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Autore: Brunella
Il Dono della Guarigione
Romanzo
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Il Dono della Guarigione
Prima impari, poi fai, quindi insegni.

Maria Sole
Era una caldissima giornata di fine giugno. I campi di grano maturo erano del colore dell'oro, mari luccicanti increspati da onde dorate mosse dai rari venticelli che nelle giornate torride soffiavano sulle spighe ormai pronte per essere falciate portando una leggera frescura. La sera arrivava anelata da tutta la natura martoriata dal calore pomeridiano portando refrigerio e nuove energie.
Fu durante queste ore di ristoro che, come una leggera brezza, un'anima si apprestò a trovare il proprio corpo per entrare nella sua esperienza terrena. La mamma partorì di notte e senza grandi dolori una graziosa bimba dalla pelle bianchissima; il vagito della piccola da flebile si faceva man mano acuto e imperioso come il vento, che soffia dapprima silenziosamente e poi prendendo coraggio libera la sua energia, s'infuria e si abbatte scuotendo furiosamente le fronde degli alberi.
Fu chiamata Maria Sole in onore dell'astro adorato fin dall'antichità come fonte di vita, di bellezza e di calore. Fu scelto di anteporre il nome Maria perché a quei tempi non era permesso battezzare con nomi che non fossero sul calendario dei Santi cristiani; si evitavano quelli stranieri, di fantasia o di divinità pagane quali Sole, Luna, Terra o riferimenti ad animali. Chi meglio di Maria Vergine poteva compensare il nome scelto dai genitori?
Solare come la stella più luminosa e dolce come la Vergine, Maria Sole dormiva e mangiava crescendo sana e vispa. Le coliche dei primi mesi di vita, normali per i neonati, la indispettivano facendole emettere gridolini acuti che subito si trasformavano in grandi e immensi sorrisi, quasi a volersi scusare per aver preoccupato. Il padre orgoglioso la portava accoccolata sul cuore per farla addormentare sussurrandole dolci parole che sarebbero con il tempo diventati un loro esclusivo vocabolario e lei, cullata dal suono pacato e rassicurante della sua voce, socchiudeva gli occhi finché abbracciata dal sonno, sorridendo agli angeli che affollavano i suoi sogni, si assopiva appagata da una neonata vita così piena di amore.
Un'esistenza segnata nei primi mesi dal ritmo del sonno e del latte; istinti primordiali, eredità di tempi lontanissimi che ogni essere vivente ha impresso nella propria natura. Poi pian piano il tempo inesorabile trascorre, i ritmi cambiano, il sonno diventa più regolare, l'assunzione di cibo meno impellente, si scopre se stessi e il mondo intorno.
Maria Sole era serena, gioiosa e giocosa, imparava in fretta e sorrideva spesso circondata da un affetto di cui godeva appieno. Era una bimba minuta e snella dai capelli biondi e con grandi occhi di un azzurro intenso come il cielo d'estate. Occhi che mutavano tonalità al variare del tempo: se era sereno si facevano turchesi e se piovoso grigi come le nuvole, fino a colorarsi di viola nelle giornate di tempesta. Sgranava gli occhioni come abbaglianti nella notte e come la luce del faro buca il buio nel mare indicando la direzione alle navi, chi aveva davanti Maria Sole si sentiva scrutato e penetrato nell'animo fino agli abissi del proprio essere. Non tutti sapevano sostenere lo sguardo e sentendosi a disagio lo distoglievano, come quando si è colti in flagrante per una marachella e si guarda altrove per sviare l'attenzione. La medesima reazione di un uomo adulto avvicinato da un animale: la belva completamente immobile ferma i suoi occhi in quelli dell'uomo e quasi senza respirare resta in attesa di un cenno, un suono, un qualcosa. A volte l'uomo, distogliendo lo sguardo, si allontana con cautela; altre volte invece lasciando spazio al suo istinto violento scaccia l'animale battendo i piedi, le mani o peggio raccogliendo un sasso o un bastone da scagliare per allontanarlo. Reagisce o scappa per paura di essere attaccato perché non comprende le intenzioni dell'animale, teme una situazione di pericolo.
