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Autore: Mimosa da Vinci
Oltre il padre
Romanzo
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Oltre il padre
Piatto n. 1

- Si prepari, signor Scandella. È molto probabile che, con il passare degli anni, lei non sia più in grado di camminare - .
Bam! Un colpo tremendo per Marco Scandella, cinquant'anni, agente immobiliare in Milano, una vita dedicata al lavoro e alla cura del figlio disabile.
Stava lì, in piedi, immobile, nello studio del luminare svizzero a cui si era rivolto come in un estremo viaggio della speranza. Il professore lo guardava senza provare alcuna emozione, accennando l'intenzione di accomiatarsi velocemente.
- Appena avremo i risultati delle analisi, le prescriverò un farmaco di nuova generazione che dovrebbe rallentare il decorso della malattia. Se tutto va bene, le restano ancora diversi anni di vita autonoma. Non si abbatta - . aggiunse in tono distaccato.
- Dovrebbe... - - Se... -
Marco non aveva studiato molto; non aveva dimestichezza con la grammatica e non sempre comprendeva le sfumature di significato che si nascondono in un verbo. Quel - dovrebbe - e quel - se - lo facevano sentire insicuro. - E, se non dovrebbe andare bene? Andrea, Luisa, senza di me... - pensava percorrendo con lo sguardo le nude pareti color ghiaccio della stanza.
Mi sembra di vederlo. Le lacrime che gli rigano le gote e si fanno strada attraverso la barba fino a raggiungere il mento per andare a scivolare sulla morbida sciarpa di cachemire, simbolo di un benessere lungamente agognato e ormai superfluo.
Un profondo scoramento unito a quel senso di impotenza di fronte all'ineluttabilità degli eventi che gli apparteneva da sempre, abbassava gli angoli esterni dei suoi occhi facendoli congiungere alle due rughe verticali che gli scavavano le guance smagrite.
Silenzio e lacrime. Nient'altro che silenzio e lacrime.
Marco avrebbe voluto reagire, lo so. Ma non ci riusciva, schiacciato dal peso di una condanna senza possibilità di appello. Senza un amico con cui condividere lo strazio.
La vita era sempre stata avara di amicizia con lui, soprattutto da quando si era trasferito in città tramutandosi suo malgrado in uno sradicato rampante, privo di agganci e certezze che puntellassero la sua instabilità.
Se me l'avesse chiesto, l'avrei accompagnato volentieri. Ma non l'ha fatto. D'altronde, sono così poco presentabile... Nessuno si porterebbe appresso un barbone come me.
Sì, sono un barbone. Sono quel vecchio sudamericano di nome Jesús che ogni giorno chiedeva l'elemosina accanto all'agenzia di Marco. Ci conoscevamo da molti anni. Sapevo tutto di lui e della sua famiglia. Marco non aveva amici con cui confidarsi e io lo ascoltavo pazientemente in cambio di un buon pasto. In fondo, costo molto meno di uno strizzacervelli e, forse, conosco meglio l'animo umano. Il mio status di vecchio-nullatenente-senza dimora mi permette di dire sempre ciò che penso senza subirne le conseguenze. - Pover'uomo - , dicono, - chissà quante ne ha passate - . Oppure: - ma dove andrà a dormire quando fa freddo? - E così via con i luoghi comuni e le frasi fatte. Non sanno che i prossimi potrebbero essere loro. La ruota gira per tutti.

E la ruota di Marco avrebbe subito un'accelerazione imprevista.

