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Autore: Lisabetta Mugnai
Perché non si dica che amo solo i cani
Narrativa
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Perché non si dica che amo solo i cani
Di ritorno dalle vacanze, il professor Stefano Federici, (Professore associato di Psicologia all'Università di Perugia) mentre sta ancora elaborando tutte le emozioni vissute in quel viaggio, è messo sotto pressione dal suo editore che gli chiede a più riprese di scrivere un articolo.
Così, esasperato, gli dice: “Lei non è epimeletico!” E parte con una definizione dell'epimeletica molto più ampia di quella che viene data comunemente e che mi trova concorde.
Proprio a Istanbul, dove era in vacanza, il professor Stefano Federici ha riflettuto sul sentimento epimeletico, la cui natura secondo lui è più profonda e antica dell'essere umano stesso, che ci spinge a prenderci cura di qualunque animale dimostri di averne bisogno. Siamo stati programmati a riconoscere i tratti di un cucciolo e la sofferenza di un animale ferito, la disponibilità alla resa del più debole di fronte all'aggressore e quindi al nascere in noi di un insieme di azioni ed emozioni istintive, difficili da controllare razionalmente, cito le sue parole.
Il professor Stefano Federici racconta che poteva in qualche modo controllare con il pensiero la tristezza che gli procuravano lo sfacelo del museo di Santa Sofia, l'incuria dell'arredo urbano che circondava la bellezza sublime e mistica delle antiche moschee. Con difficoltà, invece, controllava l'istinto di un sentimento che nasceva improvviso e inaspettato in una metropoli che non solo non aveva cura del suo passato, ma sviliva il suo presente nell'incuria degli animali.
- La grandezza di una nazione e il suo progresso morale possono essere valutati dal modo in cui vengono trattati i suoi animali - , cita Gandhi il professore e giustamente.
Epimeletico, dunque, è assai più di un atavico comportamento animale che ha garantito tra i mammiferi la sopravvivenza dei cuccioli. È l'unità di misura di una civiltà, il metro più comune. Meno che bestie, farebbe di noi una civiltà che non insegnasse ai suoi figli a prendersi cura dell'altro, animale umano e non. Queste sono le parole del professore e io le condivido appieno. E conclude: forse, se all' Editore avessi detto "lei non è empatico", l'avremmo fatta più corta. Ma poi, non avrei saputo che scrivere!
E poi, aggiungerei io, l'empatia è qualcosa di un po' diverso. La parola empatia deriva dal greco e significa provare le stesse sensazioni ed emozioni dell'altro. Si è in empatia con un'altra persona nel momento in cui ci si cala nei suoi stessi panni e si percepisce allo stesso modo la realtà.
Ed è senza dubbio una capacità straordinaria, meravigliosa se non si ferma lì. Voglio dire che si può essere empatici e quindi possedere l'abilità di immedesimarsi in un altro ma, dopotutto, a questo punto si può anche rinfilarsi nei propri cenci e, salutando (perché l'empatico in genere è anche educato), tornarsene a casina propria.
Solo se siamo anche epimeletici, io penso, riusciamo ad andare oltre e a farci carico di questo altro, uomo o animale che sia.
Basta comunque non incensarci troppo e non scordarci mai che, alla base di tutto, probabilmente, ci sono le nostre basi biologiche, il nostro essere animali sociali e quindi sappiamo bene, magari qualcuno solo inconsciamente ma lo sappiamo, che è fondamentale essere altruisti perché può sempre succedere di avere bisogno e se hai dato... qualcuno ti darà. Forse. E certe volte è proprio grazie a coloro con i quali entriamo in relazione che aiutiamo sì loro, ma anche noi stessi attraverso la gratificazione che ne deriva, attraverso la sensazione, a volte, di essere indispensabili alla loro vita. Anche se questo poi è tutto da dimostrare... Quindi, voliamo basso... non siamo poi così buoni, o almeno non solo, me compresa.
Ecco, prendiamo me per esempio.
Io credo di avercela l'epimeletica, anzi sono sicura di avercela però selettiva, molto selettiva.
Con gli animali mi funziona, ma non con tutti.
