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Autore: Fabio Messina
E niù làif
Narrativa Contemporanea
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E niù làif
Viaggio di ritorno negli anni '80 e diverse altre faccende.

Fregato dalla nebbia.
Prima di comprarlo, ormai molti anni prima, Andrea credeva di aver annusato ogni millimetro di quell'apparta-mento, assaporandone le finiture, la disposizione, la grandezza delle stanze e i soffitti a volta, coi mattoni a vista; e quando era venuto il momento di guardare fuori dalle finestre aveva trovato la nebbia a velare il panorama, conferendogli un alone di romantico mistero: dietro quella coltre avrebbe potuto esserci il più esotico dei paesaggi o una piramide Maya o il Mausoleo di Alicarnasso. Oppure, riportando le aspettative nell'ambito della plausibilità, anche un bel palazzo liberty. Magari con qualche abbaino, che non guasta mai.
Invece, mesi dopo il rogito, a inverno terminato, la nebbia svelò lentamente il vero panorama che gli sarebbe toccato ogni volta che avrebbe messo la testa fuori da una finestra: un casermone annerito, scrostato e mitragliato di parabole, realizzato in quell'inconfondibile stile architettonico da speculazione edilizia degli anni '70, denominato “basta che stia in piedi”.
Ma era stata colpa sua: non aveva ottemperato compiutamente ai suoi obblighi di compratore e si era lasciato ammansire dal palestrato agente immobiliare che lo aveva accompagnato durante i suoi, pur accurati, sopralluoghi.
D'altronde è noto che facciano così, è una delle loro tattiche standard: sanno benissimo che se ti lasciano libero di pensare, tu scoverai tutti i difetti. Così ti ronzano intorno, cannoneggiandoti con formule di rito che ti tengano le sinapsi occupate.
Andrea sorrise, ripensandoci. Poi sobbalzò: Giulia gli stava bussando dalla finestra, indossando il più dolce sorriso mai dipinto sul volto di una donna. Gli mimò di rientrare, doveva fare molto freddo là fuori. A colpi di zigomi e sopraccigli lui rispose che avrebbe aspettato ancora un po'; fotografare un meteorite non è cosa da tutti i giorni.
DA14. Era questo il suo nome. Un pietrone di una cinquantina di metri, fatto di chissà cosa, che, percorrendo lo spazio profondo a suo piacimento, aveva deciso di concedersi un contropelo al pianeta Terra, peraltro distraendo tutti i telescopi del mondo da quell'altro meteorite che, poche ore prima, sulla Terra era proprio caduto, causando più di mille feriti in Russia.
Giulia sorrise ancora e si ritirò, forse fingendo di credergli. Per poco che conoscesse i meccanismi della fotografia, sapeva benissimo che una foto al cielo notturno con un obiettivo da 400 al massimo zùm sarebbe venuta completamente nera, a meno che non fosse fatta su un cavalletto e con almeno una trentina di secondi di esposizione.
E il cavalletto era in cantina.
Forse, quel piccolo indizio, poteva averle fatto drizzare le antenne. Andrea cercò di tenere fuori dalla mente almeno quel pensiero e tornò a scrutare il cielo, a casaccio. I comunicati ufficiali avevano predetto che il sasso sarebbe apparso nella costellazione della Vergine, per poi transitare dal Leone e dall'Orsa Maggiore, fino ad arrivare dalle parti della Stella Polare. Alla portata di un qualunque marinaio fenicio, ma introvabile per un essere umano avanzato e tecnologico.
Con le dita dolenti per il freddo, Andrea valutò che il vero motivo per cui poteva aver scelto di auto-esiliarsi sul balcone poteva essere la volontà di arrivare a quell'intirizzimento da ipotermia che danza sul confine fra fastidio e dolore; e quando vi fosse arrivato se lo sarebbe gustato lentamente, fino a farlo crescere oltre la misura della sopportazione, per ricavare lo slancio necessario a tornare dentro di getto e occuparsi dell'impossibile compito che lo attendeva quella sera.
Così, mentre aspettava che il gelo invernale lavorasse per lui, si concesse di pensare a Giulia. Alle tracce che lasciava in casa sua, forse volutamente. A quanto fossero piccoli i suoi vestiti, a prenderli in mano. Ma anche all'euforia con cui lei lo aveva guardato la settimana prima, quando, muniti di metro usa e getta, erano andati in esplorazione da Omni-mobili, perché la quantità dei suoi vestiti era incalcolabile e in vista del suo trasferimento da lui, gli armadi sarebbero dovuti almeno triplicare.
Ripensò a quel corpo, quell'organismo così perfetto, compiuto, a quella pelle il cui odore naturale era un profumo; anche al mattino, appena sveglia, quando, di solito, la bocca di chiunque sa di cane bagnato.
Pensò anche alla parte del suo corpo che lui preferiva: i suoi piedi. E non perché ci fosse del feticismo di mezzo, ma per il fatto che quando si erano conosciuti sei anni prima su quella spiaggia al Golfo di Sperone, lei non aveva fatto altro che nasconderli sotto la sabbia e a lui non era sembrato possibile che una donna simile potesse andare a scovare, nella forma dei suoi alluci, un'imperfezione di cui vergognarsi. Così, dopo anni di lento lavoro psicologico e di piedi massaggiati sul divano durante i film, era riuscito a raggiungere un traguardo ragguardevole e lei non se ne vergognava più. O magari sì, ma almeno aveva smesso di nasconderli.
Poi, la sensazione di assurdità che lo colse, lavorò molto più rapidamente del freddo: starsene lì fuori come un cretino non lo avrebbe aiutato. Doveva farlo. E in fretta. Ogni secondo in più, pesava come il mondo.
Così sospirò, si alzò in piedi e spinse la porta-finestra, tornando dalla sua Giulia.

