Non appena il Giudice Pizzi si allontanò nella notte con il volto paonazzo, Bombo levandosi dal letto e si mise accanto alla madre. Voleva sapere: - Perché è venuto quell'uomo, dove andremo? - e avrebbe voluto porre alla madre almeno altre dieci domande, ma lei si mise un dito sulla bocca silenziandolo dolcemente. - Non so! - rispose tranquilla: - ci penserà tuo padre, ora torna a letto e non preoccuparti di nulla - . Dicendolo poteva sembrare a un estraneo che fosse la cosa più naturale al mondo: - Quell'uomo, il Giudice Pizzi è mio padre? - la madre annuendo con la testa glielo confermò: - È giunto il tempo che tu debba sapere, quell'uomo è tuo padre e la donna in fondo alla scalinata era tua nonna, ma non meritano nulla, nessuno di loro, non ci pensare neppure - sorridendo lo abbracciò, scompigliandogli i capelli e stampandogli un bacio sulla nuca: - starai bene, mio piccolo, da ora in poi avrai tutto quello che desideri, anche un pianoforte - sorrise Celeste, con il suo sorriso quieto. Bombo si dovette sedere, la notizia lo aveva sconvolto. Quella notte le sedie sarebbero state occupate da qualcuno che per un motivo o un altro si sentiva cadere da un altro mondo oppure vi entrava. Mondi sconosciuti entrambi e a tutti quella notte le gambe cedevano sotto il peso della verità. A volte la verità fa questo effetto, così come il riso, esiste chi è caduto per troppo ridere e anche chi è caduto sotto il peso della realtà. Bombo seduto si passava le mani sul viso incredulo. Aveva tredici anni e frequentava la terza media e non capiva: - Mamma, ma io non capisco, ma perché dobbiamo andare via e dove? Ma allora? - , non riuscendo neppure a concludere per sé stesso il pensiero da tanto era irreale. - Ma allora, cosa? - lei gli disse voltandosi a guardarlo. - No dico, allora Annabella la figlia del Giudice Pizzi, è mia sorella? - dicendolo e ripetendo le parole come se le leggesse su un testo scolastico, quello che è scritto è di certo la verità. - Mi sembra ovvio - lei commentò non ascoltandolo più. Dicendogli invece: - Ora torna a letto, dovresti essere già addormentato da un bel po' - . Lui alzandosi di malavoglia, avrebbe voluto parlare con sua madre e fare molte altre domande, ma sua madre non era tipo a cui porre domande alle quali, in quel momento, non voleva rispondere. Sarebbe venuto quel tempo, ma non era ora, sospirando avrebbe voluto dire: - E dimmi madre, ti sembra altrettanto ovvio che Annabella, mia sorella, mi abbia scritto una lettera in cui mi chiede amore eterno? Ovvio che è la mia ombra, mi segue ovunque e me la ritrovo a ogni passo, da quando aveva tre anni - .
- Bombo, perché non ti vedo più? Ti ho cercato tante volte vicino alla scuola, lo sai che c'è sempre qualcuno che me lo vieta. Ma io ti voglio vedere perché ti amo e ti amo - . Per sempre. A
E invece non disse nulla, per quella notte ne aveva davvero abbastanza di novità. Alzandosi dalla scomoda seduta e con la testa frastornata andò in bagno. Prese il foglietto di carta colorato dallo zaino, facendolo in mille pezzi lo guardò dissolversi nello sciacquone. Le parole si inzupparono, facendo macero nell'acqua e si dileguarono per sempre sotto ai suoi occhi. Ma il suo pensiero correva veloce e non era certo per Annabella. Ora avrebbe dovuto pensare ad Attila, il suo corvo, avrebbe senza dubbio dovuto smontare la gabbia di legno aperta sul balcone, poi avrebbe dovuto convincere l'animale a cambiare residenza, avrebbe dovuto rinchiuderlo in una nuova gabbia di legno e portarlo con lui. Dove? - Come faccio a dire tutto questo ad Attila? - sgomento tornò a letto con quel pensiero fisso nella mente. Conosceva bene sua madre e il trasloco sarebbe stato quasi imminente. Il tempo di finire la scuola. E mancava davvero poco. Ma era solo un ragazzo e il sonno lo raggiunse presto, si addormentò senza neppure coprirsi, con le gambe a ciondoloni dal materasso e la faccia affondata nel cuscino. Quando era ancora un bimbo, forse nell'età vicino ai tre anni, Bombo viveva in un bosco, una piccola casa in legno, con un minuscolo orto e altrettanto giardino. Quel piccolissimo agglomerato di case provvisto di una Chiesa altrettanto minuscola portava il nome di Querciabuona. Forse aveva preso quel nome dal numero infinito delle querce, che sembravano prosperare e riprodursi senza difficoltà. Sua madre e sua nonna Maria, ogni giorno, da quando lui ricordava, lavoravano nell'orto con un cappellaccio che Bombo ancora ricordava e che alla fine del lavoro veniva riposto a un chiodo. Il nonno Giuseppe, sulla sua poltrona con le rotelle, le seguiva sin dove poteva, naturalmente, ma spesso le due donne se lo portavano anche nel giardino. Bombo aiutava tutti quanti, con il suo sapere da bimbo di tre anni. E fu allora che con un corvo si fece amico, proprio lì in quel giardino, mentre