Era scesa una nebbia fitta che limitava la visibilità a pochi metri. Malaguti insaccò la testa nel cappotto e si avviò verso l'auto. Stava per premere il telecomando, quando si sentì afferrare da dietro. Una mano gli premette con forza sulla bocca e sul naso un batuffolo imbevuto di cloroformio.
Tentò di svincolarsi dalla presa, ma dopo pochi secondi perse i sensi e si afflosciò come un sacco vuoto.
L'uomo lo trascinò dietro una Ford station wagon, gli legò i polsi dietro la schiena con del nastro adesivo da imballaggio, lo imbavagliò e lo caricò nel bagagliaio.
Frugò nelle tasche interne della giacca di Malaguti in cerca del telefonino e lo spense. Coprì il corpo con un telo verde militare e partì a tutta velocità dirigendosi verso la statale.
L'uomo lanciò un'occhiata dietro.
Malaguti aveva il respiro regolare e non si era mosso di un millimetro.
Nei pressi del bivio per Tortorello i lampeggianti blu vorticavano sul tetto di una volate della polizia.
Istintivamente stava per frenare e invertire il senso di marcia.
I poliziotti si sarebbero insospettiti.
Proseguendo a passo d'uomo, incolonnato dietro una lunga fila, raggiunse il punto in cui scorse un groviglio di auto accartocciate da cui si levavano fiamme e un fumo denso e acre che i vigili del fuoco irroravano con le lance.
Un agente con la paletta faceva segno di accostare.
“Buonasera. Cos'è successo?”
“Buonasera” salutò l'agente della stradale, portandosi la mano alla visiera del cappello. “Un incidente. La strada è bloccata. Dovrà attendere che i veicoli vengano rimossi.”
“Sono un medico, devo raggiungere al più presto l'ospedale per un'emergenza. Devo operare un paziente in pericolo di vita.”
“Allora faccia inversione e prosegua fino allo svincolo per Castelvecchio, dove potrà immettersi sulla provinciale 7.”
“Conosco la strada, grazie.”
L'agente lo salutò, riprese la paletta dallo stivale per bloccare un'auto che sopraggiungeva.
Svanito l'effetto dell'etere, Malaguti mugolava tentando di liberare le mani.
Sentiva un formicolio alle braccia e un cerchio alla testa.
Stava lentamente riacquistando lucidità.
Perché si trovava in quell'auto? Lo avevano rapito?
Sì, doveva trattarsi di un rapimento. Non c'era altra spiegazione.
La mente riprese a funzionare.
Negli ultimi tempi c'erano stati nella zona altri due casi di sequestri di persona. Due industriali erano finiti nelle mani dei banditi a distanza di qualche mese. Lo attendeva una lunga prigionia, nascosto in qualche grotta o in un buco scavato nella nuda terra, alimentato con pane e formaggio, legato mani e piedi a una catena in attesa che la famiglia pagasse il riscatto.
C'era però la legge che autorizzava il magistrato a disporre il sequestro cautelativo dei beni.
Un deterrente per scoraggiare l'escalation dei sequestri.
Una bella fregatura.
Chissà per quanto tempo sarebbe rimasto prigioniero, ammesso che i rapitori non lo ammazzassero prima.
Se avesse avuto fortuna, poteva capitare che la polizia s'imbattesse nella sua prigione durante una battuta.
Gli tornarono alla mente le immagini dei rapiti: i volti scavati, incorniciati dalla lunga barba, gli occhi infossati e l'aria smarrita insaccati nei giubbotti della polizia.
A Soffiantini, quei barbari bastardi, avevano tagliato di netto un orecchio per indurre la famiglia a pagare il riscatto.
Dovevano essere sardi, una banda specializzati nei rapimenti.
E se fossero dei balordi, incapaci di gestire un sequestro, che incalzati dalle forze dell'ordine si sbarazzano del rapito con un colpo in fronte o peggio ancora lo lasciano morire di fame nella sua prigione?
L'angoscia lo serrò come una morsa.
Iniziò a sudare per l'agitazione. Il cuore batteva così forte che gli sembrò che potesse esplodergli nel petto. Stava per venirgli un infarto.
La paura ebbe l'effetto di aumentare i battiti.
Doveva calmarsi prima che gli venisse un infarto.
L'auto rallentò, imboccò una strada sterrata piena buche che lo facevano traballare.
Dopo un po' si fermò.
Sentì il portellone del bagagliaio aprirsi.
Dal momento del rapimento erano passati una quarantina di minuti. Ne dedusse che non dovevano essersi allontanati molto dalla città.
I banditi avevano voluto evitare di incappare in qualche posto di blocco.
Sua moglie si sarebbe accorta che non era rientrato a casa la mattina dopo.
Le ricerche sarebbero partite con ritardo.
Bella fregatura.
L'uomo tolse il telo e l'afferrò per i piedi tirandolo fino a quando le gambe non furono fuori dal portabagagli.
Una mano lo prese per il bavero e lo sollevò di peso.
Il contatto con l'aria fresca gli infuse un po' di energia.
Di fronte c'era una persona con un giaccone scuro e un passamontagna sulla testa.