Sono sicura che se incontrassi un piccolo di serpente o di ragno non mi scatterebbe nessun istinto di prendermi cura di lui. Certo non lo ucciderei ma, diciamo che lascerei fare alla natura...
Con gli esseri umani mi funziona pochissimo, soprattutto da un po' di anni a questa parte.
Un tempo non era così.
I motivi possono essere svariati. Invecchiando in genere si diventa più tolleranti e comprensivi, si tende a sorvolare fermandosi solo sulle cose davvero importanti. Ma io non sto invecchiando così... ho mantenuto intatta la mia poca pazienza e tolleranza e ci ho aggiunto una buona dose di acidità.
Sarà che sono zitella? Può essere.
Di fatto i miei simili mi piacciono sempre meno, preferisco di gran lunga e con le dovute e preziosissime eccezioni, la compagnia degli animali.
Speriamo che anche loro gradiscano la mia.
I cani li amo proprio tanto. Preferibilmente quelli dalla taglia media in su... In assoluto i pastori tedeschi e non sto qui a rispiegare il perché, l'ho già fatto in un altro libro. Ma amo in genere gli animali, e sì, più di molti esseri umani. Non ho mai pensato di un cane che se non ci fosse il mondo sarebbe un posto migliore. Nei confronti di diversi esseri umani invece sì che l'ho pensato.
Nella vita per fortuna si fanno incontri che sono come dei segnaposti, incontri che decisamente ci hanno migliorati e ai quali si ricorre con il pensiero per ritrovare fiducia e forza. Almeno per me è così.
E sicuramente, per quel che mi riguarda, due in particolare sono stati fondamentali per me, hanno messo a dura prova la mia pazienza e tolleranza e mi hanno regalato emozioni profonde e morbidezza.
Magari per qualcuno che è nato malleabile questi regali possono sembrare poca cosa. Per me che sono rigidina e severa sono stati una benedizione.
E questi due incontri riguardano due ragazzi, Antonio e Sanela, lui italiano e lei anche ma di etnia Rom. Due persone che più diverse per storia personale, origini, cultura e carattere non avrebbero potuto essere.
Sono immensamente grata a loro per essere, un giorno lontano, entrati nella mia vita, io mi godo ancora i frutti dei regali che mi hanno fatto.
Sanela, ovunque sia adesso, purtroppo non più sulla terra, forse avrà modo di saperlo. Antonio penso lo sappia, e se legge, lo saprà di certo.

Ma potevo scrivere qualcosa senza che ci fosse qualche cane di mezzo? No, via... E quindi racconterò anche di Lady, magnifica pastorina tedesca, la cui amicizia conservo nel cuore. Prima o poi tornerò a farle visita. E di Nonno Nick, il canino rasta che ho adottato quando aveva 16 anni e che ha un posto tutto suo nel mio cuore.

E comunque, sempre perché non si dica che amo solo i cani, vorrei precisare che amo anche i gatti. Come la mia Nena.

E, infine, racconterò anche di quando mi sono girata e l'epimeletica non l'ho trovata né accanto né dentro di me, in quel momento.


SANELA



Canto per dire le mie lacrime
Quando canto è come quando piango.
Danzo per dire la mia gioia,
quando danzo è come quando rido.
(anonimo Rom)







Avevo poco più di 30 anni e vivevo con un fidanzato che ogni giorno, quando tornava a casa dal lavoro, mi raccontava episodi divertenti che riguardavano alcuni bambini rom che frequentavano la scuola elementare dove lui prestava servizio.
Si era offerto di guidare il pulmino che doveva prelevare i bambini dal campo dove vivevano e portarli a scuola.
Lui, persona delicata e dal cuore tenero e soprattutto coscienziosa, la mattina arrivava al campo, parcheggiava il pulmino e faceva il giro delle roulottes e delle baracche.
O faceva così o se si fosse limitato a suonare il clacson, ben pochi di loro sarebbero saliti sopra.
Così lui li aiutava a vestirsi, a cercare le scarpe, o almeno le ciabatte, qualcosa insomma da infilarsi ai piedi, visto che lì chi prima si alzava prima si vestiva con le cose migliori o con ciò che c'era.
