Il Nuovo Lignaggio.
Anno 1997
Erano ormai dieci ore che spingeva, ma adesso iniziava a rantolare, quasi che avesse difficoltà a respirare. Le avevano somministrato i farmaci eseguendo l'immunoprofilassi, dato che il suo sangue presentava il fattore RH negativo e, constatato che non avevano tracce del gruppo sanguigno del padre, non avevano avuto altra scelta. Il volto cianotico e la gola gonfia, furono le ultime avvisaglie di un'imminente tragedia, fino a quando la levatrice non decise di compiere un atto disperato. Con una manovra non facile, tentò il tutto per tutto; con una mano schiacciò la pancia usando l'ultima energia che le restava, mentre con l'altra s'insinuò nell'apertura, per aiutare il bambino ad uscire. E il miracolo avvenne. I vagiti colmarono la stanza, ma nello stesso istante gli occhi della giovane puerpera iniziarono a riempirsi di lacrime, lacrime di dolore, poiché da lì a pochi secondi avrebbe dovuto separarsi dal suo bambino per sempre. “Aspetta... voglio toccarlo solo per una volta” pregò, con la voce rotta e roca. “No!” replicò secca la levatrice “é contro le regole” concluse acida. “Ti prego! Ti prego!” insisté la giovane, tentando di alzare la schiena per poter, almeno, osservare il visetto paonazzo del piccolo. “Ferma! Hai siglato un contratto, ora il bambino é in mano alle autorità. Cerca di dimenticare, prima ci riesci e meglio sarà per te” sentenziò la donna. Ella sparì dalla sua vista lasciandola in uno stato di profonda disperazione e sgomento, a soli quindici anni non avrebbe mai potuto occuparsi di un figlio, e l'adozione le era sembrato un gesto sensato, ma ora, dopo che l'aveva udito piangere materializzandosi in un corpicino vivace e paffuto, le era parso che il rimorso per quella scelta l'avrebbe accompagnata per molto, molto tempo.
Anno 2015
(Ian)
Il fischio insidioso e perforante iniziò come tutte le altre volte. Poi arrivò l'emicrania, insopportabile, lancinante, furiosa, che mi costrinse a chiudere gli occhi, come se fossi accecato da una luce abbagliante, infine comparve il rantolo, che portò i miei polmoni al culmine dello spasmo, facendomi accasciare a terra. Non le contavo più le frequenze in cui mi era successo, solo durante la cura si erano fatte lievi e saltuarie, ma il più delle volte le avevo avvertite comunque. Io le chiamavo semplicemente allucinazioni, abbagli, deliri, ma nessuna di queste parole era in grado di spiegare cosa vedessi realmente. Erano simili a ologrammi, ma a differenza della freddezza e della staticità di tali immagini, io ne avvertivo il calore, il suono dei sospiri, il timbro storpiato di una voce roca e profonda, che mi perforava i timpani e si faceva disperata, implorandomi di fare qualcosa, qualcosa che non avevo ancora compreso. L'apparizione fu orripilante, spaventosa, agghiacciante, succedeva sempre quando m'intestardivo a non voler prendere i farmaci, e lo facevo solo per restare lucido ed avere la testa in ordine per studiare. Avevo solo diciassette anni, e non volevo continuamente apparire sempre come uno zombie, uno zombie che sopravviveva ogni giorno, cercando di resistere all'impulso di farla finita con una bella corda stretta attorno al collo. Sì, ci avevo pensato spesso, talvolta era stato così difficile andare avanti che non avevo visto alcun spiraglio innanzi a me, solo un pozzo nero e privo di fondo si era affacciato violentemente nella mia mente, proiettando pensieri pulsanti di morte, ma poi, uno strano senso di sopravvivenza, mi aveva impedito di compiere l'atto. Ed ora l'incubo si ripeteva come un loop senza fine, che mi scaraventava in un abisso senza precedenti, dato che quell''immagine si era fatta nitida, cristallina, riconoscibile in un uomo, dal cui volto sfigurato, zampilli di sangue rosso scarlatto, vomitavano senza mai cessare. Ad un tratto