L'arma sacra.
La notte fuori era immobile, in attesa del sorgere del sole. La luna era al suo culmine e illuminava il selciato e le abitazioni silenziose colpendole con fredde frecce bianco latte. Da lontano proveniva ancora il baccano della festa, il vociare confuso degli abitanti della città che quella notte non dormivano, non riposavano. Melbor era già in groppa a Moon e scrutava attentamente la strada dinanzi a sé, senza badare ai suoi compagni che preparavano i loro cavalli. Una volta che furono in sella, senza dire una parola, lanciò Moon al galoppo. Dopo poche decine di minuti attraversarono le porte della città. Il sole mandava i suoi primi bagliori a est, colorando le nuvole di un rosa pallido; il giovane cavaliere non rallentò, né si voltò, mantenendo lo sguardo dritto di fronte a sé. L'aria frizzante del mattino gli accarezzava il viso, la ritrovata sensazione di libertà gli sollevava l'anima. Moon, sentendo nuovamente il fresco tocco dell'erba morbida sotto agli zoccoli, emise un nitrito gioioso mentre il paesaggio già gli scorreva rapidamente accanto e le bianche mura di Windfall diventavano sempre più piccole, sempre più lontane. Kantor e Ygrid rimasero affascinati dall'incantevole panorama che si apriva dinanzi ai loro occhi: il sole, che acquisiva sempre più forza a ogni minuto che passava, ora illuminava le cime delle lontane montagne a nord. A Ygrid erano sempre parse irraggiungibili, lo sfondo di una vita racchiusa tra le mura di una città, ma ora che il vento le scompigliava i capelli, ora che l'elegante potenza di un cavallo la portava lontano, si accendeva in lei una consapevolezza nuova, una forza latente, una voce che le diceva “ora sei libera, l'unico confine alle tue azioni è la tua stessa volontà”. In una manciata di giorni la sua vita era cambiata radicalmente e l'aveva resa una principessa in fuga dalle sue responsabilità. Ma questo, mentre i raggi riflessi dall'acqua agitata del mare le ballavano sul viso tingendolo di tutti i colori, non le importava. Le uniche cose che contavano erano i suoi compagni, il cavallo e la direzione da prendere; anche se erano molte le preoccupazioni che le ingombravano i pensieri, nonostante gli innumerevoli misteri di cui non era ancora venuta a capo, sebbene avrebbe voluto risolvere l'espressione cupa che continuava ad aleggiare sul viso di Melbor, in quel momento nulla importava, perché si trovava esattamente dove desiderava stare, esattamente con la persona con cui voleva essere. Anche per Kantor la visione di quello spettacolo richiamò pensieri lontani, che nella sua lunga giovinezza aveva cercato di dimenticare. Da quella parte, in quello sconfinato pezzo di terra ricco di cocuzzoli e anfratti, neve e animali feroci, in quel luogo ancora selvaggio, inespugnato, in cui le tenebre erano più oscure e il sole coperto dalle alte vette, lui era nato. Quelle montagne nascondevano la verità che lui stesso aveva tentato di celarsi per tutta la vita, scappando dalle sue origini, dal mistero della sua nascita, dall'innaturale evento che lo aveva lasciato solo al mondo, pezzo di un puzzle già completo con i lati che non combaciavano. Un'umana e un orco si erano amati, questo era tutto ciò che sapeva, e da quell'amore era nato lui, né pane né burro, solo al mondo. Suo padre, probabilmente, viveva ancora tra quelle montagne, ma lui non aveva alcuna intenzione di verificarlo; gli orchi erano rinomati per la loro crudeltà. Non che questo gli facesse paura, ma temeva che conoscerlo sarebbe stato più doloroso di una vita senza origini, senza una storia. Si costrinse a guardare altrove, a Ovest, verso gli alti alberi della foresta, o dinanzi a lui, dove le colline si aprivano al loro passo rivelando la strada che li attendeva. Solo dopo un paio d'ore Melbor rallentò il passo, attendendo che i suoi compagni lo raggiungessero. Dal suo viso era scomparsa l'espressione angosciata e Ygrid ne fu molto sollevata. - Fermiamoci un attimo per mangiare e riposare - disse sorridendo. Kantor estrasse dalla bisaccia del suo cavallo tre delle porzioni consegnategli da Rector e le ripose sul prato. Ognuna conteneva un timballo di carne e della birra. Estrasse anche la borraccia d'acqua, considerando l'ora troppo mattutina per la bevanda alcolica. Il cavaliere diede da bere ai cavalli e poi li lasciò pascolare liberamente. Finito di mangiare, il mezz'orco sistemò ciò che era rimasto nella sua bisaccia; la principessa, invece, prese il tomo della nonna e si sedette a gambe incrociate per leggere. Il giovane era vicino a lei, steso comodamente sul prato con un braccio posato sugli occhi per ripararli dal sole. Nonostante la notte di veglia nessuno di loro aveva sonno; Melbor e Ygrid avevano dormito per quasi tre giorni di fila mentre Kantor, essendo per metà orco, non aveva bisogno di dormire quanto gli umani; semplicemente riposarono, lasciandosi cullare dall'avvolgente tepore del sole mattutino. Una leggera brezza spirava da est portando con sé il salmastro odore del mare. I tre cavalli, ora che erano liberi dai propri cavalieri, poterono conoscersi da pari; a intervalli regolari emettevano nitriti gioiosi, giocando nell'erba alta. Dopo poco, senza alcun preavviso, Ygrid iniziò a leggere un tratto dello scritto di Dana, e attraverso la sua voce la vecchia principessa riprese vita:
Dana, ancora ragazzina, percorreva i lunghi corridoi e le vaste stanze del castello seguendo Erbert; quei corridoi conosciuti, quelle sale che erano state la sua casa, erano divenute irriconoscibili ora che il buio e la paura le colmavano totalmente. Erano un labirinto intricato e oscuro, appena rischiarato dalla torcia della guardia che procedeva spedita dinanzi a lei, fermandosi solo alcuni attimi per assicurarsi che nessuno si nascondesse dietro agli angoli o alle svolte. Da lontano riecheggiava il rumore freddo dell'acciaio, le urla strozzate dei feriti, l'ira furiosa dei rivoltosi. La testa di Dana girava forte e la giovane era costretta ad appoggiarsi ai muri e ai mobili intagliati a mano per reggersi e riuscire a seguire Erbert, l'unica sua ancora di salvezza in quel mare di oscurità. Un brivido potente l'attraversò ridestandola da quel torpore quando l'uomo si buttò su di lei con forza, sbattendola contro il muro senza troppe cerimonie e posandole una mano sulla bocca. Dana non vide e non sentì l'uomo che a pochi metri di distanza infilzava con la spada una delle guardie del suo contingente. Non vide e non sentì nulla; la paura le faceva tremare le gambe, le bagnava la pelle di sudore, le rattrappiva i sensi. L'uomo, fortunatamente, non li vide. La guardia tolse la mano sinistra dalla bocca di Dana, la destra dall'elsa della spada. Ripartì. Quando giunsero fuori dal castello la principessa cadde in ginocchio sull'erba bagnata dalla rugiada; vomitò, pianse, gemette. Il soldato scrutava il buio, cercando di capire quale fosse la strada migliore per andarsene da lì. La città era invasa dai rivoltosi e dal rumore della battaglia, ma, fortunatamente, il suo grado era abbastanza alto da permettergli di conoscere il passaggio segreto che dall'armeria portava direttamente all'esterno della città. Si avvicinò a Dana cercando di farla rialzare, ma la ragazza non si mosse; fissò invece l'uomo con intensità, con quegli occhi che rilucevano anche al buio, solo bagnati dalle lacrime. - Dov'è mio padre? - . - Vi aspetta fuori dalle mura - rispose sbrigativamente la guardia. - Voglio la verità! - La sua voce era un grido rotto dal pianto e dal fiato corto. Erbert la osservò attentamente per qualche secondo; le sue lacrime riflettevano la candida luce lunare, gli occhi brillavano di vita propria. Si scusò, ma la principessa non ne capì il motivo, dopodiché l'uomo alzò un braccio al cielo. Il colpo fu secco e violento, preciso, e la ragazza cadde a terra senza più parole. Il buio le attanagliò il cuore e la mente, i suoi occhi si spensero. Quando si svegliò il sole era già alto nel cielo. Da principio