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Autore: Francesco Pio Corsano
Yelena
Horror Psicologico
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Yelena
Vivo pensando oltre il limite. Il tempo mio scorre, scorre rapido, incurante, distruttivo, egoista, incapace di provar pietà nel cuore inamovibile. Attimi preziosi, reputati tali da una società che nulla conosce dei suoi figli, perché ella stessa, proprio come padre tempo, nella corruzione delle aspettative, diviene egoista, sprezzante del proprio operato. Negare la convalida della non curanza di quei concetti, sembranti così lontani dall'essere compresi, significa, al presente, chiudere gli occhi, voltarsi dall'altra parte col desiderio di non osservare. Allora perché?
Perché mai ho questo assurdo desiderio di staccare, di far finta di non esser nel bel mezzo del caos più impuro? Semmai possano definirsi virtù la non curanza, il distacco e l'apatia allora davvero il problema non sorgerebbe affatto, ma sento contraddizione nella definizione di speranza. In momenti alterni, peculiarmente diversi, l'etichetta delle cose provate e mai capite, diviene contraddizione.
Sono stanco. Quando l'apatia può definirsi mai positiva?
Mi dicono che nel vagare nel mio abisso, mi distacco dall'interpretazione del prossimo, e in quel caso, quando nella conoscenza, nello studio, nell'approfondimento di quel concetto altruistico che ai miei occhi diviene malsano, di un'essenza che mal non ha dentro, che pura quanto io puro, forse, mi sono sentito solo in passato, inizia, con forza, a penetrare nella mia, nella nostra vita, allora bisogna rimanere vigili. In quel momento io, noi, apriamo, con gioia, i cancelli del mio, del nostro ego ed ella entra con fierezza a far parte della mia e della nostra quotidianità.
Parlo della Notte. Abbiamo al tempo, nella frenesia, la voglia di conoscere e di continuare, perché il figlio del sole, della raggiante ascesa della Luce, è così. Egli ama e vive per conoscere. Al momento in cui si presenta l'occasione di aggiungere nuovo sapere alla propria ragione egli è felice, sorride con gusto al domani. Tutto va così bene, l'idea, il concetto, la musa appena conosciuta, è speciale. Lo è per davvero. Ci si sente ristorati dal calore delle aspettative e in quella breve transizione, padre tempo sembra non far percepire affatto la sua morsa. Non ci si sente oppressi dall'immenso potere dei concetti e ci si pone al centro di un universo che ci appartiene nel suo insieme, ma questa è solo un'illusione.
Quanto ancora è speciale non esser soli, oggi, al presente?
Perché, alla fine, tutto è volto, le nostre azioni e i nostri ideali, al combattere quel demone oppressore della visione e della felicità che è proprio la solitudine ingrata, ma la solitudine ha davvero in sé il potere di decretare la nostra distruzione?
Se il figlio del giorno è un essere sociale, egli nella solitudine appassisce lentamente come le foglie di Faggio nelle terre autunnali. Quando al “come stai?” si sorride ingenui, comprendiamo, crediamo e speriamo che lei o lui, che l'idea, che lo studio e che la passione, siano davvero propensi a conoscere tutti gli aspetti del nostro Io, a quel punto e dico solo a quel punto, il mondo sembra essere un posto migliore perché nell'ego sentiamo che non tutto, al nostro presente, ci volta le spalle ed è solo voglia di essere compresi a renderci inadatti al respiro, ma perché mai è così difficile? Perché è così difficile farsi ascoltare?
  Arriva e va lontano, non riesco a stare al passo, è tutto così dannatamente veloce.
Inizio, svolgimento e conclusione.
Nuovo amore, nuova vita, nuovo fiore e nuove aspettative, nel contesto padre tempo, come detto, è sì creatore ma anche distruttore stesso del proprio operato incompreso. Tutto ha fine, tutto ingiallisce e cade come le foglie di faggio. Non dare a me speranza dialogando di rinascita perché risorto è lui e perché quelle foglie ingialliscono, certo, ma ricompaio nel prossimo ciclo; è rinascita o ricostruzione? Le foglie che riappaiono sono altre creature, rimpiazzano le mancanti, rimpiazzano la morte, la natura è crudele, allor l'uomo, figlio del mondo, ha in sé la presunzione di definirsi distruttore.
