“Allora sei diventato uno importante” dico per schernirlo. “Diciamo che mi sono fatto un nome e una reputazione, almeno qui a Parigi.” Si passa una mano fra i capelli, imbarazzato. “È mercoledì prossimo, magari potresti venire anche tu a farti un giro.” “Mi piacerebbe, ma riparto già dopodomani. Non sono riuscita a prendermi più giorni di ferie al lavoro, abbiamo una consegna importante e non mi sono potuta assentare più di tanto.” Appare rattristato. “Ho capito.” “Comunque sono contenta per te, davvero. Questo era il tuo sogno.” “Già, era il mio sogno.” Si concede un lungo sorso di vino. “A dirla tutta, non sono poi così soddisfatto. Non è che mi lamenti, ma...quando siamo giovani desideriamo con tutto il cuore delle cose, illudendoci che ci assicureranno la felicità, e quando poi crescendo le otteniamo non siamo felici come avremmo voluto essere.” “Forse perché siamo troppo ambiziosi” dico, giocherellando con la forchetta nel piatto quasi vuoto. “Non ci basta raggiungere un traguardo che ne vogliamo subito un altro, e un altro ancora, e non ci accontentiamo mai. Siamo così proiettati in avanti, verso il futuro, che non riusciamo a vedere quanto di buono abbiamo davanti agli occhi.” Mi prende la mano sul tavolo e me la stringe brevemente, incrociando il mio sguardo. “Tu sei felice? Sei soddisfatta?” chiede senza mezzi termini. “Cosa vuoi che ti dica, Martin – la felicità è un po' complicata da quantificare, da definire.” “Hai capito cosa intendo.” Certo che l'ho capito. Quando sono andata via da lui, da Parigi, avevo il cuore in mille pezzi e mi sentivo morire, più di quando ero arrivata qui in Francia, scappando da casa mia. Credevo che non mi sarei mai più ripresa da quel dolore, che non sarei più stata la stessa – e in effetti è stato così. “Più o meno sì, sono felice” rispondo. “Se non altro ho imparato a farmi bastare quello che ho e a goderne più che posso.” Ci gustiamo il silenzio del locale semivuoto, soli io e lui, mentre dagli altoparlanti si diffonde un gradevole sottofondo di piano jazz che stona con la malinconia che ci ha presi, entrambi. Vorrei dirgli tante cose, chiedere cosa sono stati per lui tutti questi anni, se qualche volta sono tornata nei suoi pensieri o nei suoi sogni, ma il suo sguardo color smeraldo, incupito da un velo di tristezza che non gli avevo mai visto, mi fa scordare le parole. È solo la voce del ristoratore, che ci chiede se le pietanze sono state di nostro gradimento e se vogliamo mangiare qualcos'altro, che mi riporta con i piedi per terra. Ordiniamo una coppia di eclair con la crema ai pistacchi e due bicchierini di amaro solo per il gusto di stare ancora un po' seduti insieme, occhi negli occhi, come quando eravamo ragazzi, e affidare ai nostri sguardi tutto quello che le parole non riescono a dire.
Quando usciamo dal locale, il vento si è fatto ancora più gelido e sferzante. Martin si solleva il bavero del cappotto e si stringe più stretta la sciarpa attorno al collo prima di nascondere le mani nelle tasche, trattenendo a stento un brivido. “Fa troppo freddo” dice. “Forse non è il caso di starcene in strada.” “Hai ragione.” Tuttavia non sono ancora pronta a dirgli addio. Ho voglia di stare ancora un po' con lui. “Ti spiace accompagnarmi almeno alla metropolitana? Il mio albergo è a Rue de Fourcy.” “Nessun problema. Credo che prenderò la metro anche io, non mi va di camminare con questo vento.” Per istinto infilo la mano nell'incavo del suo braccio, come ho fatto mille volte, stringendomi a lui per sentire meno freddo e per assaporare il suo calore e la sua fisicità che tanto mi erano mancati. La mia intraprendenza lo fa sussultare ma non si ritira a quel contatto inatteso – anzi si avvicina ancora di più a me, se possibile. Camminiamo in silenzio, nessuno dei due che abbia il coraggio di emettere un fiato e rovinare tutto, e sono io a schiarirmi la voce e a prendere la parola quando entriamo in stazione. “Credo che le nostre strade si dividano qui” dico. “Buonanotte, Martin. Grazie di tutto – della cena, della compagnia...mi ha fatto piacere rivederti.” “Anche a me, fragolina. Non speravo che ci saremmo mai più incontrati.” Un sorriso amaro mi distende le labbra. Non posso lasciarmi andare alle lacrime, non adesso. “Addio.” Mi sono già voltata in direzione dei tornelli quando lui mi chiama, di nuovo, e mi afferra per un polso. Le sue dita sono fredde a contatto con la mia pelle. Mi volto lentamente a guardarlo, illuminato dall'aura lattiginosa dei neon. Dannazione, è bello come allora. “Aspetta Margherita, io...” Allunga una mano a sfiorarmi il viso, il suo tocco leggero eppure devastante, in grado di fermarmi il cuore nel petto. “Cristo Santo, io vorrei baciarti.” La sua voce è un sussurro attutito dal rumore della metro in arrivo