non riuscì a ricordare cosa fosse accaduto, ma man mano che il suo cervello usciva dal labirinto in cui s'era perso, gli avvenimenti della sera precedente riaffioravano come bolle d'aria sott'acqua. La testa le doleva come non aveva mai fatto e una strana sensazione le provocava la nausea; le sembrava di dondolare ritmicamente, come se si trovasse su un'altalena. Aprì gli occhi, ma il sole la accecò oscurandole la vista. Riusciva a intravedere soltanto un'ombra scura dinanzi a sé. Attese che i secondi divenissero minuti, che gli occhi si abituassero alla luce, che i ricordi terminassero di riaffiorare. Attimo dopo attimo capì che quell'ondeggiare ritmico era il passo di un cavallo sul quale era stata stesa e che l'ombra che vedeva dinanzi a sé in realtà era Erbert, che guidava l'animale tenendolo per le briglie. Con lentezza si mise a sedere sul cavallo; ora che i suoi occhi erano aperti e non più accecati dal potente sole di un mezzogiorno torrido, si accorse che il paesaggio che le si presentava davanti era tutt'altro che familiare. Colline in ogni direzione, verdi e tondeggianti. Tutto ciò che rimaneva di Windfall e della sua vita non era altro che un minuscolo pallino bianco in riva all'immenso mare, così lontano da essere indistinguibile. - Finalmente vi siete svegliata, principessa - . L'uomo si voltò e la osservò. - Dove mi state portando? - . Dana era spaventata. Erbert era l'uomo che le era stato più vicino di tutti a corte, persino più vicino di suo padre e di tutti i ragazzi della città alta ed era stato per lei un amico e un confidente, ma ora che l'aveva colpita, ora che l'aveva portata via dalla sua casa, lontano dalla sua vita, ora che si trovavano soli dinanzi alla vastità del mondo, sentiva di aver paura di lui. Nonostante la giovane età sapeva bene che l'animo umano è facilmente corruttibile e adattabile alle situazioni; eppure l'uomo le diede una risposta così semplice da essere inaspettata, da lasciarla spiazzata, una risposta capace di spezzare le sue paure. - Al sicuro, principessa - . Per alcuni secondi tacquero entrambi, poi fu lui stesso a riprendere la parola. - Mi dispiace di avervi colpito, ma non mi avreste mai seguito altrimenti e rischiavamo di essere catturati - . - Mio padre è morto quindi - . Le parole le uscirono con una semplicità spiazzante, come se avesse già digerito la notizia. - Il re è morto. - rispose mestamente Erbert. Aveva fermato il cavallo e s'era voltato verso la ragazza per guardarla dritto negli occhi, ma non trovò l'espressione che si aspettava. La principessa scrutò l'orizzonte dinanzi a sé. Non disse alcuna parola, ma si rese conto che non le importava; non le importava perché il padre era morto diversi anni prima, quando sua madre l'aveva abbandonato e da allora era divenuto soltanto l'ombra di sé stesso, nulla più che un pezzo di carne in attesa di marcire. Ygrid smise di leggere. Alcune lacrime avevano rigato il suo viso. - Una storia molto triste - disse Kantor, cercando di ridestare la principessa dai pensieri infelici. Ella lo osservò con occhi languidi, ancora bagnati dall'acqua salmastra della tristezza. Si asciugò con la manica della veste e sorrise. Melbor osservò la scena, ormai tranquillo, consapevole che ciò che aveva vissuto era stato soltanto un sogno a cui dare l'importanza, appunto, di un sogno. - È ora di andare! - Il cavaliere si alzò allegramente dal prato. La ragazza chiuse il tomo e si alzò andando verso il suo cavallo, ora più tranquilla; il mezz'orco fece lo stesso. Prima di ripartire Melbor aiutò la principessa a riposizionare la pesante sella sul suo destriero; le mani dei due si sfiorarono più volte e loro si sorrisero a ogni tocco. Kantor osservò la scena da lontano, ridendo silenziosamente dei loro buffi comportamenti. Poi, una volta che furono tutti in sella, ripartirono con un'andatura più tranquilla, in direzione nord-ovest, verso la capitale.
Christian Martinelli
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