un suono storpiato, simile ad una voce arrochita, giunse alle mie orecchie. “Aiutami” mi parve di udire, poi tutto sfumò, rendendo quell'immagine solo un ‘ombra scura. Mi scossi, tentando di rialzarmi dal pavimento, avrei dovuto farmi forza, pur sapendo che quell'ombra mi avrebbe seguito per tutto il giorno come un marchio indelebile. Non avevo mai compreso il motivo per cui, fin da piccolo, queste ‘visioni' mi avevano investito, sapevo solo che all'età di dieci anni avevano affermato che avrei potuto sviluppare la schizofrenia, così mio malgrado ero stato costretto a prendere farmaci, farmaci che avevano affievolito i sintomi, ma agivano trasformando il mio corpo e la mia mente in un involucro di carne e sangue completamente privo di lucidità. Inoltre, i miei problemi non finivano qui, la mia situazione familiare rasentava la disperazione più acuta che un essere umano potesse sopportare. Sapevo di essere stato adottato, e sapevo anche che i miei pseudo-genitori lo avevano fatto per incassare l'assegno di mantenimento che gli assistenti sociali avevano deciso per loro, pertanto, nessun gesto di amore o di affetto aveva dettato la loro scelta, e io naturalmente ne avevo pagato le conseguenze. Riuscii ad alzarmi con fatica e a dirigermi verso il cassettone, al cui interno conservavo, sotto ad una pila di maglie smunte e dismesse, una piccola scatola. Raccolsi la pastiglia che mia madre mi aveva consegnato la sera prima di coricarmi, e la depositai assieme alle altre. Ne contai una trentina, infatti era un mese che non le assumevo, ecco il motivo per cui le visioni si erano fatte spaventose. Indossai i jeans e la maglia, impilai i libri e li ficcai furioso nello zaino, quando una voce assordante raggiunse le mie orecchie. Era lui, quella specie di pseudo-padre che mi stava chiamando. L'umore scivolò nel precipizio, causandomi un'ansia senza precedenti. Era un uomo nerboruto, rozzo e quasi analfabeta, capace solo di bere fino a stordirsi. Il più delle volte alzava le mani sia su di me, e sia su quella povera donna che aveva sposato, pertanto, avrei dovuto controllare la rabbia, ogniqualvolta chiamava a gran voce il mio nome. Cosa cazzo voleva di prima mattina? Infilai la porta, cercando di domare le vertigini che iniziarono ad assalirmi a causa della crisi, e feci due gradini per volta rischiando di cadere. In pochi secondi gli fui di fronte. “Cosa vuoi” dissi con voce atona, “Devi venire con me nella rimessa. Ho bisogno di due braccia in più” ordinò, dandomi le spalle senza lasciarmi il tempo di ribattere. Sarebbe stato inutile dirgli che sarei giunto in ritardo per la lezione, da quando avevo memoria l'unica parola che contava era solo e soltanto la sua. Nel passare accanto al disimpegno vidi mia madre, aveva un'espressione preoccupata, il suo occhio nero era ancora ben visibile sotto quel velo di trucco che, maldestramente, si era messa per nascondere l'ecchimosi. Giungemmo innanzi alla rimessa, lui si fermò e disse “Carica tutti i sacchi e stai attendo a non farli cadere! Se ne rompi uno te la faccio pagare.” Non replicai nemmeno, feci ciò che mi aveva detto, e quando terminai il lavoro cercai di ripulirmi come meglio potevo. Mi diressi all'esterno, ma la sua voce rimbombò di nuovo “Dove credi di andare?” chiese, con un tono grave, “A lezione” risposi secco. “Ah... la scuola, bella perdita di tempo per uno come te! Lascia perdere, forse ti conviene portare a casa qualche soldo, invece di farti mantenere” dichiarò. Cercai di non scoppiare, gli passai di fianco con la testa bassa sperando che non continuasse la solita pantomima di sempre, e per uno strano caso fortuito, cessò di torturarmi, lasciandomi andare. Pensai che avesse fretta di portare quei sacchi a destinazione, perché di solito, finiva sempre peggio. Oggi avevo avuto fortuna.