Alla fine riusciva a portarli tutti (o quasi) a scuola, diventando presto un volto conosciuto e accolto molto cordialmente al campo rom.
I bambini lo adoravano, li aveva sempre tutti intorno, un po' come San Francesco con gli animali.
Con alcuni di loro aveva instaurato veri e propri rapporti d'amicizia e una in particolare era la sua preferita: Sanela.
Ne parlava di continuo e più volte mi aveva detto: passa da scuola che te la faccio conoscere, ti piacerà da matti.
Così, curiosa come le scimmie, un giorno sono passata e naturalmente l'ho conosciuta.
Bellissima, il mio fidanzato aveva ragione.
Senza peli sulla lingua, di una sincerità brutale, non si dimostrò per nulla amichevole nei miei confronti. Mi guardò a lungo, anzi direi che mi esaminò per poi sentenziare: sei proprio brutta.
Quel giorno accompagnammo lei e altri due bambini al campo all'uscita da scuola e per tutto il viaggio non fece che deridermi e provocarmi.
Canticchiava: quattrocchi, sei una quattrocchi... riferendosi ai miei occhiali e si spenzolava dal finestrino gridando tutto quello che le passava per la mente.
Era gelosa, il mio fidanzato era il suo grande amore lo capivo ma... mica si poteva rischiare che cadesse dall'auto per sfogare la sua rabbia!
Così le ho fatto pelo e contropelo, ruvida come lei che mi viene bene, dato che rospa di natura lo sono anche io.
Il resto del viaggio si svolse in un silenzio di tomba da parte sua mentre con gli altri si parlava e si rideva.
Diciamo che come primo incontro non risultò felice, però ci furono altre occasioni e lei, pur non mostrandosi interessata a me, non fece la matta come quella prima volta.
Un giorno il mio fidanzato, tornando a casa, mi disse che Sanela era ricoverata al Meyer, l'ospedale per i bambini.
Quello non era il primo ricovero, né sarebbe stato l'ultimo, Sanela soffriva di epilessia. L'andammo a trovare, lei non ci vide subito e così ebbi modo di scoprire qualcosa che, di norma, lei nascondeva. Vidi una piccoletta, sola, con l'espressione triste e impaurita.
Appena si accorse della nostra presenza ritornò immediatamente la Sanela con lo sguardo fiero e provocatorio che buttò le braccia al collo del mio fidanzato e a me disse solo: ciao.
Parlando, mi resi conto che sapeva tutto della sua malattia, che era autonoma e prendeva da sé le medicine, al campo nessuno era in grado di badare a lei e alle sue necessità.
Il padre era morto, questa almeno era la versione ufficiale, la madre era sempre in giro a chiedere l'elemosina ed era anche una donna anziana e piena di acciacchi fisici. Aveva un sacco di fratelli, di cui almeno uno in galera (ma mi pare forse due), gli altri si arrangiavano come potevano visto che, seppur giovanissimi, avevano già mogli e un discreto numero di bambini.
Nessuno sarebbe mai andato a farle visita mentre era ricoverata, non avevano tempo né mezzi per arrivarci visto che il campo era parecchio distante.
Sarebbero andati a prenderla, certo, ma non è detto che l'avrebbero fatto il giorno delle dimissioni, a volte anche tre o quattro giorni dopo, se non potevano.
Il personale dell'ospedale la conosceva, ed era abituato a situazioni familiari come la sua, perciò le veniva dato il pigiama, la tazza per la colazione e quel che le serviva.
Parlando con le infermiere scoprii che il racconto che facevano loro di quella ragazzina era lo stesso che mi aveva sempre fatto il mio fidanzato: estremamente intelligente e affidabile, matura, dolcissima, premurosa, una che si faceva subito volere bene e sempre ansiosa di aiutare.
Quindi era proprio con me che ce l'aveva.
Ora, non è che io sia chissà chi, però in genere ho sempre avuto facilità nell'instaurare rapporti con gli altri, con i bambini poi figuriamoci.
È vero che non si può essere simpatici a tutti ma... continuavo a pensare che semplicemente lei fosse gelosa.
Tornai a trovarla da sola, e la delusione nei suoi occhi quando si accorse che ero solo io fu chiarissima.
