiai con le mani sulle ginocchia abbassandomi su di lei per sussurrarle qualche parola nelle orecchie. Poi, iniziai a parlarle sottovoce facendole cenno di guardare la donna nella gabbia e dissi:
- Guardala, non riesce a fare a meno di me, ma non preoccuparti, non ho intenzione di trascurarti. Tornerò da te appena avrò finito con lei e inizieremo a divertirci. -

Giannicola Nicoletti

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