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Autore: Giampiero Momi
Non è un addio
Narrativa
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Non è un addio
Campo di concentramento femminile di Ravensbrück, marzo 1943.

Helmut Nitsche aveva ventidue anni ed era entrato a far parte degli Allgemeinen, un corpo generico appartenente alle SS, quattro anni prima, all'età di diciotto anni.
Era nato a Brandeburgo sul fiume Havel, nella regione situata a circa settanta chilometri a nord-ovest da Berlino. La città distava una trentina di chilometri dal lago Schwed e dal campo di Ravensbrück.
Helmut era figlio di un agricoltore e di una ricamatrice ed era il terzo, in linea di età, dopo due femmine. Rosalyn ed Emma, rispettivamente di ventisei e ventiquattro anni, erano già sposate e Rosalyn aveva partorito tre anni prima due maschi gemelli.
Helmut aveva fatto parte della Hitlerjugend, la Gioventù hitleriana, diretta sin dagli inizi degli anni Trenta dal Reichsjugendführer Baldur Von Schirach.
All'età di undici anni era entrato nella Jungvolk, l'organizzazione dei giovani tra i dieci e i quattordici anni di età, affascinati dall'idea di un movimento giovanile unico e convinti così di far entrare anche nella Hitlerjugend le sue forme e i suoi ideali, cosa che non era avvenuta.
A diciotto anni, conclusi gli studi superiori, lo zio paterno, che occupava un posto di rilievo nel Partito nazista, aveva fatto entrare Helmut nel corpo delle ss. Il giovane soldato non era nei reparti combattenti, ma era stato adibito allo Stato maggiore di Göring, dove svolgeva compiti amministrativi con sede a Berlino, in Keiserallee 188.
Un'incrollabile fede nazista e la sviscerata ammirazione per il suo Führer l'avevano reso, fin dal suo esordio nell'arma, benvoluto negli ambienti dello Stato maggiore, dove in poco tempo aveva raggiunto il grado di Brigadeführer-SS, brigadiere generale.
Era un giovane alto, di corporatura piuttosto massiccia, con capelli del colore del grano maturo e due occhi azzurri penetranti e decisi.
La classica uniforme nera che indossava con i simboli dell'arma, inclusa la famigerata Totenkopf, la testa di morto, creavano intorno a lui un'aura di rispetto se non addirittura di timore.
Il giovane era stato distaccato, insieme a un drappello di SS, al sottocampo 3 di Schweg, con incarichi di sorveglianza delle prigioniere e di amministrazione finanziaria. Il campo era piccolo e adibito alla forza lavoro della fabbrica di componenti elettrici per la Siemens.
Ogni mattina Olga, dopo l'appello, usciva dal campo e percorreva a piedi con le compagne i due chilometri che la separavano dalla fabbrica. La lunga fila delle prigioniere, scortata da un numero di sorveglianti e soldati SS, marciava su un percorso acquitrinoso e poco ospitale.
Se una prigioniera non riusciva, per una qualche ragione, a tenere il passo, subito una delle sorveglianti la incitava a scudisciate a recuperare il terreno perduto.
Molto spesso gli atteggiamenti sadici e brutali delle Aufseherinnen erano di gran lunga superiori a quelli dei colleghi maschi e si prolungavano anche a turno lavorativo finito: una vera e propria persecuzione senza sosta che si accaniva anche su coloro che non espletavano alla perfezione i più semplici atti quotidiani, come rifare il letto, pulire le stoviglie o tenere in ordine il proprio abbigliamento.
Al suo secondo giorno di permanenza al sottocampo di Schweg, Olga dovette subire la violenza della sorvegliante Krombach, che la sorprese, al ritorno dalla fabbrica, sdraiata sul letto della baracca.
La giovane accusava dolori al basso ventre. Senza alcun preavviso la belva l'afferrò per i capelli e la trascinò sul piazzale antistante la baracca e, con un bastone in mano, le intimò di alzarsi.
- In piedi, ebrea! Schnell! - E, mentre Olga era ancora in ginocchio, le calò il bastone sul collo, imprimendo al fendente una traiettoria diagonale.
Un secondo colpo raggiunse la malcapitata alla tempia destra, all'altezza dello zigomo. Il sangue cominciò a scorrere dall'ampia ferita che aveva aperto. Olga, con le mani sul volto e con rabbia mista a dolore, riuscì a mettersi in piedi. Guardò la sorvegliante dritta negli occhi in segno di sfida.
Poi per lei calò il buio e crollò a terra.
