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Autore: Renato Delfiol
Da Gerusalemme a Legnano
Storico
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Da Gerusalemme a Legnano
Una famiglia nel Medioevo.

Partimmo non senza aspri litigi in merito al diritto di guidare il drappello, che infine risolvemmo cavalcando affiancati. Ci seguivano Giovanni e un altro servo con il bagaglio e le armi.
Nostra madre pregava il marito di ritirare le sue maledizioni verso Azzone e di benedirci. Con le lacrime agli occhi per lo sforzo di superare il suo sdegno, nostro padre ci disse a bassa voce: - Figli miei, andate. Ambedue avete da pentirvi della vostra decisione, ma possa Iddio condurvi e ispirarvi. Ricordatevi che se anche siete armati, questo è un pellegrinaggio, che vada in sconto dei vostri peccati. -
Nostra madre tracciò su di noi il segno di benedizione. Il cappellano già aveva asperso le nostre armature di acqua benedetta.
Tentando di ricacciare indietro le lacrime, mi congedai da loro con le parole più tenere che seppi trovare, promettendo che avrei vegliato su Azzone. Mi si stringeva il cuore mentre, voltando indietro la testa, li vedevo soli, mentre ce ne andavamo.
Ero angosciato ma mi tenni diritto e, mentre passavamo tra le casupole del nostro borgo, salutai con cenni del capo e con viso che cercavo di rendere lieto, i lavoratori che facevano ala al nostro passaggio: dovevamo sembrare fieri nelle nostre cotte lucide, portando sotto il braccio gli elmi smaglianti che rendevano ancora più luminose le bianche sopravvesti adornate dalla piccola croce sanguigna sulla spalla. Cingevamo la spada.
Mio fratello aveva portato anche una grossa ascia che usava in combattimento, in modo disdicevole, secondo me, perché preferiva il ferro vile all'arma consacrata della cavalleria, effigie della croce di Cristo. I servi portavano le lance e gli scudi che recavano gli smalti dei nostri colori.
Era piacevole sentire il tenue tepore del sole d'inizio primavera che ci infondeva un senso di forza e baldanza. Il cielo quasi terso con piccoli sfilacciamenti di nubi sembrava benedire la nostra partenza.
Mio fratello mi canzonava di continuo, e derideva il mio fervore religioso mentre sognava ad alta voce facili conquiste femminili, serate di bevuta e ricompense munifiche dopo feroci battaglie.
Anch'io lavoravo d'immaginazione, ma in un altro modo: mi vedevo contornato da altri cavalieri e accanto ad Azzone mentre caricavamo il nemico, uccidevamo gli infedeli e ritornavamo vittoriosi e carichi di gloria: allora sì che nostro padre sarebbe stato contento della nostra partenza!
Mi rendevo conto che erano fantasie, e chissà cosa ci avrebbe riservato l'impresa.
- Oh, ecco i nostri vassalli! - ci salutò con voce gioiosa il conte Guido, con gli occhi scintillanti sopra il suo nasone. - Non manca nessuno, abbiamo anche un valente e saggio mercante. -
Con tutta evidenza scherniva me; mio fratello proruppe in una fragorosa risata e, inchinandosi, fece un servile complimento allo spirito del signore.
A stento trattenevo lo sdegno e la delusione: il nostro feudatario non si rendeva conto della lotta segreta della mia famiglia per tenere alto il comune decoro. Egli ci scherniva, mentre gli davamo come tributo una parte del ricavato dei nostri terreni.
Si era però subito ricomposto, e presto dovetti pentirmi di averlo mal giudicato, era solo una battuta e imparai più tardi che era solito scherzare anche sulle cose serie. In seguito mi resi conto che era animato da autentico zelo religioso, e con sincerità intenzionato ad aiutare Gerusalemme.
Ci abbracciò appena scesi da cavallo, e lodò il valore di nostro padre con altri cavalieri che erano presenti.
- Hai un bellissimo cavallo, Uberto, e sarai anche un mercante ma sai stare ben saldo in sella. Sei come tuo padre... sapete gente, l'ho visto combattere all'assedio di Como, quando ero solo un bambino, ed era mia madre che guidava i nostri armati, e so quello che dico. Vieni che ti presento all'arcivescovo. - Poi, sottovoce, come se fossi un incolto, aggiunse: - Mi raccomando, inginocchiati e baciagli l'anello. -
L'arcivescovo di Milano mi parve un prelato molto degno e convinto della causa: finalmente era giunta l'ora della riscossa contro i pagani, e confidava nel nostro valore.
- Voi sapete che combattendo si deve uccidere - ci disse. - Non vi dispiaccia di farlo, perché uccidere gli infedeli non è come uccidere un cristiano, che è cosa abominevole, anche se spesso, purtroppo, si vede. L'infedele è sì un uomo, ma incarna il male. È il male, quindi, che voi combatterete e ucciderete. -
Partimmo il giorno stabilito. I saluti dei milanesi, nobili e popolani, si erano protratti sino a tarda notte.
Ricordo soprattutto il banchetto nel palazzo vescovile, cui per la benevolenza del conte eravamo stati ammessi, assieme ad altri seguaci e a molti nobili milanesi, ai curiali e ai più ricchi e costumati tra i popolani.
Ci furono molti discorsi saggi e molta cortesia che mitigarono quella sotterranea tristezza che tenta sempre chi sta per partire.
Imparavo ad apprezzare i seguaci del Biandrate, cavalieri che avevano dimora nel suo borgo e altri, infeudati di altre zone dei suoi domini: Gualtieri da Romagnano, Guido da Carpano, Alberto da Trezzo, e altri.
