Ogni giorno, dal lunedì al sabato, mi sveglio esattamente alle sei e mezza. A volte, mi alzo dal letto poco prima che suoni la sveglia. Salto giù e infilo le infradito per il mio turno di cinque minuti in bagno. Una sequenza precisa. Prima mamma, che si sveglia alle sei e ha bisogno di più tempo per i capelli e il trucco, poi io che uso il rubinetto della doccia come la rotellina di una cassaforte, cercando la combinazione esatta per l'acqua tiepida, papà che si fa la barba la sera prima ed esita per un minuto prima di decidersi ad entrare e star dieci secondi sotto l'acqua gelata, e infine la pipì mattutina obbligatoria di nonna, di competenza della mamma. Nonna è svagata, se ne dimentica. Mamma perde più tempo a convincerla che a fargliela fare. Come coi bambini. - Noi stiamo uscendo, mamma, e lei resta sola fino a pranzo - . - Non la devo fare, ti dissi - . - Avanti, per favore - . - Strega! - . Mamma è segretaria in una scuola e se ne intende di bambini e di pipì, per aver cominciato da bidella in un asilo. Alle sette meno dieci sono in macchina con lei e con papà. Alle sette e cinque, mi danno una carezza, un bacio, e mi lasciano alla fermata. Se hanno litigato, mamma mi dice: - Filippo, fatti dare un bacio da papà - . Prendo l'autobus, pressato dalla folla come carne nella gelatina della Simmenthal, fingo di non sentire la puzza di sudore e alle otto sono in classe. Ho cambiato scuola. All'Artistico, mi hanno accolto benissimo. Ma mi guardano in modo diverso, da quando hanno saputo che vivo allo Zen al quadrato: lo chiamo così per dire della potenza del quartiere, o forse solo per farmelo calare. Ma qui serve più dell'arte dello Zen per sopravvivere. Fingere di essere altrove, di non avere niente da difendere, non pensare nulla di nulla.
L'altro ieri ho consegnato gli otto disegni del compito a casa, scelti tra dieci temi. Paesaggio. Ritratto dal vero. Volti. Corpi. Realismo. Astrattismo. Città. Campagna. Passato. Futuro. La professoressa ci tiene. Passa per i banchi con la sigaretta accesa e posa il tubo di cartone coi disegni dinanzi ad ognuno di noi. Ad alta voce, recita il voto e il giudizio. Dieci. - Superbo - . Sei. - Puoi migliorare - . Due. - Che ci sei venuto a fare? - . Nove. - Bravissimo - . Cinque. - Continua così e ti boccio - . Quando si ferma davanti a me, la professoressa sibila tra i denti guasti di nicotina: - Senza voto. Ti potrei mettere da zero a dieci. Devo capire che ci hai in testa, prima. Che cosa hai pensato di fare? L'hai capita la differenza tra realismo e astrattismo? Sei un genio o un cretino? - . Poi, dà un tiro alla sigaretta, fischiando e sfiatando come un palloncino sgonfio. Tutti aprono il tubo per leggere le osservazioni sul retro dei disegni. Io esito a togliere il tappo e ad estrarre i cartoncini arrotolati, sotto il peso dello sguardo di Giampiero, curioso dei miei lavori. Quando la professoressa va oltre, allontanando da noi il suo alito mefitico, non sa se consolarmi o farmi i complimenti. Non vuole compromettersi.
Paesaggio. Attraverso le colonne sulle quali poggiano le case dello Zen al quadrato, ho dipinto un campo brullo e popolato da vecchi che non sanno dove andare e ragazzini che sfrecciano sui vespini e fantasmi di vecchi feudi e contadini, la strada di confine solcata da automobili velocissime per paura di chissà che cosa, una foresta nascosta dal filo spinato delle case di fronte. Acquerello su carta satinata. Colori: nero, viola, marrone, rosso, bianco. Ritratto dal vero. Due uomini sugli scalini. Fumano entrambi. Uno, abbronzato, il volto corrugato di un limone secco e gli occhi stretti, ha le braccia muscolose di un pugile e quasi ottant'anni d'età. L'altro deve averne una quarantina. Magro come un chiodo. Basso e il vi so raggrinzito come una melanzana andata a male. Il primo non ha paura di nessuno. Il secondo guarda per terra. Contesto, appena accennato. Tecnica: matita grassa e pastelli a cera su foglio ruvido. Volti. Mia nonna, mentre dorme. La ragnatela sul viso. Mio padre la osserva. Ha smesso di sorridere, da quando ci siamo trasferiti. La sua bocca carnosa è contratta nervosamente. Mia madre, di profilo, s'affaccia alla finestra, i gomiti poggiati sulla balaustra, e smarrisce gli occhi azzurri nel vuoto. Il mio vicino di casa, silenzioso come la madre, capelli neri di ebano, ricci come una castagna di qualche parte dell'Africa e sfuggente come il padre, bianco e coi suoi stessi occhi furbi. Francesco