Per i bimbi è diverso, non sono ancora plasmati dalle regole della società civile, dai luoghi comuni, dalle convenzioni; non distolgono lo sguardo, anzi lo raccolgono come segno di amicizia, si fissano negli occhi e si riconoscono come esseri uguali. Un bimbo sorride e va incontro all'animale offrendogli amicizia e il più delle volte vediamo un cane scodinzolare, un gatto strusciarsi, una gallina razzolargli vicino, il cervo allontanarsi dolcemente, il serpente strisciare distante. Non scoppiano lotte né guerre: i due si vedono, si riconoscono, si salutano.
Lo sguardo è un incontro di anime.
C'è un saluto nepalese che si usa quando si incontra o si lascia qualcuno ed è namasté. Si uniscono le mani con le dita verso l'alto all'altezza del cuore e del mento, si fa un inchino appena accennato con il capo e si pronuncia namasté, che tradotto nella nostra lingua significa “io riconosco il divino che c'è in te”.
Due anime si incontrano e guardandosi negli occhi si riconoscono l'una nell'altra.
Nella nostra civiltà occidentale da adulti facilmente perdiamo il contatto con il nostro sé interiore, la capacità di entrare in empatia e di riconoscerci. Con mille paure, divisi e in competizione gli uni con gli altri alziamo muri e creiamo distanze infinite con il resto del mondo. Non ci salutiamo, non ci sorridiamo, guardiamo davanti o a terra assorti nei nostri innumerevoli problemi.
- È maleducazione fissare gli altri, non si fa! - veniva detto alla bimba perché si comportasse in modo conveniente e rispettoso con i grandi. Lei abbassava lo sguardo volgendolo altrove. Non capiva ma ubbidiva: lo aveva detto mamma e la sua parola non si discuteva.
Era una bimba solare e aveva innata la capacità di entrare in empatia con tutto il Creato: erano suoi amici gli animali, gli alberi, i prati, i fiori e le nuvole. A volte i genitori nelle giornate primaverili o nei caldi pomeriggi d'estate la trovavano sdraiata sull'erba del prato in fattoria a osservare il cielo. Non rispondeva ai richiami e restava assorta oltre l'orizzonte; i suoi occhi sgranati osservavano altri posti, altri mondi pieni di colori e luci. Con qualcuno di questi bagliori quasi ci parlava, si confidava.
Persa nell'azzurro del cielo, intorno a lei le galline raspavano, Sissi la capretta brucava, le papere disegnavano ghirigori tra le bianche nuvole starnazzando in cerca di una pozza d'acqua dove tuffarsi. L'inseparabile e fedele cane Robi sonnecchiava vicino sul prato a occhietti semiaperti, pronto a scattare come una molla a ogni mossa della sua amica.
Quando era ancora bambina per gran parte dell'anno le mattine erano dedicate al pollaio, insieme alla madre. Veniva aperto al mattino presto quando il gallo Ricò con il suo canto imperioso annunciava la nascita del nuovo giorno e le galline aspettavano concitate vicino alla porta pronte a uscire libere per una giornata di razzolamenti. Ricò era un superbo gallo dal piumaggio rosso con un'alta cresta carnosa, due lunghi bargigli e un'elegante e regale coda di penne nere; come un capofamiglia premuroso si occupava delle galline, attento che non si beccassero tra di loro e non cadessero in pericolo. Era frequente vedere Mango, dispettoso e curioso come ogni gatto, inseguito da Ricò ad ali spiegate con le penne arruffate nell'intento di farlo desistere dallo spaventare le sue protette. Mango fuggiva dal becco del gallo, che gli aveva lasciato diverse volte dolorose cicatrici, e trovava rifugio su di un alto ramo da dove osservava sornione sognando agguati e imboscate.