Cosa accade quando giunge l'attimo; l'attimo in cui non si può mai credere alla rinascita, in mancanza di concreta affiliazione, sol riponendo speranza nella fede?
Sarà mai fede la soluzione? Me lo chiedo spesso e lo chiedo al mondo, al tempo, alla società che ci ingloba e prospera ma mai nessuno ha concretamente riferito alla mia coscienza risposta e questo perché il figlio della Luce è sol goccia in mezzo ad un mar di perdizione, creatura insignificante dinanzi all'immensità dei concetti che lo dominano. Non vi è rimpianto che possa colmare il vuoto, dall'arrendevolezza non possiamo trarci in salvo, dico solo che gli attimi fuggono via e noi siamo lì a rincorrerli per tutta l'esistenza. Semmai raggiunto, ancora nuova perdizione ci presenta davanti, allora che senso ha? Che senso ha inseguire per una vita intera l'irraggiungibile? Anche l'amore più ferreo, più vivo e più arduo ha nella morte il suo limite. Nei pensieri stessi, appunto, è riposto quel dannato confine, oltre il quale la ragione vacilla e si ha bisogno di estraniarsi da quel mondo, appunto, così volto alla fine; quindi, nell'attimo momentaneo della spensieratezza, si è consapevoli che prima o poi si ritorna al sadico presente.
All'elevare la coscienza al cielo prima o poi si torna a terra tra le montagne invalicabili delle aspettative e a quel punto, quando si vaga nell'abisso, presente nel cuore del figlio della Luce, si è soli, a meno che non si è così fortunati dal condividere il proprio vuoto con chi è propenso a prendere parte al vostro sforzo e in due siete in grado di caricare sulle spalle il macigno del tormento. È mai riporre speranza nella causalità che posso ricercare gioia? Si può mai lasciare fare a questa vita errata? Dico a chi, nella rarità del caso, ha con sé l'aiuto necessario a condividere il proprio abisso, allora ringrazi padre Tempo, che in quel caso benevolo col prossimo, è creatore di nuova linfa nella vita del figlio della Luce. Quando tanto si è vagati nell'abisso, però, senza alcun sostegno, ci si reinventa.
Nella propria personalità muta l'adattamento. Quando tanto si è vagati nell'abisso, forse, si diventa incapaci di provar alcunché.
Quando tanto si è vagati nell'abisso, accorgendosi di quei concetti così al di sopra della nostra portata, allora si perde interesse nelle idee terrene e soprattutto nelle persone, così ancorate al loro essere involucri vuoti. A quel punto subentra l'apatia, ed io so che lasciar scorrere senza opporsi è così stupido, so bene che non posso pretendere che la corruzione domini il mio animo, gli incubi, la mia voglia di fare e scoprire, ma a quel punto, per quanto ci si sforzi, per quanto si combatta, si è persa la capacità di immedesimarsi nel prossimo. Ormai la foga è scomparsa, non mai i sogni e i desideri, ma così concentrati a nutrire sé stessi di nuova linfa che si dimentica il resto, che si dimentica di star a contatto col mondo che ci ospita. Mi chiedo e lo chiedo al cielo se ciò va combattuto come demone solitudine?
Se anche l'incapacità di relazionarsi e di incidere al sociale possa mai rappresentare un ostacolo verso l'armonia dell'anima.
Io non ho le risposte perché vedo contraddizione e lo vedo in ogni angolo di perduto paradiso. È tanto sbagliato vagare nell'abisso? Perché mai, con sforzo, ci si deve elevare al cielo? Se il vuoto fa parte di noi, ripudiarlo vuol dire ripudiare noi stessi. Perché impegnarsi a ritrovar il sentiero dell'emozione quando ci si accorge che l'abisso è realtà concreta di questo mondo? Viviamo, evolviamo e ci occupiamo, con forza, di colmare il nulla con cose futili, ingannando il prossimo, ricercando la risposta nella pluralità e nell'apparenza, ma non sarebbe più facile accettare quella parte di noi stessi? Quando la novità termina, quando lei o lui, quando la passione e l'idea vanno via, si cade ancora e ancora in un processo continuo e infinito. Le persone vanno e vengono, entrano ed escono, le idee fanno lo stesso e così fin quando il tempo non ci annuncia la fine. Un loop, una routine da cui si è incapaci di fuoriuscire. Ci è stato insegnato a combattere, che non si può sostare nell'abisso a lungo andare, altrimenti, appunto, si appassisce, perché deleterio per i figli della Luce.
