Le indagini del Vicario di Giustizia Jacopo Lamberti
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A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire Guglielmo di Ockham.
Bologna, 10 novembre 1325, tre ore dopo il tramonto
Il brillio nel buio. Poi i fendenti lo pugnalarono, rapidi e implacabili, dall'alto verso il basso. L'uomo non ebbe il tempo di capire, perso nei suoi desideri. Percepiva ancora il contatto con la pelle calda della donna appartata assieme a lui nel vicolo, la coscia morbida di lei che l'attraeva a sé, in piedi contro al muro.
Non poté reagire e fu sopraffatto dalla consapevolezza di andare incontro alla morte.
L'assassino gli piombò addosso feroce, mandandolo a sbattere contro la parete alle sue spalle. Lo bloccò di peso, poi si accanì su di lui. Il primo colpo al petto che quasi non sentì per la sorpresa, e a seguire gli altri, che gli passarono le carni da parte a parte, imbrattando i vestiti di sangue.
L'uomo scosse la testa serrando i denti per la paura, si dimenò tentando di sottrarsi alla lama che lo trafiggeva ma era tardi.
Una mano gli tappò la bocca, impedendogli di gridare.
Alzò le braccia, senza riuscire a ripararsi dai colpi che lo raggiunsero lo stesso, identici e spietati; annaspò e poté solo aggrapparsi a chi lo uccideva. Dalla sua bocca sfuggì un gemito rauco. Nell'ultimo tentativo di liberarsi, scalciò l'aria prima di crollare indietro, il busto squarciato.
Il sangue fluì caldo sul selciato. I topi fuggirono veloci nella nebbia che si addensava in lingue più fosche; lontano un ubriaco dormiva storto all'incrocio della via.
L'omicida osservò la sua vittima, la bocca spalancata, le pupille dilatate, lo sguardo fisso nel vuoto. Piegò la testa di lato, inalando l'aria fredda e umida.
Non era nessuno, e nessuno ne avrebbe pianto di certo la scomparsa.
Sospirò. La stanchezza sembrò calare tutta d'un tratto.
Ogni volta era così. Prima un'esaltazione febbrile che esplodeva, raggiungendo l'apice. Poi le pulsazioni a poco a poco si placavano e il respiro tornava normale.
Avvertiva la voglia di tornare a casa; tuttavia mancava ancora qualcosa per ritenere conclusa la sua missione.
Prese il morto per le braccia e lo trascinò in fondo alla strada, i talloni che strisciavano sul terreno. Non vi erano luci a rischiarare il vicolo e notarlo sarebbe stato arduo, se non impossibile.
Incurante delle condizioni in cui versava il cadavere, si chinò e l'evirò di netto, quindi prese l'organo reciso e lo ripose in una scarsella di cuoio che teneva sotto al vestito.
Soddisfatta la brama di vendetta, si piegò di nuovo sul morto e si pulì le mani sporche di sangue sulla sua camicia. Si tolse la cappa e la rovesciò per nascondere ogni traccia, poi sistemò l'abito sgualcito e tirò sulla testa il cappuccio, stringendosi nel mantello come colto da un brivido.
Con calma, la testa senza più pensieri, s'avviò verso il centro della città. Nel volgere di pochi passi la sua sagoma intabarrata svanì, inghiottita dalle tenebre.
11 novembre, presso Porta Stiera, prima mattina
Steso sul lettino nel magazzino della spezieria, Jacopo Lamberti lasciò scorrere lo sguardo sulle mensole cariche di recipienti smaltati in terracotta, colmi di erbe medicinali ed essenze profumate.
A giudicare dall'ordine e il lindore che regnavano fino negli angoli più reconditi, l'attività del suo amico, Niccolò Garzoni, doveva essere alquanto redditizia. Probabilmente una delle più redditizie in città dopo quella dei banchieri e degli usurai.
Lasciò che lo speziale finisse di visitarlo, quindi si tirò su a sedere: — Allora, che cosa ho?
Ancora l'impensieriva il senso di malessere, delle fitte minacciose e acute vicine allo sterno, che l'aveva spinto a chiedere un consulto.
Niccolò gli fece cenno di rimettersi la camicia: — Per il tuo problema è difficile fornire un responso esauriente.
Mentre si infilava la camicia, dal corpo sagomato e le maniche strette sull'avambraccio, un senso di angoscia lo assalì ancora. Non era la paura di morire a spaventarlo ma il dolore che avrebbe dovuto sopportare.