Nel mezzo di queste scenette mamma intanto rinnovava la paglia sulle assi dove le galline si appollaiavano, cambiava l'acqua dell'abbeveratoio con quella fresca e pulita e raccoglieva le uova deposte. Il pollaio così riassettato era pronto per riaccogliere i pennuti, che al calar del sole vi si riparavano stringendosi sulle assi per passare la notte sentendosi protetti e sicuri.
Terminato le faccende al pollaio mamma, con Maria Sole che trotterellava vicino a lei, passava nel frutteto e nell'orto per raccogliere la frutta matura e le verdure fresche. In primavera la bimba veniva coinvolta nella semina dell'orto; erano giorni di festa per lei, che seguiva i genitori calzando gli stivaletti di gomma rossi munita di una piccola zappa di legno costruita appositamente dal padre.
Era un rito che si ripeteva ogni anno e permetteva alla bimba di imparare il trascorrere del tempo e il ritmo della vita, l'orto e la zappa diventavano lo spartito sul quale la natura scriveva la sua musica. Una melodia gioiosa e giocosa nelle giornate di sole nelle quali i semi si scaldavano sotto la coltre di terra; poi rilassante durante le giornate di pioggia quando le piantine si abbeveravano e pian piano crescevano fino a diventare sempre più forti, sane e rigogliose.
Maria Sole assisteva a tutti questi cambiamenti: dal seme, al fiore, al frutto. Il mondo intorno a lei incessantemente, senza fretta, stagione dopo stagione, cambiava e si rinnovava riempendo ogni volta la sua anima di gioia, meraviglia e stupore.

Il mandorlo
Lo spettacolo che ogni anno aspettava con maggiore ansia era la fioritura del mandorlo in giardino. Era un albero maestoso e solitario ai piedi di una collinetta erbosa che nel pieno della fioritura ricordava una sposa all'altare in attesa del compagno. Bellissima ed emozionata, consapevole della propria fulgida e radiante bellezza, un poco altezzosa, orgogliosa dell'ammirazione che suscitava con il suo sfarzoso, vaporoso ed evanescente vestito di candido tulle.
Nelle giornate primaverili di sole i rami si allargavano nell'azzurro intenso del cielo e i fiori dalle corolle sfumate nelle diverse gradazioni del colore rosa brillavano come diamanti dalle mille sfaccettature irradiando luce tutt'attorno. Era difficile non esprimere meraviglia per chiunque vedesse l'albero fiorito; la natura nella sua magnificenza è in grado di proporre agli occhi umani una tanto variegata tavolozza di colori e loro sfumature.
I fiori della pianta del mandorlo sono i primi a sbocciare in primavera e per questo sono simbolo di speranza, oltre che di ritorno in vita dopo il lungo sonno invernale. Sfioriscono poco dopo essersi schiusi, perciò rappresentano anche la delicatezza e la fragilità della vita stessa.
Maria Sole sedeva solitaria e silenziosa di fronte al mandorlo. Lo ammirava, ascoltava il fruscio delle fronde al vento, il cinguettio degli uccellini accoccolati sugli esili rami, il ronzio incessante e frenetico delle api che svolazzavano da una corolla all'altra per raccogliere il prezioso polline.
Leggiadre e colorate farfalle posate delicatamente sui petali con il loro sbattere di ali sembravano salutare quella bimba totalmente immersa nell'energia che emanava dai tanti ospiti del giardino. Uno spettacolo impresso nella memoria di Maria Sole e che divenne negli anni a venire la sua ancora colorata nelle giornate buie e malinconiche: chiudeva gli occhi, ripescava il mandorlo vestito da sposa e la stessa energia di allora si diffondeva intorno a lei ricaricandola e illuminandola.

La famiglia
Era una famiglia povera. Il padre contadino e la madre casalinga vivevano dei prodotti della loro terra: orto, pollaio e giardino erano compiti esclusivi della mamma; vigna, frutteto e cantina di competenza del padre.