Fuggire è la risposta, fuggire da noi stessi può ricondurci mai a quella vita cantata nelle metamorfosi? Non voglio voltarmi dall'altra parte, non voglio far finta che tutto ciò non esista affatto, non voglio e non devo, perché nell'abisso ci vivo e prospero. Respiro la notte e ne sono acquietato, me ne accorgo, sento ormai di farne parte. Vorrei, con tutto me stesso, accettarlo nella mia coscienza caduta così tante volte da non aver più la forza di fuggire. La realtà è miscuglio tra luce e ombre, allor mi chiedo perché la notte va allontana?
Sono stanco.
Neanche tu sei capace di raggiungere la Luce, l'uomo non è in grado, perché colui vicino all'armonia ha abbandonato la percezione del maligno, ma la Luce non prospera senza la sua controparte e allor mai si giunge alla fine. È più facile, ragionevolmente parlando, vivere accettando, in assenza di odio e rancore verso l'abisso, perché crudele. Cosa non lo è in questa vita? Accettiamolo. Perché sforzarsi, se appunto la salvezza è a discapito di padre tempo e della sua benevolenza maligna? Sei tu a gestire la tua salvezza. Vorrei farlo, vorrei imparare a giacere, con imparzialità, nel vuoto del cuore, desiderando che gli aspetti del mio stesso essere siano plasmati solo e unicamente dai miei, e solo dai miei, sbagli. Semmai ciò dovesse riuscire, semmai il figlio del giorno divenisse tal simile a quella sua controparte oscura, abbracciando l'abisso e non mai ripudiandolo, allora egli diverrebbe, forse, capace di sorridere al prossimo e gaio nel percepire il tempo fuggire via lontano, come prima desiderava scappare da quel che è egli stesso.
Torna al reale.
Normalità è esser parte di quei pianti di notte causati dal ribrezzo, causati dall'inadeguatezza e dalla consapevolezza delle proprie fragilità. Non è arrendevolezza il non combattere, il non opporsi, è arrendevolezza desiderare di giungere alla fine senza aver goduto del viaggio. È arrendevolezza saltare subito alla conclusione, desiderare sparire e voltarsi dall'altra parte. Vi è desiderio di divenir tutt'uno col proprio abisso, anzi, quando tutto ha fine è cosa adeguata sentir dolore, ma quando nel mare della perdizione si naviga ormai da sempre, si impara a non percepire più alcun male, paradossalmente, si impara a non congiungersi più a nulla, alle persone, alle idee errate o semplicemente inadatte a noi stessi. Perché è male non sentire dolore quando si perde qualcosa o qualcuno? Tanto hai perduto, è inevitabile, allora dico, se nell'apatia ci si sente grati, se abbiamo evitato, futilmente, il dolore per tutta un'esistenza, perché odiare le pareti di questa prigione?
Io non ho le risposte, son solo parole vuote quanto il mio intimo avvenire e non pretendo al mondo che io venga ascoltato, che questo mio interpretare l'abisso possa mai divenire cosa abituale. Non lo pretendo, sfogo il dissenso.
È ormai da tempo che attorno a me sento gelo e abituato all'abbandono, il figlio del giorno, che ha imparato a vivere nel proprio abisso, non ha più timore del rifiuto e sa bene quanto futile sia l'amore, quanto ingannatore sia il sentimento. Egli lo ripudia totalmente.
È sbagliato? Lo è per davvero?
Non ne ha colpa, è la realtà che lo ha reso tale, lo ha reso incapace di affezionarsi e di appassionarsi al domani. Se fosse questa la soluzione ricercata? Tante persone e idee sono passate nella propria esistenza. Periodi brevi, alternati, di cui egli non ricorda nulla, perché l'interesse ha perduto quando pensando oltre il limite ha compreso l'inganno di questa vita, ma è inganno quando non vi è accettazione.