Lo strappo secco del nastro adesivo dalla bocca fu simile al gesto dell'estetista che esegue una depilazione. L'uomo tagliò il nastro adesivo alle caviglie con un coltello.
“Cosa vuole?” domandò con la voce che tremava.
Nessuna risposta.
“Sono ricco. La mia famiglia pagherà il riscatto. Non fatemi del male, vi prego. Pagheranno, ve l'assicuro. Mia moglie troverà i soldi anche se il magistrato bloccherà i beni di famiglia. Abbiamo tanti amici. Non possono bloccare anche i loro beni. Non ci metterà molto a raggranellare la somma.”
Una vigorosa manata sul petto lo invitò a proseguire lungo il sentiero.
Comprese che era meglio stare zitto per non innervosirlo.
Dopo una cinquantina di metri abbandonarono il sentiero e proseguirono lungo un lieve pendio.
E se avesse tentato la fuga?
Col buio aveva buone probabilità di seminarlo.
Giunti nei pressi di una radura, Malaguti vide un fitto bosco. Intrecciò le dita formando un grosso pugno, si girò di scatto e lo colpì.
L'uomo perse l'equilibrio e cadde all'indietro.
Malaguti, approfittando della sorpresa, iniziò a correre vesso il bosco e s'infilò nella fitta vegetazione. Si fermò dopo un centinaio di metri. Si piegò per lo sforzo sulle ginocchia. Cercò di placare l'affanno inspirando ed espirando ritmicamente.
Quando il cuore riprese i suoi battiti normali, iniziò a camminare svelto.
Si tastò nella tasca in cerca del cellulare.
Doveva averglielo preso.
Restò impalato per qualche secondo, indeciso sul da farsi.
Al buio non riusciva a orientarsi.
Proseguendo c'era il rischio che finisse in un burrone, in un canale o in un fosso. Sarebbe stato prudente aspettare l'alba e poi cercare di raggiungere qualche abitazione o la strada.
Se restava lì, l'uomo avrebbe potuto, col chiarore del giorno, individuarlo.
Non aveva scelta: doveva proseguire.
Facendosi largo tra la vegetazione del sottobosco che odorava di umido e dolciastro, camminò senza una meta per un quarto d'ora. I pantaloni, a contatto con l'erba del sottobosco, erano fradici d'acqua. Sentiva freddo in tutto il corpo e un crescente dolore alle gambe che presto si sarebbe trasformato in crampi che lo costringevano a frequenti pause.
Strinse i denti e proseguì per un paio di chilometri.
Era spossato.
Dopo aver percorso un tratto di bosco, intravide tra i rami degli alberi delle luci sulla collina di fronte.
Era salvo.
Rincuorato, affrettò il passo in direzione delle case.
Raggiunse la radura. Aveva fatto pochi passi quando sentì alle sue spalle una voce che lo paralizzò.
“Ti stavo aspettando.”
D'istinto iniziò a correre, incespicò in un cespuglio finendo bocconi sull'erba alta.
L'uomo lo raggiunse e lo tirò su.
“Fine della corsa” disse sarcastico.
Aveva girato in tondo.
Era impietrito.
Per qualche secondo gli sembrò che il cuore potesse smettere di battere, la vista gli si offuscò e sentì che stava per svenire.
“Muoviti!” gli disse l'uomo spingendolo.
Parlava senza inflessioni dialettali.
Allora non era un sardo.
I pensieri gli si addensarono attorno a un unico punto cruciale che riguardava la sua sopravvivenza.
Malaguti, che nel frattempo si era ripreso, obbedì, meravigliandosi di come il suo corpo continuasse a camminare nonostante la stanchezza e i crampi.
Giunti alla fossa venne spinto a terra.
L'uomo gli legò le caviglie col nastro adesivo, lo trascinò fino al bordo e lo spinse dentro.
Cristo santo!
Ma che faceva quel pazzo furioso?
Muovendo le gambe e la testa si accorse che le pareti umide erano a pochi centimetri da lui.
Solo allora si rese conto di essere finito in un fossa simile a quella in cui i becchini calano la bara.
Non era una tana, era una tomba!
Minuscoli puntini luminosi brillavano nel cielo nero come la pece.
Al chiarore della luna vide che l'uomo ritto sulla fossa lo guardava impassibile.
“Non farmi del male, ti prego. Saprò ricompensarti. Ti darò tutti i soldi che vuoi.”
“Non sono in vendita.”
“Non capisco?”
“I tuoi fottuti soldi. Non ti servono più. Non si può comprare tutto.”
“Ti scongiuro.”
“Crepa, maledetto!”
L'uomo afferrò la vanga conficcata nel cumulo di terra e iniziò a riempire la fossa.
Lo stava seppellendo vivo.
Un urlo disumano echeggiò nell'irreale silenzio della notte.
Un'altra palata.
Il terreno entrò nella bocca, serrandogli la gola. Malaguti emise un suono strozzato.
Un'altra palata.
La terra questa volta lo soffocò.
L'uomo riempì la fossa con calma. Con le mani poggiate sul manico della vanga rimase a guardare soddisfatto il cumulo nero di terra. Piantò un paletto di legno e legò in cima una bandierina triangolare verde.
Tommaso Carbone
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