Giulia lo rimproverò dolcemente perché aveva le guance congelate. Gliele scaldò fra i palmi delle sue mani, che poi voltò sui dorsi, infine di nuovo sui palmi.
Mentre lui si spogliava del giubbotto gli tenne la macchina fotografica e diede una curiosata alle foto: non ce n'era neanche una. Lo raggiunse poi in camera da letto, tenendo in mano un catalogo dell'Ichéa.
Gli mostrò un guardaroba che sarebbero dovuti andare assolutamente a vedere e sul quale non avrebbe potuto trovare niente da ridire. Aveva le ante scorrevoli ed era color crema. Non panna o ghiaccio o avorio. Crema, come il signore desiderava. Sembrava quasi che lo avessero realizzato a esplicito esaudimento dei suoi gusti impossibili.
Con espressione colpevole Andrea le chiese di sedersi sul letto, vicino a lui. Doveva parlarle.
Guardandola si sentì morire. Era bella come tutto. Indossava una tutina verde e un paio di ciabatte pelose che solo ai piedi di una donna possono sembrare graziose. Poi aveva un cerchietto nei capelli e un paio di occhiali con montatura violetta, perché aveva paura di operarsi col laser.
Giulia lo guardò interrogativa, accennando un sorriso timido che sfumò con il passare dei secondi. Andrea avrebbe voluto saltarle addosso, divorarla di baci, confessarle che la adorava e supplicarla di restare sempre con lui.
Invece le disse ben altro. Una sola frase, breve e tagliente. Lei rimase congelata, eccezion fatta per i piedi, che spostò istintivamente all'indietro, nascondendoli sotto il letto.
Ci fu silenzio.
Poi un paio di parole di lei. Ancora silenzio e qualche parola di lui. Infine, occhi umidi, di entrambi. Giulia si alzò, prese alcuni vestiti e andò in bagno a cambiarsi, lasciando Andrea seduto, con il viso fra le mani.
Gliel'aveva detto davvero! Si sentì corrodere da dentro, come se il sangue gli si fosse trasformato in acido. Ma era fatta.
Percepire i rumori di lei che si cambiava, senza poterla vedere, fu atroce. Gli sembrò di perdersi gli ultimi suoi movimenti che gli sarebbe stato consentito di vedere. Così cercò di immaginarseli, ricostruendoli dai suoni che gli arrivavano.
Poi, Giulia riapparve sulla soglia. Adorabile, a dir poco. Tranne che per gli occhi, un po' pesti, che lo fecero sentire un totale cretino.
Si guardarono. L'espressione di lei era di quelle che ne contengono diverse altre. Si distinguevano rabbia, delusione, tristezza. Ma anche sbigottimento, perché aveva da poco udito l'ultima frase al mondo che avrebbe mai pensato di sentir partorita dalla bocca di Andrea. L'ultima. Avrebbe creduto di più a uno sbarco degli alieni o all'Uomo ragno o alla collisione fra la Terra e Nibiru. Ma al suo Andrea con un'altra, no. Proprio no.
Prima di andarsene, con la voce rotta gli disse che avrebbe voluto sapere tutto. Chi fosse lei, come, dove e quando si fossero conosciuti. Cose simili. Se lo meritava, disse. Ma non in quel momento, perché voleva solo andare a casa sua, che fortunatamente aveva ancora, e starsene un po' tranquilla.
Poi le si addolcì la voce e sull'orlo del pianto gli chiese come fosse possibile che solo due giorni prima fossero insieme, per mano, a misurare comodini. Non ci fu risposta.
Infilò il cappotto e fece per andarsene, ma pose un'ultima domanda. E almeno a quella voleva soddisfazione proprio in quel momento. Chiese se tutte le volte in cui lui aveva mandato a monte i loro appuntamenti perché non si sentiva bene e camminava male e inciampava e aveva mal di schiena... si interruppe.
Rimase in silenzio qualche secondo, alternando lo sguardo fra gli occhi di lui e il pavimento. Poi riprese. Lo pregò di dirle la verità. Volle sapere se erano state sempre scuse per vedersi con l'altra.
Andrea sbiancò ulteriormente; poi, col tono di voce di uno che sta per rigirarsi una katana nell'addome, le diede una risposta secca:

- Sì - .

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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