Non accuso la vita di esser ingiusta perché ingiustizia è definizione soggettiva ed è questa, l'apatia che tanto ripudiamo, ed è questa la solitudine che può farci così tanto del male; ma se quel sentirsi fragile possa essere esattamente il punto di partenza verso la rinascita? Se il figlio del giorno non è in grado di fuggire, allora perché non imparare ad accogliere?
Me lo chiedo spesso, lo fa, chi pensa oltre il limite, spero tu possa comprendermi. L'apatia è, infine, modus operandi di una protezione astrale costruita ad hoc dal nostro cuore esausto, stanco di sentire l'acciaio freddo della lama scagliata dal dolore. Allor stanco, allor affranto, allor privo di voglia di opporsi, erge scudi contro le intemperie. Pensando oltre il limite si arriva all'interpretazione, forse errata, forse discutibile, di forme speciali del nostro coesistere. L'apatia forse è male, forse è essenziale, forse è vita e ispirazione, forse morte e dannazione. Non ho le rispose e vorrei averle, vorrei comprendere cos'è sbagliato e cos'è giusto, cosa fare e cosa diavolo pensare, ma non so affatto interpretare le forme di questo mio credere in sogni che sembrano così distanti, allucinazioni della ragione; come fumo evaporano e al tempo stesso ricadono nell'abisso. La mia è voglia di scoprire l'impossibile, quella voglia di sapere cosa divora le mie viscere dall'interno, mi dà tormento. Gli organi marciscono assieme alla mia speranza, e come guidar la ragione verso l'armonia? Quando sul viso lieto dipingo linee rette, né sorrisi né amarezza, né gioia né dolore, né Luce né ombra; sto rigettando proprio quell'armonia, ma al tempo stesso rigetto la causa del disagio, allora ecco che né bontà né dolore il cuore serrato è in grado di provare. Non sentir niente è il solo modo per non sentir male. Forse, e dico forse, perché l'idea mi martella il cranio, renderci silenziosi, lontani, come quei sogni remoti che desideriamo realizzare, succubi del nostro abisso, forse e dico forse, ci rende più propensi ad emergere da questa folla che ci circonda, soffocandoci lentamente. Odiavo e la società odia il non udire, il chiudere le porte dinanzi al creato. Non stiamo scappando, stiamo sol logicamente agendo, accettando quel che siamo, accettando il buio dell'umana esistenza, perché senza la Notte siamo solo pedine che muovono passi verso una fasulla benevolenza e senza Luce siam crudeli, ci annientiamo l'un l'altro, intaccando la libertà del prossimo. Forse la risposta risiede nell'equilibrio. Si è stanchi, stanchi di sopportare l'inadeguatezza. Lo so bene. Si è stanchi di non sentir nulla, si è preoccupati, il cambiamento ci spaventa più di ogni altra cosa.
In passato, da bambini, era tutto così quieto e la realtà ci sembrava casa, ti mancano quegli istanti perché cerchi di sembrar forte ma quando ripensi al momento in cui da fanciullo il cielo non dava sgomento, allora rimpiangi. Bastava solo andare avanti al tempo e il concetto stesso del timore era per noi cosa sconosciuta e astratta, ma ora, astratto è il domani. Incerta è la via, incerto è il futuro, e ho paura, perché non riesco più a sentire, perché non riesco più ad esser lucido, ad appassionarmi a qualcosa che non sia parte del dolore, a rendere meno amaro il mio trascorrere. Quando si è tanto vagato, allora si è soli, lo si percepisce, soli a tu per tu col caos. Neanche chi è disposto ad entrar nel tuo oblio, ha l'accesso a tutte le forme del tuo essere, forse non l'hai neanche tu, forse neanche io stesso ho accesso alle profondità della coscienza che, paradossalmente, mi appartiene, perché voci emergono nella notte e mi dicono di seguirle, mi dicono di condurmi nelle profondità, mi spiegheranno il motivo del mio non sentir gioia, non sentir vita, ma ogni volta voci mi ingannano e mai ho veduto cosa la ragione nasconde agli occhi. Il caos stesso, il nostro caos, ci fa scudo, ci protegge e lo fa da sempre, silenzioso come la tentazione. Lo ripeto, non è fuggire, è solo esporre l'ombra del cuore alla veduta del prossimo. Nell'abisso ci si pone dinanzi ai propri dubbi, al proprio dolore e si adotta il fine più propenso a sentirsi almeno in grado di camminare sulle proprie gambe, dirigendosi verso la fine di quel tunnel buio, che sembra in realtà non possedere alcuna conclusione. Tutto appassisce e muore, ma è quella transizione tra nascita e morte che dovrebbe recar oscillazione, che dovrebbe innescar qualcosa nel cuore del figlio del dì, ma in chi pensa oltre il limite il nulla è fondamento concreto del proprio presagire.