— Non potresti essere più preciso?
Lo speziale lo fissò, scuotendo il capo. — D'accordo, ci proverò. I dolori che avverti fanno pensare a un disturbo al cuore, tuttavia sei piuttosto giovane per soffrire di questi fastidi che di norma si presentano più avanti con gli anni.
L'interruppe: — Non mi stupirei. Sai che sono sempre stato un tipo precoce, un po' in tutto.
— Certo, è vero. Ti conosco da quando pigliavamo le bacchettate dallo stesso maestro, non ti sei mai smentito.
Jacopo rise divertito, ripensando a quel periodo privo di obblighi e responsabilità. Com'era cambiata la sua vita da allora.
— In qualsiasi modo — aggiunse Niccolò cercando di apparire tranquillizzante, — non mi fascerei la testa troppo presto. Altre cause possono spiegare gli acciacchi. Potrebbero dipendere dall'eccessiva stanchezza e dagli strapazzi cui ti sottoponi di continuo. Il tuo lavoro di sbirro non è il massimo per la salute, in tutti i sensi.
Jacopo distolse lo sguardo, per non cogliere il biasimo che covava nell'espressione bonaria dell'amico. Di nuovo la sua attenzione si posò sui boccali, le bilance, le spatole, i mortai e i torchi che troneggiavano sul bancone da lavoro alle spalle di Niccolò.
Se non avesse avuto un carattere così ostinato, magari si sarebbe accontentato anche lui di fare quel mestiere, con dovizia e competenza, amalgamando unguenti e composti per alleviare i dolori.
Ma erano altre le sofferenze sulle quali aveva scelto di intervenire. E quotidianamente era immerso in mali assai più mortiferi, mali che scaturivano dal cattivo animo degli uomini.
Come lo speziale usava le mani cuocendo e distillando composti, allo stesso modo lui sporcava mente e corpo con le peggiori sozzure del mondo.
Niccolò incrociò le braccia. Era piccolo e mingherlino ma dietro a quell'aspetto ordinario nascondeva una mente formidabile.
Lo speziale restò a fissarlo, tamburellando le dita della mano destra sul braccio opposto, in maniera pensosa. Poi si decise a parlare: — Allora, cosa hai intenzione di fare?
— In che senso? Non ti capisco.
— A mio avviso, qui non servono impacchi o bagni in acqua calda e fredda. Magari una soluzione ce l'avrei però dovresti seguirla.
Jacopo si decise a guardarlo in faccia.
Avvertiva una stanchezza atroce, ma non capiva se dipendesse dalle membra provate o dall'affaticamento interiore che la vita ogni giorno di più gli riservava.
Era un fardello oneroso da portare, soprattutto per chi come lui non aveva nessuno con cui condividerlo.
— Quale sarebbe il rimedio? — chiese, raccogliendo quel briciolo di energie che gli erano rimaste. Muovendosi aveva avvertito una nuova fitta pugnalarlo al petto. Un po' meno acuta delle precedenti ma ugualmente dolorosa.
— Guarda che non scherzo. Se non ti decidi a curarti, rischi di lasciarci davvero la ghirba. Non sei solo pallido, hai proprio un brutto aspetto.
— Lascia stare, ti preoccupi troppo.
— E tu sembra che non ti riguardi abbastanza. Hai un bisogno assoluto di riposo. Di notte riesci a dormire?
Jacopo lo guardò quasi scherzasse. Non ricordava più il tempo che aveva dormito un'intera notte di fila. C'erano sempre gli incubi a tormentarlo, nascosti dietro le palpebre che grondavano sangue appena si posava sul letto tentando di dormire, o prendeva sonno appoggiato da qualche parte.
Scosse la testa, rassegnato.
— Posso darti qualche erba calmante per farti riposare. Ho degli infusi che fanno miracoli.
— Nel mio caso ne servirebbe uno parecchio potente.
— Così mi piaci. Aspetta un istante.
Lo speziale si diresse a uno stipo di legno. Impiegando una piccola chiave che teneva al collo, l'aprì. Poi, con la perizia di chi sa quello che gli occorre, estrasse una fialetta contenente un liquido denso e giallastro, del tutto simile a un liquore.
— Ecco qua — disse Niccolò porgendoglielo con aria dottorale. — Però non eccedere con la dose, se no potresti non risvegliarti più. Prendine massimo sei gocce sciolte in un bicchiere d'acqua prima di coricarti.