era seduto su una vecchia coperta in lana e tutti quanti erano al lavoro. Era affamato il piccolo volatile, forse chissà era caduto da un nido e il bimbo non esitò a dividere il pane e qualche pezzettino di carne, quando poteva e soprattutto quando nessuno vedeva. Seppure così piccolo aveva intuito che forse l'animale non era gradito, era tutto nero, un becco giallo adunco potente e due occhi gialli ipnotici. Regale. Era meravigliosa l'amicizia che si instaurava tra l'animale e il piccolo. Bombo si perdeva al solo guardarlo, estasiato nel vederlo avvicinare quando planava con grande prestigio e le zampe con i lunghi artigli, che neppure sfioravano la pelle delicata del bimbo. L'animale presto si abituò al piccolo e becchettando tra le sue piccole dita, lo trovava ogni giorno. Strano a dirsi ma il corvo sapeva sempre dove trovarlo. Gracchiando fuori dalla finestra, chiamava il bimbo, ma a nessuno mai comprese il richiamo. Bombo si fece grande e quando all'età dei cinque anni i nonni partirono per un lungo viaggio, così gli disse sua madre a quel tempo, il suo pensiero si concentrava sull'evidenza che avrebbe certamente perso il suo amico e il suo animo si faceva triste, ma come comunicare al corvo la nuova destinazione? Neppure lui la conosceva. Parlando al corvo che come al solito si poneva sulla sua spalla così gli diceva: - Guarda Attila - lo aveva chiamato con quel nome da guerriero perché il nonno gli raccontava delle storie di battaglie di un certo Attila e a lui il nome era rimasto impresso: - Non essere triste, ma non so neppure io dove la mamma mi porta, forse non ci rivedremo più - . E così fu. Quando la madre lo prese per mano portandolo in quel posto sconosciuto, Bombo pensava spesso al suo amico e camminando per quelle vie sconosciute, teneva il naso all'insù. La gente lo guardava e pensava fosse matto, qualcuno lo derideva, ma lui non smetteva di cercarlo e guardando spesso nei nembi del cielo, lo cercava tra la pioggia, o lo aspettava nel vento, pensando: - Che farà ora Attila? Chi gli darà da mangiare? Forse sarà morto? - , sentendo il chiodo nel cuore per la sua mancanza. Forse Attila quando lui gli parlava non capiva cosa volesse dire, ma un amico a volte ti conforta solo con l'ascolto e poi chi lo può dire? Sembrava tutto perduto, ma un giorno alzando gli occhi lo vide e lo riconobbe tra i molti, aveva una apertura alare imponente roteando con quei suoi modi regali. Non poteva che essere lui. - Attila - , gridò il ragazzo a cui seguì un lungo fischio e allora si vide l'animale compiere una virata cercando qualcosa. Il ragazzo fischiando una seconda volta tolse al corvo ogni dubbio che planò sulla sua spalla. Si erano ritrovati ed erano entrambi molto felici, a modo proprio esprimevano la loro gioia. Il ragazzo carezzava il corvo sotto il collo tra le piume e l'animale lo becchettava sulla testa. La loro storia d'amore sarebbe proseguita. In quella casa dove il Parroco li aveva sistemati, si trovava una ringhiera cieca e fu proprio in quello spazio che Bombo preparando una rudimentale casa per Attila gli destinò il suo posto con lui. Lasciando libera la parte alta aperta consentiva all'animale di muoversi liberamente, poi la sera al primo calar del sole, l'animale tornando becchettava felicemente e il ragazzo gli faceva trovare un catino colmo di acqua fresca e Attila lisciandosi le lunghe penne nere per lunghi minuti, gradiva molto l'attenzione. Presto dovette fare i conti con sua madre: - Da dove arriva, questo animale? - . Celeste comprese che il daffare del suo ragazzo aveva certamente uno scopo e infatti quel giorno, mentre teneva in mano una scopa, il corvo planò diritto verso di loro. Al momento lei si spaventò ma poi comprese. Attila guardandola attentamente muoveva il capo da destra a sinistra, restando sulla spalla dell'amico. Bombo supplicò: - No, mamma per l'amor di Dio, lascialo stare è il mio amico, si chiama Attila, era amico anche del nonno - mentendo, - mi ha seguito sino a qui - , guardandola con occhi luccicanti. - Va bene, può restare, ma te ne occuperai tu, in tutti i casi - . - Ma certo - dissero entrambi un grazie, ognuno alla propria maniera. Celeste quella notte, rimanendo sveglia ancora a lungo restava seduta al tavolo disegnando fiori con i contorni della tovaglia di plastica smunta. Doveva pensare e alzandosi si fece una tazza di caffè. Il tempo torna, ritorna, ci assale e ci pervade, un pensiero non muore mai, vive di vita propria e torna quando meno te lo aspetti e ora come allora ci riempie di vergogna, o di terrore, o spavento a volte è gioia e gli occhi sorridono al pensiero, oppure è tetro e gli occhi si appannano di lacrime. Ora come allora, a Celeste, gli occhi si riempirono di lacrime.
Francesca Paola Barresi
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