Piatto n. 2

Ne era passato di tempo da quel piovoso lunedì di aprile in cui Marco aveva lasciato le valli bergamasche per cercare la sua strada nella grande Milano.
Dal micro al macro, dalla verde e autoreferenziale provincia alla grigia e insondabile metropoli. Una sorta di viaggio iniziatico nell'elefantiasi di ignote geografie.
Milano: una città-rizoma in continuo moltiplicarsi. Dal ventre della metropolitana al naso dei grattacieli genera infinite connessioni attive in ogni direzione. È un luogo fisico in cui stringere un patto mentale tra passato e presente, tra ciò che è stato, ed è giocoforza immutabile, e ciò che deve ancora essere, pensiero informe da plasmare. Tra il valligiano lombardo sceso alla conquista di nuove terre e la città-mulino che tutto macina e trasforma.
Milano: una città con un simbolo misterioso. Il biscione.
Fin da piccolo, Marco aveva guardato a questa sorta di mostro con in bocca un uomo spinto da ammirazione e paura insieme. Sui libri di scuola aveva letto la leggenda del nobile Ottone Visconti che durante una crociata aveva vinto in duello un cavaliere saraceno il cui scudo recava l'emblema di quell'enorme rettile. Anche lui voleva compiere qualcosa di importante, un giorno. Qualcosa di cui andare fiero. Qualcosa che non poteva ancora definire neppure con l'immaginazione, simile a una lunga traversata da cui tornare sapendo di tabacco e spezie esotiche. Marco-bambino non conosceva la vera meta del suo peregrinare: vincere la paura di subire la vita ed esserne inghiottito. Un viaggio senza un punto rosso sulla mappa.
La prima grande prova sarebbe stata andarsene dal paese nativo, suo e dei genitori, la cui economia ruotava tutta intorno all'acqua minerale, insipida alternativa alla bassa terra.
La ditta Acqua Limpida, infatti, dava lavoro a quasi tutto il villaggio. Il proprietario, il perfido signor Busnaghi, era considerato alla stregua di un odiatissimo, moderno, feudatario.
Per tutta la durata della sua vita lavorativa, quaranta lunghissimi anni, Rino, il padre di Marco, era stato il fido autista del titolare. Sempre a disposizione, a qualsiasi ora, tutti i giorni, domenica compresa. Non si lamentava mai, non gli era permesso. Anzi, si reputava più fortunato dei suoi colleghi addetti agli impianti di imbottigliamento, costretti a turni di lavoro massacranti, al gelo in inverno e al caldo in estate.
Quando, una freddissima sera di dicembre, il signor Busnaghi tuonò al telefono: - Dai, Rino, preparati. Non sarai mica già a letto? Devi portarmi dalla Rosina. Ti aspetto davanti al cancello. Muoviti - . il povero Rino si vestì in fretta e, senza proferir parola, uscì di casa e corse nella neve fino alla rimessa di casa Busnaghi, mise in moto la Bentley e accompagnò l'attempato padrone dalla sua giovane amante; lo aspettò in auto per il tempo necessario e, finalmente, poté tornare a casa sua.
L'accoglienza che ricevette non fu delle più calorose. La moglie cominciò a insultarlo, a dirgli che non sapeva farsi rispettare. - Anche a puttane devi portarlo, quel vecchio schifoso - . gridava. Continuò su quel tono per un bel po' pur essendo cosciente dell'inutilità di berciare contro un ometto esile, geneticamente privo di grinta, stanco e infreddolito, che non aveva né la forza né la voglia di reagire. Rino era assuefatto anche a questo.
Il figlioletto Marco, infagottato in un vecchio pigiama di varie misure più grande, stava dietro la porta della sua camera ad ascoltare, in silenzio. Detestava quelle urla, detestava vedere suo padre umiliato, incapace di dare una risposta, e anche quando tutto era finito, ormai non riusciva più ad addormentarsi. Continuava a sentire nelle orecchie il suono della voce davvero poco materna di sua madre, quelle invettive senza fine che facevano di Rino il perenne capro espiatorio della sua cronica insoddisfazione. Marco si rigirava nel freddo del suo letto finché il sonno non si impadroniva di lui, offrendogli una tregua alle guerriglie domestiche serali prima di affrontare quelle mattutine a scuola.