Ci trattammo subito amichevolmente, e compresi che sul loro aiuto e consiglio avrei potuto contare nella gloriosa avventura.
Qualcuno invero superava la convenienza nella libertà dei modi e del linguaggio, e più di una volta mi dovetti vergognare per mio fratello che metteva in luce desideri inopportuni di ricchezze e felicità mondane. Anche l'arcivescovo, a momenti, ne fu urtato, ma il conte lo difendeva e attribuiva quel comportamento a giovanile intemperanza, che sarebbe stata poi frenata e indirizzata nel corso della spedizione.
Solo in un caso anche il Biandrate redarguì mio fratello, quando questi cominciò ad ammiccare con sfrontatezza a una giovane, e i parenti se ne risentirono. Dopo uno scambio di battute con il conte, Azzone dovette chiedere scusa. Chiuso l'incidente uscì irato per la vergogna patita; seppi poi che aveva passato il resto della notte in detestabili compagnie.
Nemmeno noi dormimmo molto. Eravamo stati sistemati alcuni nel palazzo vescovile, altri nella cattedrale di Santa Maria Maggiore, stesi a terra nelle navate; avevamo dormito avvolti nei mantelli e nelle coperte da viaggio, mentre i militi e i servi si erano accontentati dei portici della basilica.
Al risveglio, mentre eravamo tutti indolenziti dal contatto con la dura pietra, venne il conte che sorridendo ci disse: - Questo è un primo assaggio della spedizione. Non crediate che sarà una passeggiata, dormiremo spesso all'addiaccio, perché non avremo tempo di alzare le tende. E ricordate che siamo pellegrini, oltre che soldati, e tutto andrà a beneficio delle nostre anime. -
All'alba assistemmo alla messa celebrata dall'arcivescovo davanti al suo palazzo, contornati da molti pii artigiani milanesi. La spedizione guidata dal Biandrate era formata oltre che da altri nobili e da vari suoi cavalieri, anche da persone di più bassa condizione, ma tutti armati a loro spese.
A quel proposito, Guido chiarì: - Non ho voluto marmaglia con me. Già mio padre e mio zio si sono lamentati di aver raccolto malviventi e gente senza né arte né parte, che poi si sono messi a saccheggiare qua e là, addirittura nel palazzo dell'Imperatore di Bisanzio, rendendoli tutti invisi e che, con il loro comportamento sconsiderato, sono anche stati la cagione della loro sconfitta. -
Si unirono anche uomini di altri feudi. Non chi partecipava alla spedizione di Re Corrado, che seguiva un altro itinerario, e che già si era messo in cammino per raggiungerlo, né a quella Francese, che sarebbe partita dopo un po' di tempo e cui si sarebbero uniti, probabilmente, Guglielmo di Monferrato, cognato del Biandrate, oltre al conte di Savoia. I vari corpi di spedizione si dovevano riunire solo a Costantinopoli.
Partivamo accompagnati dai migliori presagi: era marzo inoltrato, e nel cielo quasi sereno c'erano solo quelle nubi chiare che non portano pioggia; attorno a noi tutta la terra si risvegliava nella primavera: le gemme degli alberi si stavano schiudendo in verdi foglioline, e i campi erano coperti da una bassa pelugine che presagiva il futuro raccolto del grano; i lunghi filari a lato dei fiumi stavano passando dal loro grigio colore invernale a un verde leggero.
Procedevamo al passo o piccolo trotto, e la colonna era preceduta da uno stendardo bianco crociato di rosso, retto dal portacroce della chiesa di San Colombano, la cappella del castello di Biandrate, seguito da due sacerdoti sulle loro mule.
Dietro i cavalieri venivano i militi appiedati, e poi i carri con i servi e l'equipaggiamento.
Incuriositi e felici, gli abitanti delle campagne ci guardavano, si avvicinavano, ci ammiravano; c'era anche chi chiedeva di unirsi. Ogni tanto veniva accettato qualche cavaliere o ricco mercante, che fosse in grado di procurarsi una cavalcatura e delle armi, mentre si rimandavano indietro i popolani che erano chiamati a svolgere lì la loro battaglia.
Qualche volta venivamo affiancati da brigate con dame e cavalieri che ci accompagnavano per un tratto, anche per una giornata; era per essi un modo di partecipare al pellegrinaggio armato, e in tal modo beneficiavano di qualche indulgenza.
Qualche giorno dopo la partenza, incontrammo un gruppo di cavalieri toscani. Uno di questi era ammalato per una febbre che lo aveva colpito durante il viaggio e dovette trattenersi a Verona.
Fummo presi da ammirazione: aveva quasi sessant'anni, eppure rimpiangeva di non poter seguire la spedizione in Terrasanta. Pur febbricitante si teneva dritto sulla cavalcatura, e volle salutare tutti i cavalieri, uno per uno, benedicendoci.
Dimostrò per me una particolare benevolenza; mi disse che gli ricordavo il suo primogenito, morto di pestilenza l'anno prima. Volle regalarmi un suo giubbetto, con il colletto di vaio e ricamata la sua arme, sopra rossa con sotto tre cagnolini rampanti su smalto d'argento, colori che richiamavano i nostri. Si chiamava Vieri di Diotisalvi, aveva dimora a Castiglione vicino a Fiorenza. Rimase a Verona con dei servi e due compagni; gli altri vennero con noi, guidati da Cacciaguida degli Elisei.

Renato Delfiol

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