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Autore: Luca Inglese
Paolo Roma
Giallo Dark
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Paolo Roma
- La vita di un agente di custodia - episodio 2: Caccia a un evaso.

Anomalo è il ritorno alla normalità per il nostro povero agente di custodia in seguito alla scoperta e smantellamento di una banda d'invasati stupratori che da anni, in barba a chiunque e per merito di essersi infiltrata dappertutto, se l'era cavata di agire senza che nessuno le dicesse niente.
Paolo Roma era ancora impegnato a guidare la sua auto mentre il vento gli scivolava tra i capelli, seguendo il tragitto che lo separava per raggiungere Vercelli provenendo da Pezzana quando, sicuro di avercela fatta a portare a termine qualcosa di buono, per una grama volta si fece scappare un sorriso. Un flebile approccio a ciò che chiunque, con ingenuità, avrebbe potuto accostare alla felicità e ad un sentimento di pura soddisfazione personale.
Addosso, e per buona parte dei vestiti che dal mattino egli indossava, il sangue ancora rappreso e appartenente all'uomo a cui si era lui ostinato dare la caccia, ricoprendolo per intero, gli confermò l'idea di essere diventato più un macellaio e non, come lo era sempre stato, un agente di custodia assegnato al carcere della sua città.
Esausto e con i postumi di una stanchezza che iniziava a pervadere il suo corpo intaccandogli anche l'anima, Paolo continuò a guidare l'auto senza più concedere alla negatività l'occasione d'incupirgli il viso e anche la mente.
Il passato, oscuro e maledetto, per un attimo era come se si fosse dissolto e lui, libero di respirare senza affanno, si sentì quasi in pace con sé stesso. Con quell'idea a intorpidirgli la mente, lui continuò a viaggiare seguendo la carreggiata che lo stava riportando in carcere. Al suo tanto amato carcere. Al luogo presso il quale egli sapeva sempre di dover ritornare perché una divisa e un distintivo gli imponevano di farlo.
Paolo guidò come se si trovasse sotto l'effetto di un'ipnosi fin quasi dirimpetto la piazza e l'imponente sagoma della prigione di Vercelli che, all'improvviso, ambedue gli si presentarono davanti un attimo dopo aver fermato l'auto all'incrocio, inchiodando davanti a un passante giusto tra Corso Italia e Via Salvatore Vinci.
Atteso giusto il tempo di permettere ad una vecchietta di attraversare la strada e scomparire tra il filare di alberi che gli stava accanto, Paolo voltò subito lo sguardo e l'auto a sinistra, deciso a raggiungere il cuore pulsante della città. Il luogo dove tutto sembrava nei paraggi nascere e in seguito diffondersi: P.za Amedeo IX. Un'area apparentemente identica se paragonata al circondario, ma differente dal resto della città per il semplice fatto che qui, e non altrove, la maggior parte dei poteri militari era solito possedere una casa e il proprio quartier generale.
Dalla Polizia ai Carabinieri e addirittura la Questura, era attorno a Piazza Amedeo IX che la loro vita sembrava ruotare, come se ciascuno fosse un cavaliere prostrato innanzi alla rispettiva dama o regina: la prigione di Vercelli. Il luogo dove un alveare di giudici, agenti di custodia e carcerati erano obbligati a coesistere e a vivere, fin quando il compimento del proprio percorso si fosse assolto, così anche una pena e la condanna.
Che fosse per esprimere una sentenza oppure rispettare l'ordine, o solo espiare un peccato, essi sarebbero rimasti insieme e all'interno della struttura come le facce di un'unica medaglia. Perché un destino li aveva voluti fratelli e nemmeno il Signore, oppure il Demonio con i suoi eserciti di anime dannate, intercedendo, ci avrebbe potuto fare qualcosa per evitarlo. Per sciogliere quell'inscindibile legame di vita, dovere e sangue.