che stento quasi a comprendere. “Lo vorrei proprio tanto – è da quando ti ho vista sotto casa che non penso ad altro.” Anche io, mentre eravamo a cena, mi sono ritrovata a indugiare con lo sguardo sulle sue labbra invitanti, cercando di ricordare che sapore avessero, e sulle sue dita affusolate, immaginandone i percorsi che avrebbero tracciato sulla mia pelle. Per tutto il tempo l'ho desiderato, ed è stata una lotta con me stessa per trattenermi dal toccarlo, dall'accarezzarlo, dall'unire la mia bocca alla sua – e mi sono data della patetica a sperare che anche lui provasse per me quella stessa attrazione quasi dolorosa che stavo provando per lui. Ora la sua confessione cambia tutto. Crollano le apparenze, crollano i modi cordiali e affabili dietro cui ci siamo nascosti finora per mascherare il nostro vero turbamento, crollano tutte le buone intenzioni di non lasciarci andare. Ci siamo solo io e lui. Annuisco e tremo mentre appoggia le labbra sulle mie, incurante delle persone attorno a noi che raggiungono in fretta le scale mobili per arrivare fuori. All'inizio è un bacio cauto, esplorativo, per testare le acque. Vuole capire se davvero ci sto, o se sta facendo la più colossale sciocchezza della vita. Continuo a ripetermi che posso scegliere, che in qualsiasi momento posso allontanarlo e dirgli che quella di baciarmi è stata una pessima idea, ma sto mentendo a me stessa. Non ho scelta – il suo sapore, il suo odore sulla mia pelle, le sue mani fra i miei capelli – sono sensazioni che mi sono mancate come l'aria, nonostante tutti i miei sforzi per convincermi che potevo farne a meno. Quante volte ho sognato di poterlo baciare ancora, anche solo un'ultima volta, e tutte le volte, mi sono ritrovata a piangere lacrime amare per ciò che avevo perduto. Per questo rispondo al suo bacio con intensità, con una passione che per troppo tempo ho provato a tenere sotterrata nel mio cuore. “Resta da me stanotte, ti prego. Non sopporterei l'idea di saperti qui, a Parigi, e di non averti nel mio letto.” “È solo sesso?” chiedo con un filo di voce. “No. Lo sai che non lo è.”
Il viaggio in metro è silenzioso – soltanto fugaci incontri dei nostri sguardi tradiscono la passione che stiamo cercando di tenere a freno, solo perché siamo in presenza degli occhi indiscreti dei pochi avventori della metro. Finalmente mi sento viva, desiderata alla follia e a mia volta vibrante di desiderio. Nessun uomo mi ha mai fatto sentire così, inquieta come una belva pronta a scattare all'assalto. Quando rientriamo a casa però, tutto il fuoco che ci aveva avviluppati prima, in strada, pare essersi sopito. Martin si sfila il cappotto, la voluminosa sciarpa di lana, e sistema tutto in ordine sull'attaccapanni accanto alla porta, invitandomi a fare lo stesso. Lentamente si avvicina a me e riprende da dove ci eravamo interrotti, ma stavolta i suoi movimenti, i suoi baci, sono misurati e studiati – quasi si fosse pentito della sua irruenza, prima, e ora non volesse lasciarsi troppo andare. Sono io a prendere in mano la situazione, a insinuare le dita al di sotto dei suoi vestiti e a cercare il contatto con la sua pelle calda, a spogliarmi davanti a lui senza vergogna, senza timore di mostrare i segni che il tempo ha lasciato sul mio corpo non più giovane come lui ricordava. Martin mi lascia fare, sorridendo della mia audacia, chiudendo gli occhi e sussultando ogni volta che le mie labbra assaporano la sua pelle o che i miei denti gli lasciano addosso il segno di un morso. Solo dopo molto tempo prende coraggio e le sue carezze si fanno più intrepide, più passionali, più eccitanti. Mi prende per mano e mi porta in camera da letto, lasciando i nostri vestiti ammonticchiati sul divano rosso. Nella penombra della stanza, illuminata solo da un'abatjour, faccio caso a una chiazza scura sul suo avambraccio destro – una cicatrice o forse uno sfogo che non ricordavo. “Che cos'hai combinato qui?” gli chiedo incuriosita. Impiega qualche secondo prima di capire di cosa sto parlando. “Ah, questo. È un tatuaggio...l'ho fatto qualche anno fa.” “Ti sei fatto un tatuaggio?!” Non immaginavo fosse il tipo da fare queste cose. “Voglio vederlo.” A tentoni cerco l'interruttore del lampadario sulla parete alle mie spalle e per poco non ho un tuffo al cuore. È una piccola fragola rossa. Di fronte alla mia espressione inebetita fa spallucce. “Le ho provate tutte, credimi, ma non sono riuscito a dimenticarti.” D'impulso lo abbraccio forte, per nascondere il mio turbamento – in quella macchia d'inchiostro è impressa tutta la nostra vita insieme, nel bene e nel male. Mi lascio cadere sul letto, trascinandolo con me, senza smettere di baciarlo, e finalmente facciamo l'amore.
Sabrina Del Fico
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