Jacopo girò la fiala rimirandola di sbieco in controluce poi la stappò. Il preparato aveva un odore zuccherino che invogliava a berlo d'un fiato ma preferì sigillarlo di nuovo.
— Grazie, Niccolò — disse, assestandogli una pacca affettuosa sulla spalla. — Non so che farei senza di te. Sei un vero amico.
— Già, anche perché non mi pare che tu ne abbia molti — disse lo speziale sorridendo della sua stessa battuta.
— Hai ragione, col mio mestiere non è facile stringere legami duraturi. La diffidenza è troppa. Quando scoprono che cosa faccio, tutti tirano a evitarmi. Persino gli osti e le puttane.
— Manco fossi il boia! — sbottò Niccolò cordiale. Ma lasciò perdere quando intuì che non riusciva a smuovergli una risata.
La campanella fissata alla porta della bottega tintinnò, poi una voce raschiante urlò: — Messer Lamberti! Messer Lamberti!
Jacopo scattò in piedi, dimentico di ogni acciacco: — Sono qui! — Volgendosi all'amico, lo rassicurò: — È uno dei miei. Prima di uscire avevo lasciato detto dove mi sarei recato.
Lo speziale annuì. D'un tratto parve preoccupato, più per lui che per se stesso.
Un bargellino entrò a passo di carica nel retrobottega. Indossava una cotta di cuoio, un elmo e in cintura portava una spada corta. Sulla sua faccia, un'espressione trafelata, per niente simulata.
— Messer Jacopo, domine Fulgerio reclama la vostra presenza!
In quei mesi così travagliati per il Comune, rammentò Jacopo, Fulgerio il forlivese era stato nominato al grado di Capitano del Popolo per il suo piglio di parte guelfa.
— Dove si trova adesso?
— L'attende con urgenza al Palazzo.
— Cosa è successo?
— Ne hanno trovato un altro.
Jacopo avvertì un brivido di gelo solcargli la schiena, penetrandogli nelle ossa. Una scudisciata alle sue migliori intenzioni di dedicarsi qualche riguardo.
— Stesso trattamento degli altri?
— Lo stesso.
— Precedimi. Di' a domine Fulgerio che arrivo subito.
Il bargello recepì l'ordine senza discutere e si dileguò, animato dalla foga, come quando era giunto.
Jacopo riconsegnò la fialetta nelle mani di Niccolò.
— Conservamela per dopo, verrò a riprenderla appena mi sarà concessa un po' di tregua.
Lo speziale accettò di riprendere l'ampolla in custodia ma levò l'indice con aria perentoria: — Rammenta ciò che ho detto. Riguardati, o sarà peggio per te!
Jacopo provò per lui un moto di simpatia: — Ti voglio bene. — E prima di andare lo baciò sulla fronte di sfuggita.
Stesso giorno, Palazzo del Capitano del Popolo
Jacopo esaminò il cadavere denudato sul tavolaccio di legno. Assieme a un paio di militi, era chiuso in una gelida stanzetta del Palazzo, adiacente alla scalinata che saliva al piano principale.
Vita schifosa, imprecò tra sé, strofinandosi le braccia con energia per procurarsi un minimo di calore. Forse era colpa del mattino nebbioso o della compagnia ma lì faceva più freddo che altrove.
Domine Fulgerio aveva comandato che il morto fosse sottratto alla vista dei curiosi, per non alimentare ulteriori allarmi; tuttavia, sapeva che il segreto non sarebbe durato a lungo. Le notizie viaggiavano in fretta di bocca in bocca, quando si trattava di fatti tanto gravi.
Girando attorno al corpo dello sconosciuto, ghermito dall'artiglio impietoso della morte, si interrogò ancora una volta sulla brutalità e la macabra inventiva dell'uomo nel recare male ai suoi simili. Era il quarto corpo straziato che rinvenivano nel volgere di pochi giorni. Non comprendeva che cosa stesse accadendo.
Bologna non aveva mai conosciuto una ferocia simile.
L'assassino aveva ucciso la sua vittima infliggendole numerose coltellate. Qua e là si scorgevano escoriazioni e graffi; un pallido tentativo di difesa. Eppure appariva poca cosa rispetto allo scempio che aveva davanti.
I colpi erano stati inflitti frontalmente.
Di conseguenza l'uomo, prima di soccombere, doveva aver visto l'aggressore, ma fino all'ultimo l'aveva come... ignorato.