Chissà cosa mi spingeva a volerla conquistare, se mi fosse scattata l'epimeletica a vederla affrontare da sola l'ospedale e la sua malattia, oltre alla condizione di bambina rom che certo la vita gliela complicava ancora di più.
O se ero gelosa anche io.
O se non mi andava giù che non mi trovasse simpatica...
Le avevo portato una tazza per la colazione, nuova, tutta per lei. Il suo commento fu: ah, ma ce l'ho la tazza, me l'hanno data le infermiere.
Seppi poi che quella tazza guai a chi gliela toccava, se la lavava da sé per paura che a qualche infermiera potesse cadere in terra e rompersi.
Anche orgogliosa la bimba...
Aveva dei capelli che dire splendidi non rende l'idea, le chiesi il permesso di toccarli perché sembravano di seta e volevo sentire se anche a toccarli facessero questo effetto. Lo facevano e dai capelli iniziammo a parlare.
Molto fieramente mi raccontò che lei i pidocchi non li aveva mai presi perché se li lavava tutti i giorni e li spazzolava di continuo.
I tuoi non sono mica tanto belli, mi disse.
E ridaje...
Eh, che vuoi, ormai sono vecchia, risposi.
Ma noooooooo, non sei tanto vecchia. Questa fu la cosa che più si avvicinava a un complimento che mi avesse mai detto.
Prima di andarmene le lasciai il numero di telefono dicendole che poteva chiamare quando voleva, se aveva bisogno di qualcosa.
Da quel momento furono pochissimi i giorni, durante i ricoveri ma uguale quando era al campo, in cui Sanela non mi chiamasse.
A volte solo per chiedere: che stavi facendo?
A volte mi esasperava, a volte non rispondevo quando immaginavo fosse lei.
E me ne chiedeva conto: ieri ti ho chiamata e non hai risposto, ma scommetto che eri in casa.
Sincera, come lei, le dicevo che sì c'ero e non avevo risposto perché non ogni momento avevo voglia di parlare con qualcuno, magari volevo continuare a leggere un libro.
E se io avessi avuto bisogno, se fossi stata in pericolo? Insisté una volta.
Conoscendoti, avresti richiamato mille volte di fila finché non rispondevo, le dissi. Allora si mise a ridere e iniziò a chiedere, quando chiamava (telefonando anche un pochino meno spesso), se stavo leggendo un libro.
Ironica.
Cominciammo a vederci, siamo andati a mangiare la pizza che a lei piaceva da matti, oppure a invitarla a cena da noi perché smaniava dalla voglia di conoscere la nostra casa.
Naturalmente l'andavamo a prendere al campo, dopo che lei aveva chiesto il permesso a sua madre e la sera la riportavamo.
Sempre, sempre prima di uscire Sanela si lavava (e al campo questo significava spesso doccia con acqua fredda), si profumava e si vestiva con una cura maniacale.
Se andavamo a cena a casa nostra si presentava immancabilmente con un regalo, un braccialetto fatto da lei, delle caramelle, un disegno o un loro piatto tipico, cucinato da lei, precisava, e con tanta ansia di ricambiare in qualche modo.
Era diventato piacevolissimo stare con lei, era davvero molto intelligente, divertente e sincera.
Dopo cena insisteva, e non c'era verso di farla desistere, nel lavare lei i piatti.
Io non volevo, mi pareva ci fosse in questo un sentirsi, da parte sua, in debito fino al punto di farci da domestica.
Non avevo capito nulla. Era il suo modo di esprimere la sua contentezza per le ore passate insieme.
Sanela aveva una voglia pazzesca, un desiderio vitale di integrarsi, parlava un italiano perfetto e con una notevole padronanza dialettica. A scuola andava benissimo ed era sempre pronta a conoscere i “non rom”, a vedere come vivevano, cosa mangiavano, a conoscere le loro abitudini.
Aveva idee chiare sul suo futuro. Non sarebbe mai e poi mai andata a chiedere l'elemosina, come invece adesso a volte era costretta, la domenica soprattutto, davanti alle chiese insieme alla madre, cosa di cui si vergognava moltissimo stando sempre con il terrore che passasse qualche suo compagno di scuola o qualcuno che potesse riconoscerla.