è il solo che guardi verso di me. Lo ritraggo con una matita grassa, mediamente appuntita e sfumata coi polpastrelli su cartoncino. Corpi. Il mio. Lo stomaco asciutto. La pelle senza un pelo. Le gambe lunghe e robuste. La minchia. Ogni singola venatura rigonfia, ogni fascia muscolare in rilievo, come in un disegno di Leonardo da Vinci, in una prova della sua maniera. I piedi sono scarnificati. Si distinguono intrecci muscolari e singole nervature. Un'autopsia in vita. Nero. Inchiostro di china su carta semiruvida. Realismo. Uno studio anatomico su una mano che impugna un pennello. Il sangue cola da una ferita da taglio che lacera il palmo e scopre i muscoli. Frammenti di uno specchio, per terra, nel sangue che cola dalla ferita. Il taglio si riflette su quel che resta dello specchio e sul sangue per terra. Acrilico su carta lucida. Astrattismo. Iperrealistica riproduzione di una pagina del libro di testo al capitolo 13, Tecniche e riconoscibilità del disegno antinaturalistico. L'inchiostro abbandona i singoli caratteri, allaga la pagina e cola oltre il bordo in una lacrima densa di china, fendendo la carta e il cartoncino della copertina. Se ne intuisce la corrosività. Per terra, s'incanala nei solchi che disegnano l'uomo vitruviano. China su carta satinata. Città. Una lunga fila di camion porta via gli alberi e fa spazio alle ruspe che riempiono di calce liquida ogni buca ritratta in sezione. Le fondamenta dello Zen al quadrato crescono come alberi di cemento e delle grandi gru poggiano sui rami i cubi del nuovo quartiere. I nuovi abitanti arrivano stipati tra mobili e vestiti in grandi casse monofamiliari. Dei carrelli elevatori le portano a destinazione, le posizionano e degli addetti le riaprono. Fumetti. Colorati a pennarello su carta satinata. Campagna. Castello San Pietro. Gli alberi portati via dallo Zen al quadrato vengono piantati intorno alle case del quartiere, sulla linea dell'antica muraglia del Castello: le cortecce riquadrate con una lama a simulare le pietre, le chiome potate come torri, le radici aggruppate come ponti gettati oltre le mura. L'erbaccia copre uniformemente quel che resta delle palazzine demolite e sfama gli animali al pascolo. Tecnica impressionistica. Olio su tela.
Giampiero osserva ogni cosa a lungo. Avvicina i disegni ai suoi occhiali da talpa. Poi, legge i giudizi, maniacali, privi di empatia, e mi guarda. Con due puntini dietro le lenti sporche e un'espressione interrogativa. Non risponde al dubbio della professoressa: se quel lavoro sia un punto di vista o un azzardo del tutto inconsapevole, realtà o fantasia. Vorrei dirgli che non c'è alcuna differenza, in quelle zone di confine dove non c'è più campagna e non c'è ancora una città. Le frequenti esplorazioni del mio Zen al quadrato hanno lasciato degli schizzi disperati su quaderni e bloc-notes: i tetti collegati tra di loro, l'intrico di scale e cortili che salgono e scendono, proprio come se Escher avesse usato le sue fantasie per progettare il quartiere e farne un luogo magico, se non fosse per l'odore di marcio e di piscio, per la luce scarsa e per i sotterranei proibiti dominio di pochi e delle bande di ragazzini. Ho continuato a girare in lungo e in largo finché quei ragazzini non hanno cominciato a ronzarmi intorno, pure quelli che mi conoscevano, e a guardarmi con sospetto, mentre prendevo appunti. - Disegni - avevo detto, per tranquillizzarli, pure se non ci conosciamo. Sto disegnando. Disegno le macchine aperte sotto casa con le radio a tutto volume e le gambe fuori dagli sportelli, pronte a scendere o a richiudersi dentro per scappare; le finestre sbarrate, aperte quel tanto che basta a guardar fuori e a lanciare ogni genere d'immondizia a corpo morto giù per strada; i gruppi di ragazzini che a dieci anni giocano alla guerra contro la polizia; i gruppi di ragazzi fra i quattordici e i vent'anni che vanno da un muretto a una moto o da una macchina a un nascondiglio sempre diverso portando qualcosa e ricevendo in cambio qualcos'altro, bustine di plastica contro banconote stropicciate; i due sconosciuti che stanno sempre sugli scalini accanto alla nostra porta. - Aspettano di rubarci la casa - dice papà. Giampiero guarda tutti i disegni e me li restituisce. - Non li capisco - dice. - Ma sono bellissimi - . Li rimetto uno sull'altro e li riavvolgo con attenzione, per infilarli nuovamente nel tubo.
Davide Camarrone
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