Odio il mese di ottobre. Lo odio tanto quanto amo il mese in cui sono nata. Era sera, il sole, ancora visibile stava scomparendo nel naviglio e tu mi hai tenuta in braccio. Non me lo hanno detto e non lo ricordo, ma anche se non ero chi ti attendevi, anche in quel momento ti sei sentito un poco protagonista. Ti è sempre piaciuto recitare la parte del primo attore. Quelle bellissime mani, dalla presa sicura, si saranno mosse come imbarazzate nel tentare di tenermi e non far cadere quei due chili scarsi della tua prima creazione. In ottobre la natura si prepara, si spoglia e, silenziosa, va incontro al sonno. E anche oggi, come ogni sera, mi preparo, mi spoglio, mi tolgo i colori dal viso e, silenziosa, inizio a chiudere gli occhi con la speranza di svegliarmi domattina. Un ripasso d'obbligo alle ore trascorse, per essere certa di non aver tralasciato nulla, nemmeno le preghiere che non recito più. Voglio solo pensarti in armonia. Dove ora vi trovate, possiate vivere senza conflitti, in uno stato di pace perenne, magari vicino a chi ti ha osteggiato, ti ha maledetto quando eri un corpo, un bellissimo corpo maschile. Eri mio padre. In questi ultimi anni, di notte vivo una veglia sopita, sempre pronta ad ascoltare me stessa, ma anche a cogliere un qualunque fruscio esterno. Ti ci abitui sai dopo che hai avuto un figlio. Rimpiangi però quei lunghi sonni che facevi da adolescente, quando ti alzavi tardi la mattina. E tu com'eri? Giovane certamente, un tempo gli uomini giovani si comportavano come fossero già maturi. Eh sì, dalle foto parevi un adulto, davvero. Mi rimane il primo sonno ancora simile a quello di un tempo, corposo e intenso, che offre una maggiore soddisfazione e un riposo certo. Ti penso, non sempre, ma ti penso spesso e più passano i mesi più mi avvicino a te. Ti incontrerò mai? Mi sistemo, dopo aver esplorato le pieghe fresche tra le lenzuola, fino a che il mio corpo, dotato di buona memoria e di sana abitudine, si adagia in quella che è la posizione collaudata e sicura per lasciare la consapevolezza ed entrare nell'ignoto. Il bello qui è che non esiste la misurazione del tempo, non so quindi distinguere quanto lunga sia la strada per raggiungere l'altra dimensione, mi accorgo solo di essere più pesante nelle membra e infinitamente più leggera dai pensieri. Un salto. Un salto verso l'ignoto. Quanta confusione, pare una festa di paese notturna; qui però le luci sono poche, intravedo ombre, sagome, nessun oggetto, ma solo grandi piante e piccoli arbusti dai colori intensi, tutte le tonalità dell'ocra e del verde, credi di camminarvi sopra, ma non sento foglie o rami, mi basta osservare un luogo per esserci. Proseguo, recandomi ovunque posi lo sguardo. Prima a destra, poi a sinistra, indietreggio e avanzo al minimo cenno degli occhi. Chi sono quelle ombre di cui non distinguo i tratti, di cui non percepisco la sagoma o l'odore? Insisto nel tentare di dar loro una forma, di riconoscere qualcuno o qualcosa, ma mi passano accanto, leggere, impalpabili. Avverto che alcune mi scrutano, ma non si fermano, come se non mi ritenessero interessante, come se fossi diversa. Di alcune percepisco una sorta di ostilità. Vorrei fermare qualcuno e chiedere dove mi trovo, ma nessuno sembra disposto ad ascoltarmi. Che insolita festa notturna è mai questa? Malgrado l'oscurità, non provo alcun timore, sono affascinata dalla quiete che molti emanano, continuo quella ricerca per capire dove mi trovo e perché. - Prosegui, non temere - mi appare sulla destra, poco più in alto, un globo luminoso dal quale proviene quel consiglio sussurrato. Le luci simili a iridescenze lunari, si fanno più frequenti. Le sagome appaiono ora più simili a me, meno fugaci e meno eteree. Una grande pace mi sostiene. Non odo voci o rumori, eppure avverto un biascicare lungo e sommesso, di cui non distinguo l'origine. Sempre più incuriosita, mi sposto e tendo l'orecchio, senza indietreggiare. Ormai le luci superano l'oscurità iniziale, le sagome procedono più lentamente, borbottando in una lingua di cui ancora non riconosco le parole. Il mio incedere incuriosito è via via più sicuro, faccio attenzione a non urtare le forme che incontro. Nessuno mi conosce, nessuno si ferma, ma io ora decido di non chiedere, perché inizio a sentirmi tranquilla in