Perché non aveva provato a fuggire? In una situazione di pericolo era la reazione normale. Un colpo, almeno uno, l'avrebbe dovuto raggiungere alla schiena. Invece no, tutti davanti e sul petto. A parte lo scempio che scorgeva subito sotto la cintura.
Lì l'assassino — o forse gli assassini, nemmeno ne era certo — aveva infierito platealmente, recidendo l'organo distintivo di ogni maschio. Come aveva rimarcato domine Fulgerio con una delle sue battute pesanti, erano spariti “i gioielli di famiglia”.
In effetti, malgrado le ricerche, chi si era preso la briga di quel lavoro sporco li aveva presi con sé o era stato molto bravo a farli scomparire, poiché non ne era stata rinvenuta traccia.
Ma a che scopo? Forse erano stati sottratti per pratiche di stregoneria nera? Si narravano storie atroci al riguardo, eppure il fatto non lo convinceva pienamente. I suoi studi di Medicina, interrotti, e i ragionamenti appresi dai filosofi greci l'inducevano a diffidare delle oscure spiegazioni che erano state messe in campo.
Guardò i militi, che preferivano tenere gli occhi bassi.
Maghi e fattucchiere erano spauracchi sventolati ogni qualvolta accadessero fatti cruenti e inspiegabili. Sebbene il popolo, assai suggestionabile, si bevesse quelle fandonie, a lui suonavano stonate come una campana fessa.
Acquartierati per il momento quei pensieri truci, tornò a concentrarsi sul volto cereo del cadavere, come se da un minuto all'altro potesse di nuovo alzarsi e mettersi seduto, per rispondere alle sue domande.
Avrebbe indagato, avrebbe scoperto chi fosse, tuttavia una cosa era certa: il macabro rituale era toccato anche ad altri. All'inizio c'era stato Ferrante Bortolini, venditore di stoffe, Enrico Sansoni, ceraiolo e ancora prima Guglielmo Adimari, un cambiavalute piuttosto noto in città.
Gente stimata e rispettata, per chi ne aveva denunciato la scomparsa, poi li aveva riconosciuti; tuttavia, erano stati trovati a braghe calate, sorpresi in giro a notte tarda.
Qual era il nesso che univa quelle morti?
Chiedendo in giro pareva che i tre non si conoscessero. Anche i posti in cui erano avvenuti gli omicidi risultavano lontani tra loro. Eppure... Eppure, la maniera di procedere di chi li aveva uccisi era la stessa. Prima li aveva attirati in un luogo fuori mano dove poteva agire indisturbato, poi li aveva trucidati senza che nessuno sentisse o vedesse.
Per quanto si fosse prodigato battendo in lungo e largo i luoghi dove erano stati compiuti i delitti, non era stato in grado di raccogliere uno straccio di testimonianza.
Aveva torchiato a dovere le sue spie che si muovevano nei rioni poveri della città, tra delinquenti, ruffiani e donne di malaffare ma tutti erano caduti dalle nuvole.
Per di più, alle vittime non era stato sottratto niente.
Quella brutta storia non aveva senso e ogni ipotesi era plausibile.
Ne aveva discusso perfino con Niccolò per ottenere un consiglio. Neppure lui era stato in grado di aiutarlo.
Ce n'era abbastanza per dare credito a chi riteneva che i delitti fossero opera del diavolo o di chi agiva per lui.
Il Podestà in persona, stretto dai poteri forti e neanche tanto occulti che aspiravano al controllo della città, aveva avanzato l'ipotesi nel corso di un incontro riservato con il Capitano del Popolo e i magistrati.
Il cardinale aveva annunziato processioni e penitenze pubbliche però era chiaro che si trattava di un tentativo per riportare il controllo del Comune sotto al giogo ecclesiale; d'altronde la Chiesa, ove per difetto di forze non arrivava con la spada temporale, tentava col laccio spirituale.
Il Podestà era intenzionato a non scivolare nel tranello prestando il fianco ad attacchi che puntavano a insidiare il governo della città.
Per togliere esca alle manovre cardinalizie aveva fatto fuoco e fiamme pretendendo si arrestasse ogni seguace del Maligno. Dopo un avvio a dire poco tumultuoso, presto ci si era trovati con un pugno di mosche e senza appigli, solo con qualche vecchia invasata o qualche ardito imbroglione che vantava di possedere poteri arcani.