Era impressionante la sua lucidità. Era consapevole che la sua malattia se da una parte le complicava la vita, dall'altra era stata una specie di salvezza. Era per quello che alla sua famiglia non era mai arrivata alcuna richiesta di matrimonio, nessuno si sarebbe mai preso un'epilettica.
E così lei poteva studiare in pace in attesa di diventare grande e trovarsi un lavoro e andare a vivere in una vera casa. Ero sicura che ce l'avrebbe fatta.
Il passaggio alle medie la elettrizzò, le piaceva avere tanti insegnanti ed essendo andata per fortuna in una buona scuola, ne trovò molti che accolsero con simpatia le sue richieste di amicizia.
Noi continuavamo a vederci, a sentirci.
Lei continuava, ogni tanto, a finire all'ospedale, in parte perché, crescendo, il dosaggio della cura se non veniva adeguato non la proteggeva a dovere.
In altre occasioni perché bastava una forte emozione per farla svenire e avere una crisi.
Aveva imparato a parlare quando era turbata, mi chiamava se era successo qualcosa e parlando al telefono evidentemente in qualche modo l'emozione (sempre negativa naturalmente, dovuta all'aver assistito a un accoltellamento al campo per esempio) riusciva a non scatenare un attacco.
Una volta però non ci riuscimmo, Sanela mi chiamò singhiozzando e con la voce che le tremava mi raccontò di aver assistito all'incendio che aveva distrutto delle baracche, ne avevano parlato anche i giornali, di aver visto tutto e sentito le urla e sapeva che dentro c'erano dei bambini piccoli che, ovviamente, erano morti.
Poco dopo la telefonata Sanela ebbe una crisi violenta e la telefonata successiva me la fece dal Meyer.
Mi disse che mi doveva dire una cosa ma che prima dovevo giurarle di non dire nulla al mio fidanzato.
Dopo che ebbi giurato solennemente mi disse che le erano venute le mestruazioni e che non sapeva come fare.
Andai di corsa a comprarle una scorta di assorbenti.
Mi accorsi che mi tremava la voce quando li chiesi alla farmacista e lei, forse pensando che fossi timida, mi fece passare nelle stanze dietro e me li incartò lì.
Il fatto è che io e Sanela per certi versi eravamo simili, toste all'apparenza, ma anche fragili e le prime sue mestruazioni, il fatto che ne avesse parlato solo a me, mi fecero questo effetto, mi commossi.
Anche lei aveva le sue di fragilità, per esempio aveva paura del buio e nella sua baracca dovevano dormire con la luce accesa sennò iniziava a tremare.
E aveva paura di rimanere da sola in una stanza, compreso il bagno.
Perciò quando era da noi dovevo rimanere con lei, sedendomi sul bordo della vasca, mentre lei faceva quello che doveva chiacchierando incessantemente.
Ho fatto un bel po' di puzzo eh? Mi diceva a volte.
Ridendo le rispondevo che ognuno aveva la sua croce, la mia era quella.
Quando c'erano le vacanze da scuola in genere Sanela e sua madre andavano in visita nei campi rom di altre città, specie a Verona, dove avevano un sacco di parenti, ma anche in Umbria, insomma in giro per i campi rom d'Italia.
Quando si arrivava a settembre, tornavano e riprendevamo a vederci e a becchettarci.
Ma sempre belle dirette, senza mezze frasi...
Una volta la discussione iniziò perché lei sosteneva che i negri puzzano e a lei facevano schifo.
Ma roba da matti! Senti da che pulpito, le dicevo io, una zingara sostiene che i negri sono sudici e puzzano. E andavamo avanti per delle mezz'ore.
A volte le dicevo: oh, ringrazia i tuoi amici al campo, qui hanno fatto visita a tutti gli appartamenti, tranne al nostro. Ne sai qualcosa tu? E lei rideva.
Che nostalgia.
Era nata di luglio, così aveva appena compiuto 14 anni quando la mattina del 13 agosto mentre sfogliavo il giornale, ero a casa in ferie, lessi un articolo che parlava di una ragazzina rom che aveva avuto un malore in un supermercato.

Lisabetta Mugnai

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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