  Mi dicono che la vita è un pendolo che oscilla, che giorni bui alternano giorni di sole ma i miei giorni sono grigi, a metà tra il tetro e l'armonia.
Vado avanti senza saltare alla conclusione, senza mai voltarmi indietro ma a volte barcollo, lo ammetto, e nella debolezza trovo sfogo, perché mai provo ribrezzo nel vivere nell'abisso. Mai mi vergogno di esser debole ed espongo i miei tormenti, nella speranza che qualcuno mi ascolti. Con tutto me stesso provo, provo a comprendere, a esistere, a costruire il domani dalle radici della sensibilità, ma a volte tremo e quei sogni, appunto, diventano irraggiungibili destinazioni. Nuvole sature di pioggia ma che mai mostrano tempesta, rimanendo in alto a vegliare su di me, rimanendo in bilico come i miei rimpianti. Nuvole grigie temprano il mio abisso.
Ecco l'apatia, per chi pensa troppo, ormai l'accoglie senza indugiare affatto. E si è soli, ma che differenza c'è tra l'esser soli e il sentirsi soli? Perché mai vedo profondità all'interno di ognuno, vedo unicità in ogni essere vivente che è luce ed è diversità, cosa gradita, ma perché, perché questo ciclo non ha fine?
È monotonia a cui mai reco significato, e quando chi pensa oltre il limite cerca appunto di ricercare quella risposta, di attribuire un perché ai concetti che cerca, prova, si sforza di interpretare. Alla fine, ci si accorge, con rammarico, che il tempo va oltre e non aspetta, che il tempo scorre e non ha pietà alcuna. Parlo della solitudine perché girovagando tra i sentieri della dimensione Oscura si è comunque, in qualche modo, isolati dalla Luce. È quello, in fondo, che la creazione vuole espandere.
La Luce, così benevola e fonte di armonia, ma chi sente l'epidermide bruciare sotto l'azione dei raggi di quel sole riparatore, non riuscendo a interpretare la superficie e il mondo all'esterno, come mai può ricercare la voglia di andare avanti, di fuoriuscire dall'abisso?
Me lo chiedo spesso. Come può andare avanti l'essere che tanto è vissuto nella prigione della sua coscienza da non più aver la voglia di riemergere? Chi, ormai, non è in grado neanche di soffrire nell'abbandono, chi ha perduto totalmente la forza di restare ancora alla società che la rigetta come carta straccia. Chi ha solo a cuore la propria esistenza, che impari a giacere nell'abisso allora, che possa salutare la solitudine come una cara amica, perché il dolore è cosa giusta, ci avverte, ci protegge dalla fine. Non arrendersi, che dopo le lacrime si possa ritornare a respirare, a pieni polmoni, l'aria impura che, come tali, la società ci definisce, Impuri. Consapevoli di vivere in un mondo sbagliato, ma che è comunque nostro, in bilico tra amore e odio, unicamente progettato per esser tale, per farci sentir inadeguati ma anche speciali, perché solo la miscela di Luce e Tenebre ci affida quel poco di unicità che al più trascuriamo, nei momenti in cui percepiamo di aver perduto l'orientamento. Penso oltre il limite ma non provo più nulla. Si arriva al punto in cui la solitudine non ti spaventa, hai imparato ad accettarla, ormai la conosci, ormai giaci a stretto contatto con lei e percepisci le sue braccia fredde avvolgerti e sussurrarti di tanto in tanto quelle parole soffocate nel buio della tua cella. La solitudine ha tratto con sé il colore, ma ha portato via anche il tuo rammarico, anche i tormenti e la paura.