Qualche notte al fresco e la minaccia di sane sevizie li avevano fatti rinsavire. Anche perché, posti dinnanzi alla pena, erano stati i primi a confessare l'imbroglio: un tratto di corda e la vista delle pinze arroventate avevano il potere di far parlare anche i muti.
Jacopo scosse la testa, scrutando i bargelli. Sotto i loro usberghi sembravano come ammutoliti.
Non era il momento giusto per quelle cose e certuni lo prendevano come segno di malaugurio; con i problemi che il Comune attraversava, la situazione era già ingarbugliata abbastanza. La città era impegnata in una faida sanguinosa e implacabile con Modena. Una lotta che tra alti e bassi si trascinava da sempre, senza una chiara e definitiva vittoria di una delle parti.
Come se gli avesse letto nella mente, il milite alla sua destra, un tipo alto e ossuto, dai capelli color paglia, sbottò deciso: — Sento puzza di tradimento. Qui c'è lo zampino di quei dannati ghibellini!
Poi si volse verso di lui, fissandolo, come per ottenere conferma alla sua intuizione improvvisa.
Jacopo si strinse nelle spalle: — Cosa vuoi che ti dica? Come idea non è poi così assurda.
I ghibellini, accaniti rivali del Papa, erano stati espulsi a più riprese, i loro beni confiscati o distrutti e molti di essi avevano trovato protezione nel duca di Modena, Passerino Bonacolsi, giurando vendetta.
In seguito il Papa, Giovanni XXII, aveva aggiunto del suo, dichiarando eretico Passerino, e nei suoi confronti era stata bandita una crociata. Bologna ne aveva approfittato, ponendo mano alle armi, e durante l'estate aveva invaso e saccheggiato le terre modenesi.
Passerino non era stato a guardare. Riuniti attorno a sé parecchi alleati a fine settembre era passato al contrattacco marciando sul castello di Monteveglio posto sui confini, e l'aveva occupato.
Le truppe petroniane erano uscite in massa, per dargli l'assedio e riprenderlo senza riuscirvi, col risultato che ora tutti erano sul chi vive e la situazione era in stallo.
Jacopo tornò a posare lo sguardo sul morto, non senza una punta di rispetto: la sua condizione, un domani, poteva essere la sua. Sperava il più tardi possibile, si augurava in altre circostanze, ma la sostanza cambiava di poco.
Il freddo del pavimento saliva alle gambe, attraverso i piedi intirizziti, facendogli rimpiangere di non avere avuto indosso calzature più pesanti. L'uomo steso sul tavolaccio, invece, non aveva più quei problemi.
La carne, tesa dai primi gonfiori interni che iniziavano a manifestarsi pareva avere la consistenza levigata e rigida della pietra. Qua e là spiccavano i fori slabbrati delle ferite come corolle avvizzite sulla pelle appena violacea.
Con un dito, Jacopo andò a esplorarne il contorno.
Poi si accostò al volto, per annusarlo. Percepì una nota sfumata di colore, appena intuibile all'olfatto, come di una fragranza femminile.
A giudicare dall'odore anche buona. Forse costosa.
Quell'elemento estraneo però non aggiungeva niente.
Il morto era stato trovato a braghe calate. Al massimo, la scoperta poteva solo confermare i gusti del trapassato.
Trapassato, in ogni senso: come gli venivano in mente quelle battute? Forse, era l'influsso di domine Fulgerio. Di recente lo frequentava troppo.
Uno dei militi tossì e lui rialzò lo sguardo. I bargellini lo guardavano con una strana espressione dipinta in faccia.
— Tranquilli — li rassicurò, cogliendo il biancore che dalle pareti pareva riverberarsi sui loro volti. — Non sono uscito di senno.
Ebbe comunque la netta impressione che l'episodio si sarebbe presto aggiunto al novero di storielle sul suo conto. Tempo addietro aveva sentito alcuni piantoni farsi beffe di lui convinti di non esser uditi. La cosa gli aveva fatto male, peggio che un pugno allo stomaco.
Di scatto si raddrizzò sulla schiena in modo deciso.
I militi chinarono il capo attendendo una reprimenda.
Invece lui esitò, pensoso: — Ecco, stava per rivelarmi il nome di chi l'ha ucciso ma l'avete interrotto.
I bargellini si guardarono a vicenda, confusi.
A quel punto, dovevano essere certi della sua follia.
Francesco Grimandi
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