Quando entrai in laboratorio erano già tutti riuniti, il professore alzò il viso e mi guardò seccato. “Scusi per il ritardo” mi giustificai, tentando di eludere tutti gli sguardi che mi si erano incollati addosso, ma come succedeva spesso, non ero bravo a mascherare i miei stati d'ansia. “Si sieda nella fila in fondo, davanti non c'é più posto” annunciò il professore, indicandomi lo spazio vuoto. Restai in silenzio e feci quanto mi aveva ordinato. Immediatamente mi resi conto che non era una lezione ordinaria quella, i miei compagni stazionavano appiccicati attorno alla cattedra, il cui posto non era occupato dal professore, ma bensì da una persona sconosciuta. “Che succede?” chiesi a Logan, uno dei pochi con cui riuscivo ad interagire, “Si chiama Progetto Sky, é un software rivoluzionarlo, stamattina ci presentano la demo” spiegò. “Chi é seduto al posto del prof? Da questa posizione non si riesce a vedere niente” dissi, lui spostò la sedia e mi si avvicinò, sembrava volesse parlarmi accostato all'orecchio. “Si chiama Liv, é una ragazza, un po' dark per i miei gusti, ma ha un viso da cartolina” disse, nello stesso istante che assimilai quell'informazione la siepe umana si mosse, lasciando un piccolo varco nel mezzo, utile a mostrare la sconosciuta. Vidi una chioma corvina e due occhi di cielo, un cielo terso tendente al turchese. Restai in apnea per qualche secondo, poi deglutii. Iniziò a parlare concitata, spiegando dettagli tecnici che faticavo a comprendere. Captai solo qualche parola, ma il filo logico del discorso lo persi completamente. “Non sento un cazzo” imprecai, così mi alzai per affiancarmi alla ressa, in realtà desideravo osservarla da vicino, non potevo credere di aver visto davvero il suo viso. Ad un tratto la ragazza iniziò a spiegare i dettagli, disse “Ora vi farò capire il vero potenziale di questo strumento, osservate!” Mostrò sul monitor una sagoma simile ad un'ombra ricavata dall'effetto infrarossi. Tutti si spinsero in avanti, mentre io restai fermo, impalato di fronte alla visione del suo volto. Non era da me fissare qualcuno in quel modo, ma avvertii una strana energia che mi obbligò a guardarla. Lei manco se ne accorse, anzi, continuò imperterrita a presentare ciò che nessuno era in grado di comprendere fino in fondo. “Vedete? Il software, tramite una web-camera sofisticata, assimila i tessuti e li proietta sul monitor, trasferendoli quasi in tempo reale. Quello che stiamo vedendo non é altro che la maglia azzurra appartenente a... come ti chiami?” chiese all'improvviso, fissando quello stronzo davanti a lei. “Per te solo Leo, piccola!” replicò lo studente, con voce suadente. La ragazza divenne seria, alzò il sopracciglio destro e con tono piccato rispose “Piccola sarà la troietta che ti fotti, quando parli con me usa il mio nome, é chiaro?” rispose di getto. Leo sgranò gli occhi, diventò vermiglio in volto, e restò in silenzio, mentre il prof si grattò la testa in segno di disappunto. Io restai basito da quel linguaggio da scaricatore di porto, ma chissà perché mi piacque a pelle.
Senza pensarci due volte dirottò l'immagine verso di me, ma dato che stavo dietro ad un altro studente, ciò che si materializzò sul monitor fu solo il cotone della maglia piuttosto sgualcita del mio compagno. Ad un tratto, dopo qualche secondo, accadde un fatto. Lo studente davanti a me si spostò, lasciando campo libero alla web-camera, che inquadrò tutto il mio busto. La ragazza ebbe un sussulto nel vedere i contorni sdoppiarsi, alzò il viso e mi fissò diritto in faccia. Annegai all'istante in quel mare turchese che sembrò inghiottirmi tanto era profondo, ma fu la sua espressione che mi spaventò, quello sguardo nascondeva qualcosa, qualcosa che faticavo a comprendere. “Ma che cazz... ” imprecò, quindi impallidì all'improvviso, fu in quel momento che realizzai un fatto incontrastabile, lei che ce l'aveva con me! Spaventato a morte, indietreggiai tutto d'un tratto, quindi sparii dalla sua vista come un fulmine. E anche se udii a più riprese la sua voce che gridava “Aspetta! Aspetta!” non ebbi nessuna esitazione, dovevo mettere metri e metri di distanza da quel maledetto aggeggio. Cosa cazzo aveva visto per allarmarsi in quel modo?
Elena Caserini
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|