Insomma, la solitudine ti ha portato via tutto, Luce e Tenebra e quella tua realtà ormai rimane grigia, quasi incolore, buia ma luminosa. Cosa fare? Solitudine.
È mai sbagliata? È mai così errato esser parte di essa?
Accoglila. Vediamo cosa accade.
Non ho le risposte. Dico ora che è tempo di ricostruire; un foglio bianco che attende il tratto snello dell'unicità dei nostri sbagli. È per quelli come noi, quelli che pensano oltre il limite, oltre il limite del quale si perde il senso e la ragione, oltre il limite del quale si desidera ritornare ad ignorare quei concetti, che la vita è ancora in piedi.
Spesso sottovalutiamo il nostro potenziale. Chi pensa oltre il limite è consapevole di quanto è insignificante di fronte all'universo che tutto ospita, ma al tempo stesso è in grado di riconoscere quanto egli è speciale di fronte ai figli del giorno. Il caos che alberga dentro ognuno di noi è infatti unico e va preservato. La solitudine non ti ha sconfitto, ora rimane però l'apatia e va domata.
Ogni giorno il rapporto con il prossimo diviene più complicato, passano i giorni, gli anni, le persone, le idee e ad un certo strato dell'esistenza, ecco che giunge ad opprimerti la noia.
Perché tutto ti sembra tanto superficiale, sbagliato a tratti. Sai già che lui o lei andrà via prima o poi, allora hai anche smesso di lottare e di costruire. Sai già che l'abisso è casa tua, conforto sicuro e luogo sacro, potrai uscire da lì, certo, ma poi, inevitabilmente, sai già che tornerai a fare i conti con la tua ragione straziata. Allora che senso ha? Smetti di provarci. La noia ti afferra, ti stritola e senti il respiro mancare, fino a quando anche l'indifferenza ti diviene quotidiano incontro. Diviene normalità e speranza.
Chi pensa troppo è incomprensibile, incomprensibile anche a sé stesso. Sente il peso della propria abulia, anzi, forse, è proprio quella sua caratteristica a renderlo più sensibile dinanzi alla generalità.
Tutto fa più male a chi pensa oltre il limite. Arrestare i pensieri, ma come?
Si è così, si è nati per pensare, si è nati per conoscere, per adorare, ma quella voglia, quella voglia insaziabile di comprendere ci divora. Si è insoddisfatti, perché, forse, le aspettative riposte in noi sono distanti, sono astratte, come il mondo onirico in cui non vediamo l'ora di far ritorno. Notti insonni passate sulle lenzuola spoglie, con gli occhi spalancati e arrossati, perché proprio i pensieri si affollano, si accavallano nella testa, fanno ammalare il corpo, distruggono e ricreano a loro discapito, proprio come te, tempo insano. Si è stanchi e lo si è per davvero. Non basta seguire un sentiero, non basta andare avanti come facevamo da bambini. Ora, subentrano le preoccupazioni e i problemi, amplificati dalla voglia, amplificati dall'ambizione e dalla speranza ingannatrice. Il cuore martella forte quando la mente si colloca al futuro. Non basta, non basta essere vivi, non basta respirare, non basta esserci. Il Mondo vuole di più.
La realtà ci tartassa, chiede e continua, insiste, sentiamo la pressione, ella invoca demoni, invoca pensieri e intanto, mentre noi smarriti cerchiamo di stare al passo, mentre ci sentiamo soffocare dal timore, mentre ancora nessuno osa darci delle risposte, il tempo continua a scorrere e sempre più il cuore appassisce. Non basta, non basta e si cade nell'abisso ancora e ancora.
Si prova, mille tentativi risultano vani, allora che fare, cosa essere, cosa provare?