Il - figlio del servo del Busnaghi - : così lo chiamavano i compagni di classe. Lui ne soffriva, ma faceva finta di niente e, a capo chino, entrava in classe ogni giorno. Sempre a capo chino, come suo padre.
La scuola si trovava a poche decine di metri da casa, il che permetteva al ragazzo di alzarsi un po' più tardi dei suoi compagni, vantaggio che gli facevano regolarmente scontare con le continue prese in giro a cui non sapeva sottrarsi. Nonostante facesse del suo meglio per attraversare indenne l'infanzia, Marco veniva spesso travolto dalle fragorose risate di scherno dei coetanei.
Come la volta del bosco dei druidi.
Poco fuori dal paese si trovava un boschetto di abeti, raggiungibile percorrendo una stretta mulattiera. Era la stagione delle fragoline e Marco si era avviato a piedi con l'intenzione di raccoglierne un cestino pieno che sua madre avrebbe poi trasformato in una deliziosa marmellata. Arrivato a metà sentiero, all'altezza di un grande masso piatto da sempre denominato - l'altare dei druidi - in memoria dei trascorsi celtici delle valli bergamasche, il bambino scorse tra gli alberi delle figure bianche, incappucciate e disposte in cerchio, e sentì una voce provenire da lontano: - Ehi, piccolo servo. Dico a te! -
Atterrito, il cuore in gola per la paura, Marco farfugliò con un filo di voce: - Cos'ho fatto di male? - - Hai raccolto i frutti del bosco incantato e ora i folletti sono adirati perché hai sottratto il loro cibo - .
Marco non era neanche in grado di correre via per quanto gli tremavano le gambe.
- Ma io non sapevo... Non volevo... Oddio... Lascio qui il cestino con tutte le fragole, va bene? Non ne ho mangiata neanche una, giuro - .
- E' troppo tardi. Chiudi gli occhi e non muoverti - .
Marco era terrorizzato. Aveva sentito raccontare dai vecchi contadini del paese tante storie sul bosco e i suoi misteriosi abitanti, ma non avrebbe mai pensato di trovarvisi coinvolto. - Aiuto! E ora cosa mi accadrà? - diceva tra sé e sé in attesa della sentenza, con il cuore che gli scoppiava nel petto. Perché una condanna non poteva non arrivare...
Trascorsi pochi, angoscianti secondi, il sibilo di tanti fili d'erba tenuti tesi tra i pollici e fatti risuonare soffiandoci sopra annunciò il verdetto. Sempre a occhi chiusi e immobile, Marco percepiva l'avvicinarsi di un forte odore frequente in campagna, ma non osava fare domande.
- Fai sette passi avanti e mettiti in ginocchio - . gli intimò la voce.
Marco obbedì e in un istante si ritrovò carponi su un mucchio di letame ancora tiepido. Allora riaprì di scatto gli occhi e vide i suoi - amici - di scuola, che nel frattempo si erano tolti i paramenti da druidi, in cerchio attorno a lui a sbeffeggiarlo senza pietà.
Quando rientrò a casa, piangente e imbrattato di escrementi, sua madre ci mise del suo.
- Guarda come ti hanno conciato. Sporco da far schifo! Sei proprio un boccalone uguale a tuo padre. Ma ti pare che gli spiriti del bosco, che non so neanche se ci sono davvero, vanno dietro a un ragazzino come te? Corri subito a lavarti prima che perdo la pazienza! -
Fortunatamente per Marco, la donna utilizzò l'affilatissimo coltello che teneva in mano per sminuzzare la carne e gli altri ingredienti della cena, forse immaginando di avere tra le mani i crudeli aguzzini del figlio.
Però, bisogna ammetterlo: era proprio una gran cuoca. Marco lo diceva spesso parlando di lei.
E quella sera, per consolarlo alla sua maniera, preparò dei meravigliosi "casonsei", la cui ricetta originale viene tramandata ai posteri per mezzo di questo scritto, come avrebbe voluto il figlio per onorare la sua memoria.

Mimosa da Vinci

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