Era trascorsa una manciata di ore dal momento in cui, allo scoccare dell'alba e in seguito a una scoperta giudicata inverosimile, chiunque di Piazza Amedeo IX si era fermato a fissare Paolo Roma salire in auto e abbandonare il servizio in carcere. A prepararsi, così, e iniziare la caccia a un branco di farabutti stupratori e vigliacchi presenti da chissà quanto nella campagna vercellese.
Persino il panettiere con il negozio all'angolo e a pochi metri dalla prigione, da sempre impegnato a sistemare il pane e contare le monete guadagnate, per l'occasione, sembrò distrarsi e fissare l'agente di custodia scomparire, seminando anche il panico dappertutto.
Ora, invece, Paolo Roma faceva finalmente ritorno in carcere. Mancava ormai solo un'ora alla conclusione del turno e, sebbene sentisse la schiena scricchiolare a causa dei colpi inferti durante la lotta e la colluttazione con la banda e il suo capo, egli decise che era più corretto concludere il servizio e salutare, piuttosto che marcare vista e filare a casa come un lavativo.
Era già pronto a riprendere il lavoro da dove lo aveva interrotto e, sopra ogni cosa, a sgravare di responsabilità il poveraccio che si era convinto a sostituirlo quando, deciso più che mai ad agire e ad andarsene, Paolo era riuscito ad ottenere un cambio turno.
A tutto sembrava a questo punto essere pronto l'agente Roma, meno che mai ad assistere a ciò che i suoi occhi, una volta raggiunto l'obiettivo e il parcheggio, gli concessero d'inquadrare.
Un'apocalisse di caos in procinto di evolversi, come l'inferno che in certi momenti della vita si presenta davanti ai più sfortunati, rese informato l'agente in questione di quale sciagura fosse ora assoggettato il suo carcere.
“Oh cazzo!”
Gli scivolò fuori di bocca prima che la scena di un edificio in fiamme e per una porzione, abbagliandogli la vista, lo obbligasse a inchiodare e strozzarsi la saliva in gola.
L'intera area di sosta dirimpetto la prigione, da sempre in uso esclusivo agli agenti di custodia e alle camionette per il trasporto di prigionieri da dentro a fuori e viceversa, per una volta sembrò appartenere a qualcun'altro. Per l'occasione, a un considerevole numero di mezzi dei vigili del fuoco, ambulanze e quanto di utile per sedare un inferno e in più ancora, per trarre in salvo quante più vite possibili o cadaveri estraibili.
Il caos, così come il fumo ormai pronto ad invadere il circondario, si era così diffuso da rendere quasi idrofoba qualsiasi persona che fosse presente nei paraggi, anche i curiosi che dopo essersi prodigati per accorrere al richiamo di uno spettacolo impareggiabile, iniziarono a fare dietro front per paura di finire anch'essi arrosto. Ma se già sembrava essere sufficiente il presente fatto per arrecare disonore al carcere, ci pensò una corda appesa ad un'inferriata e ora penzolante, a far capire a Paolo quanto grande e grave fosse la situazione in quel preciso momento.

