L'uomo che non voleva morire.
Alle 16:32 del 30 marzo Mario Bellezza, 82 anni, morì. Era in buona salute e aveva terminato il pranzo della domenica. Aveva mangiato con buon appetito non ingozzandosi troppo ma senza rinunciare ad assaggiare ogni portata che moglie e nuore avevano preparato. Antipasti, vino rosso, ravioli al sugo di funghi, agnello con patate, torta, caffè e limoncello. Beh, forse aveva un po' esagerato ma gli accadeva soltanto in quell'unica domenica del mese in cui la sua famiglia si ricostituiva nel suo appartamento di via San Donato 70, secondo piano a Torino. Sazio, per nulla brillo, si era ritirato in camera, per un'oretta, dicendo a tutti i familiari di svegliarlo per le quattro per la consueta partitina a poker che si sarebbe protratta sino all'ora di cena. Tolte le scarpe si era disteso supino sul letto che condivideva con la moglie Teresa e, guardandosi l'alluce destro che spuntava dal calzino bucato, si era addormentato. Era subito arrivato un sogno sollecitato, forse, dai gridolini delle pronipotine che arrivavano sommessi sino nella camera in penombra per i pesanti tendaggi della finestra. Lo stridio dei freni dell'autobus che fermava proprio sotto la finestra era un rumore conosciuto ma gli fece aprire gli occhi brevemente e il cuore accelerò senza motivo. Smise di sognare. Il cuore cominciò a decelerare. Si addormentò profondamente. Sessanta battiti al minuto; il sonno era sempre più profondo. Cinquantadue battiti. Mario pose la mano destra sulla sinistra e tutte e due sullo sterno. Cominciò a russare in sordina, quasi non volesse disturbare Teresa che era di certo in cucina a rigovernare e conversare con gli altri. Il russamento si affievolì divenendo anche più raro, poi divenne un tremito inspiratorio convulso seguito da una lunga pausa di assenza di respiro. Quarantatre battiti. Il sonno era sempre più profondo. Riapparve un brevissimo sogno, quasi un lampo: Deborah e Yasmine, le pronipotine gemelle di tre anni, che allegre e canterine tentavano un girotondo ballerino attorno al bisnonno. Trentuno battiti, regolari, ritmici, quindi una salva di pulsazioni tutte insieme e poi venti battiti al minuto. Il cuore si fermò. “Giacomino, vai a svegliare tuo padre che sono già le quattro e mezza!” “Vado, mamma, ci siamo dimenticati di lui.” “Se dorme troppo sarà di cattivo umore per tutta la sera. E non fatelo perdere troppo a carte, poi.” Giacomino, il più anziano dei tre figli, aprì con cautela la porta della camera, dopo un breve bussare. “Papà, sveglia, il poker ci aspetta.” Papà non rispose e Giacomino girò attorno al letto per avvicinarsi al padre che occupava la parte vicino alla finestra del letto matrimoniale. Pensò: che sonno pesante. La debole luce della giornata nuvolosa non gli permetteva di vedere il pallore della pelle, il violetto delle labbra. Scosse la spalla del padre. Nulla. Si avvicinò alle tende e le aprì completamente. “Papà, forza che si fa tardi!” Nulla. Scosse la spalla più energicamente. Nulla, nessuna risposta. Corse alla porta, accese la luce del lampadario di vetro rosa sopra il letto e urlò: “Venite, presto, papà non si vuole svegliare!” Accorsero tutti o quasi tutti, almeno quelli che riuscirono ad entrare nella piccola camera: Teresa asciugandosi le mani con un panno, Betta, una delle nuore, con due bicchieri nelle mani, Battista, il più giovane dei figli, con in mano il mazzo di carte che stava rimescolando. Teresa si avvicinò al marito dalla sua parte del letto e allungandosi sulla coperta, la voce già tremante di preoccupazione, tentava di gridargli nell'orecchio: “Mario, che fai, svegliati, svegliati, Mario, Mario!” E con il panno gli scuoteva a destra e a sinistra il mento. Ma Mario non si svegliava. “Carla, togli la mamma di lì, che non posso avvicinarmi!” Disse Battista che si inginocchiò sul letto, le rotule a contatto del torace del padre, la mano destra che gli dava piccoli schiaffetti sulle guance. Ma Mario rimaneva fermo, si lasciava maneggiare la testa come quella di un burattino disarticolato. “Giacomì, papà non risponde, è livido, mi sembra quasi freddo! Che facciamo? Chiama un'ambulanza!” Teresa svenne e piombò a terra battendo forte la testa sul pavimento. Chi non era entrato nella camera si affacciava alla porta. “E portatela via questa donna! Carla, datti da fare, portala di là e dì a mia sorella di portarmi un asciugamano bagnato, dell'acqua fredda!” Patrizia, l'altra