Si è stanchi e lo si è per davvero. Per chi pensa oltre il limite è ancora più difficile trovar la via verso l'approvazione dei sensi, perché niente e nessuno ha mai tracciato quel sentiero. Nessuno mai, né tempo né mondo, né reale né amore, né gioia né timore, niente ha dato a noi il vantaggio di almeno avere un qualcosa da perseguire. Non si è nulla e ci si sente vuoti, perché si pensa oltre il limite. Allora anche la solitudine ci è divenuta imparziale, ora sembriamo essere semplicemente noi. Non ci accorgiamo neanche più di aver perduto un pezzo di cuore. Non percepiamo neanche più di parlar con distacco, di estraniarci, di sentirci aldilà, distanti e al sicuro.
Ecco, a questo punto anche l'indifferenza non rappresenta più un ostacolo. Nulla ci arresta nel processo che porta al sentirsi, finalmente, completi.
Nulla è più come prima. Al “come stai?” ora rispondi di star bene e lo credi davvero, ma quando al buio del tuo abisso, pensi alla risposta data, ti accorgi di aver mentito, di aver risposto per inerzia, semplicemente per compiacere il prossimo. In realtà, non ci si sente bene, non si prova neanche dolore, ci si sente semplicemente vuoti, alla ricerca costante di un leggendario manufatto la cui esistenza è incerta. Incerti lo siamo noi stessi. Chi pensa oltre il limite ha a cuore quei concetti reputati “negativi” da una società ambigua e non prova alcun ribrezzo nei propri pensieri, li reputa giusti, è in grado di argomentare.
Sa perché la solitudine l'ha protetto, sa perché ha perduto la voglia, la tenacia e la spensieratezza. Si interroga, pone domande, lo fa in continuazione e mai in quello la noia subentra, dato che tale è natura stessa del suo Io. Allora passano gli amori, le passioni, i progetti, le ambizioni cambiano. C'è la fase in cui si crede di aver trovato finalmente la via, si crede di esser rinati, di esser riusciti ad uscire dalla morsa del proprio ego, perché arduo è il desiderio di comprendere noi stessi. Nulla ci spaventa e nulla ci rallegra, tutto passa e ci scivola addosso. Solo piangi perché speri di conoscere, perché sei disposto a sacrificare ogni cosa per un tuo sorriso, ma continui a sentirti così inerme. All'angelo caduto che mi ha abbandonato nel mio Abisso credendo che con il suo rifiuto potesse mai recarmi odio, voglio dir che altresì egli non è che l'ennesimo subito distacco. Tanti angeli sono prima arrivati da me e tutti han seguito le orme del degrado. Non ho più timore, non mi manca affatto l'ennesimo angelo caduto. Non mi pesa l'abbandono, non percepisco la mancanza, non odo la speranza, non sono in grado di soddisfare il prossimo, né il prossimo è in grado di soddisfare me. Dimentico in fretta, non ricordo neanche più il nome che l'ennesima creatura mi ha sussurrato in una notte insonne. Non m'importa, non m'importa e di questa mia indifferenza traggo stupore, vita e angoscia. E non crediate che chi pensa oltre il limite stia sol chiedendo aiuto.
No.
Egli non ne ha bisogno. Sa che è umano chiedere aiuto, ma è anche convinto che niente e nessuno possa donargli la certezza. Egli vuole comprendere la sua realtà e ci riuscirà.
Non conosce la sconfitta e non trema dinanzi al timore, perché nel buio ha viaggiato fino ad oggi.
Non desidera aiuto, non lo hai mai richiesto perché non gli importa. Non ha bisogno di essere salvato, è il mondo che grida aiuto non suo figlio, egli, solo, è unicamente alla ricerca di risposte. Risposte e nient'altro. Forse è proprio il mondo a volerci indifferenti, me lo chiedo spesso. Forse è proprio la realtà a plasmarci in tal maniera, il demone della Noia ha preso possesso dell'anima. Anche oggi la quotidianità fugge via, sembra un attimo, odo un fruscio, un semplice colpo di vento.
Il corpo che oscilla sotto la superficie marina. Gli occhi. Delle mani mi afferrano dall'alto. Riemergo.

Francesco Pio Corsano

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
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