Dall'altra parte e nell'ala ovest della prigione, dove una folta fila di celle ricoverava in un unico braccio le mele più marce custodite al suo interno, qualcuno era riuscito a crearsi un varco sufficientemente ampio da passarci attraverso e fuggire. Poi e una volta fuori, grazie a una rudimentale corda ricavata da tante lenzuola annodate come se fossero amanti, dopo essersi calato a terra e aver raggiunto il prato a decine di metri più in basso, da quel punto di sicuro si era preoccupato di prendere immediatamente il largo.
Paolo per un attimo si sentì indeciso se pensare al suo carcere e all'incolumità delle persone imprigionate all'interno, oppure al fatto che uno o più carcerati si trovassero ora a piede libero, ma terrorizzato maggiormente per l'evasione che per l'inferno a cui già un considerevole numero di vigili del fuoco si stava adoperando per porre rimedio, alla fine sembrò propendere per indagare. Ecco perché, dopo essersi fiondato come una furia fuori dall'abitacolo, l'uomo iniziò a zigzagare come un pazzo tra la folla e un buon numero di addetti antincendio, sperando di raggiungere il punto interessato il più rapidamente possibile.
Con l'illusione d'intercettare uno o più detenuti in procinto di scappare, l'uomo iniziò a correre e spintonare chiunque si trovasse tra lui e l'obiettivo che si era prefissato.
Raggiunto il posto con il cuore ancora indeciso se scoppiargli o uscirgli definitivamente di bocca, l'agente di custodia si poggiò (ansimando) con ambo le mani sopra il parapetto, nel punto esatto dove, di fronte, un'evasione doveva essere iniziata.
Paolo si protese in avanti appoggiando sopra la protezione in legno entrambe le mani, sbilanciatosi anche con il corpo per inquadrare meglio la scena, ma nulla sembrò fargli credere che ci fosse ancora qualcuno ad attenderlo. Nulla e nessuno, eccetto una corda impegnata continuamente a oscillare.
In cerca di una traccia che il suo occhio non se l'era cavato d'individuare, dopo aver passato interminabili secondi a guardare dappertutto, l'unica cosa che sembrò saggia a Paolo fu scavalcare il parapetto e gettarsi di sotto.
L'erba soffice di un terreno abbandonato da tempo, intercedendo in suo favore, aiutò quest'ultimo per impedirgli di spezzarsi un osso mentre toccava con ambedue le gambe il terreno.
Rimessosi subito in piedi anche se ancora incerto e mezzo acciaccato, Paolo iniziò a correre barcollando come se fosse un ubriaco. L'unica cosa importate adesso, era non perdere tempo. Ecco perché come un cane da fiutò iniziò a setacciare l'area nella speranza di ricavare qualcosa, anche solo un indizio oppure i segni tangibili del passaggio frettoloso di un evaso. Ma sconfitto in seguito a una ricerca che non produsse nulla se non la sua delusione, a un certo punto, al povero agente di custodia non sembrò rimanere altro che ingoiare la sconfitta e andarsene.
Ritornato successivamente ai piani alti e dove il caos non si era ancora estinto, l'agente si preparò ad introdursi a questo punto all'interno per offrire il suo aiuto a chi ne aveva bisogno. Ma fatti pochi passi dopo aver varcato l'ingresso e il portone principale, il poveraccio si ritrovò a nuotare contro corrente e in senso opposto a un fiume di persone in preda al panico.
Certo di dover malgrado i presupposti rimanere, non perché lui desiderava sacrificarsi o essere ricordato come tale, Paolo andò ancora avanti spingendosi lungo i corridoi che resi lugubri e ora ombrosi gli diedero anche l'idea del pericolo.
La speranza di non assistere in diretta e a spese proprie al crollo del carcere, gli diede l'arroganza di proseguire per qualche metro, e che se si voleva tentare un salvataggio, era necessario raggiungere l'ala di contenimento est del carcere. Il punto dove Paolo era certo di trovare carcerati ancora rinchiusi a chiave in cella, e dove a giudicare dal progredire dell'incendio, era urgente che qualcuno vi accedesse per tentare qualcosa.
Solo e con poca aria che gli ustionava i polmoni, l'agente Roma si trovò a irrompere nel locale che stava cercando quando, afferrata la manopola di aggancio o distacco del sistema di bloccaggio alle celle, a giudicare dal calore, probabilmente non mancava molto alle fiamme per irrompere anch'esse là dove era lui adesso.
Roma non rimase un secondo di più da quelle parti, e dopo aver mosso la leva verso il basso e costretto le celle a sbloccarsi all'unisono, in un istante se ne volò via.
Raggiunto di conseguenza il corridoio dirimpetto una lunga fila infinta di porte ancora chiuse a chiave, l'uomo attese ancora qualche secondo prima di assistere in diretta allo sbloccaggio vero e proprio, e prima che una banda di taglia gole iniziasse a costipare il corridoio per poi riempirlo tutto.
Aperte all'unisono per l'incedere di un robusto ingranaggio, così anche le grida di quei poveretti iniziarono a invadere il locale rendendolo saturo di echi e rumori.
Paolo era sicuro che qualsiasi cosa avesse tentato di dire o fare per non spaventarli, la dolcezza sarebbe servita solo ad apparire debole e, data anche l'urgenza e il poco tempo a disposizione, al posto di parlare egli preferì a quel punto urlare e diventare quel'aguzzino in grado di mettere in riga chiunque osasse contraddirlo. Persino il demonio che, a vederselo comparire davanti all'improvviso e in quello stato, oltre a scansarsi, non si sarebbe nemmeno sognato di porgergli un saluto.
“Statemi bene a sentire, branco di senza Dio che non siete altro”.
Tuonò in faccia a chiunque, senza però incespicare o balbettare mai.
“Se avete a cuore la pelle che vi appartiene fin dalla nascita, allora sarà meglio per voi ascoltare e darmi anche retta”
Disse loro e a tutti.
“Altrimenti, in caso contrario, se anche uno solo ha in mente di fare il furbo e agire di testa propria, allora stia già certo che a ucciderlo non ci penserà il fuoco, perché per allora, per quando arriverà il momento, ci avrà già pensato il sottoscritto e con queste mani”.

Luca Inglese

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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