figlia di Mario Bellezza, giunse sulla scena immediatamente portando l'asciugamano e scavalcando la madre esanime sul pavimento. “Battista, papà è morto, sentigli il cuore!” disse Giacomino. “Morto?” Battista, sempre inginocchiato sul letto, appoggiò l'orecchio sinistro sul petto del padre premendo il più possibile la testa sulla maglia di lana e la camicia di flanella che impedivano di sentire i battiti che comunque, forse, non c'erano più. “Fate silenzio, voialtri, non riesco a sentire niente se parlate!” Giancarlo, il cognato, marito di Patrizia, si fece avanti. “Battì, sollevagli la camicia, poi ascolta se senti i battiti, senza camicia. Che senti?” “Niente, ma io non so, forse non so sentire. Prova tu.” “Non perdiamo tempo, devi massaggiarlo.” Incalzò Giancarlo. Battista appoggiò i palmi aperti sul petto del padre: uno sullo sterno, l'altro più in basso e cominciò a premere debolmente. Uno, due, tre... “Battì, più forte, devi metterci tutta la forza che puoi. L'ho visto in televisione.” “Allora fallo tu, dai!” “Badate bene, non voglio responsabilità... non è mio padre.” Giancarlo si appostò dall'altra parte, in piedi, al lato di Mario e di fronte a Battista. Iniziò a massaggiare con grande energia. Ma il cuore non ripartiva. Mario non voleva svegliarsi. Gocce di sudore cadevano dalla fronte del forzuto cognato e andavano a raccogliersi nell'incavo del torace di Mario compreso tra le mani di Giancarlo. Un fischio stentato e innaturale, quasi un lamento viscerale, usciva dalla bocca durante ogni compressione. Finalmente uscì anche una parte del pranzo, liquido e vinaccioso, dal naso, a spruzzi ritmici. Giancarlo si interruppe per un breve momento e affibbiò con tutta la forza del suo braccio destro un pugno violento nel mezzo del torace del vecchio. “Giancà, ma che fai?” “Ho visto che si fa anche questo... a volte serve!” Rispose Giancà che, tutto sudato e con il volto teso e determinato, aveva ripreso a massaggiare vigorosamente il cuore del suocero. La rete metallica emetteva cigolii lamentosi, il materasso seguiva il ritmo ballando su e giù senza sincronia con il corpo di Mario che sembrava sollevarsi dal copriletto. Il Cristo, appeso sopra la testiera del letto, seguiva la scena ad occhi chiusi, senza entusiasmarsi, senza incoraggiare Giancarlo, lasciava fare. Dalla finestra, che Battista aveva aperta, questa volta giunse il suono della sirena dell'ambulanza: rumore di freni, vociare di gente, suoni di attrezzi che venivano scaricati. Tre soccorritori, arrivati in casa dall'ospedale vicinissimo, si chinarono sul divano damascato del salotto dove era stata sdraiata Teresa che stava riavendosi e si teneva il capo tra le mani e emetteva lugubri mugolii. Tutti e tre indossavano larghe tutte rigide arancioni contornate da ampie strisce bianche riflettenti. “Non è lei che sta male, di là, di là, in quella camera là, c'è mio padre che sta morendo!” Disse loro Patrizia. I soccorritori rivolsero alle tre donne sguardi perplessi e imbarazzati, poi l'infermiere entrò nella camera e si avvicinò al letto ordinando a Giancarlo di spostarsi e chiedendo al volontario della Croce Rossa il monitor defibrillatore. “Anni?” “Ottantadue!” Risposero in coro i due figli. “Patologie... malattie?” “Nessuna... Che io sappia.” Rispose Battista. “C'è il polso, piccolo ma c'è.” Disse l'infermiere che aveva appoggiato le piastre per defibrillare sul petto di Mario. “E c'è anche attività elettrica... non ritmica, ma c'è. Fammi vedere se satura... ottantasette con novantacinque battiti... che è successo?” Fu Giacomino a rispondere. “Niente, non si svegliava, abbiamo provato con gli schiaffi, con l'acqua fredda e poi lo abbiamo massaggiato... massaggio cardiaco... se si chiama così. Giancà gli ha dato anche un pugnone in mezzo al petto.” “Prendeva medicine? Per la pressione, bene, dateci la scatola. Alfredo e Giustino, portate su la barella che ce lo portiamo via prima che abbia un'altra crisi.” “Dove lo portate?” “Al San Carlo, qui a due passi. Voi passate al Pronto Soccorso e vi diranno in che reparto lo ricoverano. Datemi solo il suo codice fiscale... ve lo restituiscono al PS. Se siete così gentili da darci una mano per le scale... in questo ascensore non c'entra.” Dal poggiolo le pronipotine Deborah e Yasmine guardavano le manovre dei soccorritori che caricavano il bisnonno Mario in ambulanza.
Riccardo Piana
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