questo paesaggio surreale. Loro avanzano, mi superano, ma io di nuovo li raggiungo e proseguo verso una meta ignota. Come in un museo, dove immagini su tela si susseguono e tu non conosci il percorso, ma intuisci che sei prossima al capolavoro, all'opera più importante, al motivo per cui sei entrata in quella kermesse di figure. Ho un sussulto: non può essere vero, non voglio crederci, mi sto sbagliando, sto vaneggiando. Che scherzo mi sta giocando la nostalgia, che crudeltà pensare che tu sia ancora visibile. Mi giro e vedo il mio corpo dormire nel letto, mentre io sono qua. Mi fissi. Non sembri stupito di avere di fronte tua figlia, la tua primogenita, che non vedevi più da tempo immemorabile. Come puoi avermi riconosciuta? Ho fattezze adulte, direi più che mature, i grandi occhi che assomigliavano ai tuoi ora sono molto più serrati, nel tentativo costante di mettere a fuoco il mondo esterno. Eppure tu avanzi con calma, passo dopo passo, forse perché io non possa temerti, forse perché la tua dimensione non prevede gesti impulsivi e veloci. Sei mio padre. II Silenziosa, ti osservo, non oso nulla. Non una parola, un gesto della mano o una piega sul viso. Attendo che tu mi dia modo per riconoscerti. Sarò in grado così di espormi, di rivelare ciò che adesso trattengo per incredulità. - Eccoti! - riconosco il ricordo di quello che un tempo era il tuo timbro di voce. - Finalmente! - - Eh sì, finalmente - abbasso gli occhi, guardo i miei piedi e vorrei che mi portassero via, lontano. Vorrei rientrare nel corpo che conosco e che dorme, ignaro di tutto. Ma tu prosegui, serafico. - Stai bene? - - Bene - rispondo. - Ma dove ci troviamo? - Mi accorgo di avere la voce tremante. - Non ti preoccupare - rispondi fissandomi gli occhi. - Sei qui solo per fare quattro chiacchiere con me, quelle che ci sono mancate in questi ultimi anni, vuoi? - - Sì - sussurro preoccupata. - Ma poi? - - Poi capirai che era giusto incontrarci e proseguiremo i nostri percorsi con maggiore serenità - afferma con voce pacata e greve. - Cosa vuoi dirmi? - Si siede sopra un grande sasso, la sua figura mi appare più morbida. - Non so da che parte iniziare - . Abbiamo interrotto i contatti da troppo tempo e troppo malamente... - faccio una lunga pausa, maschero un sospiro, ma lui se ne accorge. - Eh sì, malamente, direi con violenza, che ci ha lasciato una ferita per il resto dei nostri giorni. - Sospira anche lui, ma non lo nasconde. Riaffiora il ricordo di una fotografia, che forse può alleviare la pesantezza degli ultimi istanti. - Avevo un abito bellissimo in quella foto, i capelli mi venivano spesso raccolti, legati con un fiocco dello stesso colore dei miei abiti. Tutti mi dicevano che ero una bella bambina e io ne andavo orgogliosa, ero fiera di essere tua figlia, con gli stessi zigomi, la stessa espressione vivace negli occhi. - - Quell'abito, ricordo, lo avevi scelto tu, a Firenze, quasi volessi regalarmi un pezzo delle nostre origini. In quella foto in bianco e nero, traspare la mia gioia, la fierezza di indossare un abito regalato da te. Te lo ricordi? - - Certo, era il più bel vestito esposto nel negozio di ricami, quell'estate lo avresti esibito al mare, e così è stato! - ricorda. - Dimmi - gli domando - tu e la mamma eravate contenti quando io restavo al mare tanto tempo con la nonna? - Mi aspetto una risposta bugiarda o deludente. Lui sorride dolcemente e sposta lo sguardo, come volesse catturare un ricordo. - Eravamo ancora giovani e quei mesi senza di te servivano a ricucire un po' di amore coniugale, un'intimità che si dimentica quando nasce un bambino. Comunque eri sempre presente nei nostri pensieri, là, piccola sulle spiagge della Riviera. Allora le preoccupazioni dei genitori erano ben diverse da quelli di oggi: voi temete rapimenti, violenze, altre efferate cattiverie, noi temevano che potessi venire investita attraversando il grande viale che portava ai bagni, che facessi indigestione di ciambelle e gelati o bevessi un po' d'acqua nuotando, ma niente di più. Tu avevi bisogno di quel sole, eri uno scricciolo, nata con una carenza di calcio nelle ossa, così gracile... non sembrava nemmeno che ti avessi fatto io - e ride, sapendo di essersi fatto un complimento.
Daniela Vasarri
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