La vita era regolata dal ritmo delle stagioni. Si lavorava duramente tutto l'anno, ci si alzava all'alba e ci si coricava al tramonto. In primavera ed estate le giornate di luce erano lunghissime, il sole tramontava a tarda ora e la terra esigeva sudore e fatiche. L'inverno era più benevolo, i pomeriggi erano brevi e il buio serale arrivava presto. La terra dura e ghiacciata dalle temperature fredde non permetteva di essere toccata, quindi riposava e dormiva sotto spesse coltri di neve e gelo. Le serate invernali poi erano lunghe, si cenava al calar del sole riuniti davanti a un grande camino acceso che scoppiettando riscaldava e illuminava la stanza. Erano momenti di condivisone e intimità. Sulla tavola zuppe fumanti e profumate riscaldavano il corpo e l'anima.
Mamma aveva lavorato tutta estate per le conserve invernali, nulla era andato perduto. I frutti maturi in eccedenza avevano dato squisite marmellate per colazioni e merende, i pomodori erano conservati in salse e passate. I peperoni più carnosi e le melanzane più polpose affettati e messi sott'olio diventavano prelibatezze che rallegravano bolliti e arrosti nei pranzi delle giornate di festa. In tardo autunno le pere e le mele invernali erano poste in un locale apposito della casa sopra graticci di bambù. Noci, nocciole e mandorle erano conservate in capienti ceste di vimini. I grappoli di uva verdea – un particolare tipo di uva bianca che anche appassita si mangia volentieri – venivano adagiati in cassette di legno impilate l'una sopra l'altra; a Natale era tradizione mangiarne in quantità, si diceva portasse fortuna e prosperità per l'anno a venire. Si attingeva a queste scorte invernali di frutta durante il lungo inverno fino a tarda primavera, quando la natura avrebbe ricominciato a produrre nuove delizie.
Vicino agli scaffali delle frutta ordinati da etichette colorate erano conservati in vasetti di vetro i vari fiori essiccati che, a seconda della qualità, servivano ad alleviare certi tipi di malanno e per profumare la casa. La camomilla come infuso durante le lunghe sere d'inverno scaldava e rilassava gli animi così da prepararli a un buon sonno ristoratore. L'infuso dei fiori del tarassaco – detto “dente di cane” – con i quali mamma preparava, secondo una ricetta antichissima, un liquido dolcissimo della consistenza del miele alleviava gli acciacchi invernali: ai primi sintomi di tosse e raffreddore abbondanti cucchiaiate lenivano e ammorbidivano gola e bronchi. Le foglie di rosmarino, salvia e lauro essiccate al sole e tritate minuziosamente insaporivano le pietanze. Le foglie di menta e timo scaldate sulla stufa riempivano la stanza di un intenso e gradevole profumo dalle proprietà balsamiche.
Nelle fredde serate invernali per riscaldare il corpo e per la digestione papà si concedeva un goccetto di nocino. Un liquore preparato con il mallo delle noci raccolte rigorosamente, come voleva la tradizione, il 24 giugno giorno di san Giovanni e addizionato con alcool a novanta gradi, zucchero, cannella e scorza di limone. Il succo ottenuto, dopo vari travasi, veniva lasciato riposare in cantina al buio in bottiglie dal vetro scuro per l'intera estate ricavando un liquido dolce di color marrone. Non era permesso a Maria Sole assaggiarlo perché alcolico, ne poteva solo odorare l'intenso profumo di noci quando veniva versato nel bicchierino di cristallo: quello con il bordo dorato del “servizio bello”. Per tutti i giorni c'erano i bicchieri di vetro ma per un liquore tanto pregiato si dovevano usare i recipienti adatti.
Nei cassetti del comò nelle stanze, tra le pieghe delle lenzuola, coperte, copriletto, tovaglie e abbigliamento mamma riponeva, rinnovandoli ogni anno, sacchettini bianchi di lino contenenti foglie tritate di lavanda essiccata al sole che spandevano la delicata e persistente essenza a tutta la biancheria.
- La natura mette a disposizione per il benessere dell'uomo tutto ciò di cui ha bisogno - le ripeteva mamma.
Piante, spezie, fiori che Maria Sole imparava pian piano a riconoscere, pulire, essiccare e conservare con perizia, passione e amore.

Brunella

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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