Quando riaprì gli occhi, era stesa su un lettino dell'infermeria e si accorse di avere la testa fasciata. Il dolore era insopportabile, ben superiore a quello che aveva provato al momento della bastonata.
Si accorse che stava piangendo.
La belva che le aveva calato il bastone sulla testa era la stessa che mesi prima, al suo arrivo a Ravensbrück, l'aveva fissata in maniera minacciosa e inequivocabile, la stessa che senza alcuna ragione aveva continuato a perseguitarla con reiterata cattiveria.
- Non ce la faccio più. Perché, Dio, non prendi la mia anima? - Era disperata.
Poi girò la testa e vide l'uniforme nera dell'SS addossata alla parete. La stava osservando, in piedi, appoggiato allo stipite della porta, e lei riconobbe il soldato che l'aveva guardata intensamente il giorno in cui lei e Hannelore spingevano il carrello delle stoffe.
Era quello dei tre che non aveva partecipato all'offesa di alzare la gonna alla sua compagna ed era rimasto in disparte, quasi in un atto di accusa nei confronti dei suoi commilitoni.
Ora lui la stava fissando, senza mai distogliere gli occhi dal suo volto. Olga si rese conto che quello sguardo era carico di compassione.
Come può, si chiese, una SS manifestare così spudoratamente un tale sentimento? E poi, nei confronti di chi? Di un'ebrea?
No, Olga era una Untermensch, una subumana, carne da macello, come sentiva chiamare lei e le sue compagne ebree con disprezzo dalle belve delle SS. Ma quegli occhi azzurri così penetranti non la lasciavano. Fissi sul suo volto, fissi nei suoi occhi.
La stanza dell'infermeria era vuota e d'intorno tutto era silenzio. Olga capì che dovevano essere trascorse alcune ore da quand'era svenuta e che doveva essere già notte.
Perché l'hanno messo qui? continuò a chiedersi. Hanno forse paura che scappi? E dove potrei andare, così vestita e ora anche con queste bende? Non potrei fare un passo fuori dall'edificio, che
dalle torrette mi sparerebbero.
Poi improvvisamente si ricordò dei diamanti e fu percorsa da un brivido. Si tastò addosso e solo allora sentì che il cuore rallentava il suo ritmo forsennato.
Era stata adagiata sul lettino dell'infermeria ancora vestita, con lo stesso abito da lavoro indossato quella mattina. Fece scendere la mano dentro il risvolto della tasca. I diamanti erano al loro posto. Si tranquillizzò e riprese il filo dei suoi pensieri.
Perché mi fanno sorvegliare da questo maledetto soldato?
Provò un istintivo ribrezzo verso quel militare, il quale apparteneva alla schiera di coloro che erano partecipi della sua quotidiana persecuzione.
Ma perché, si chiedeva, ora stava là più in atteggiamento di supplice che di aguzzino? Eppure quegli occhi, così penetranti, dimostravano non scherno e disprezzo, quanto una sorta di vergogna, quasi lui si sentisse denudato dinanzi a lei, privo dell'arroganza abituale di coloro che indossavano la sua stessa divisa.
Olga non poteva illudersi: quel soldato era il simbolo della sua abiezione, dell'incommensurabile sofferenza sua e di tante altre donne come lei, perseguitate e violentate con crudele perseveranza e pianificazione.
Lo vide abbandonare la sua posizione e scomparire nella stanza attigua. Si sentì sollevata. Quell'uniforme nera con il teschio sulle mostrine le aveva incusso sempre terrore, sin dal suo arrivo con la madre al campo.
Sono solo degli assassini, pensò, e da costoro posso attendermi soltanto di venire uccisa, la stessa sorte toccata a mia madre.
Girò gli occhi intorno alla stanza. La lampada a soffitto dell'infermeria mandava poca luce e gli angoli del locale restavano praticamente al buio. La testa le martellava e la volta della stanza le pareva lontana, impossibile da raggiungere anche solo con lo sguardo.
Pensò a sua madre e si chiese se la sua fine fosse stata breve e quanto avesse sofferto. La stessa fine delle decine di donne che giornalmente lasciavano il campo con i famigerati Trasporti neri. Quando sarebbe toccata a lei quella stessa sorte?
Percepì che qualcuno si stava avvicinando alla porta. Era l'SS che riprendeva il suo posto, per controllare che lei fosse ancora lì.
Ma il soldato non si era arrestato sulla soglia. La nera divisa stava avanzando verso il letto. Olga ebbe un sussulto di terrore. Vide che il soldato teneva qualcosa nelle mani. Era una tazza e lui ora era così vicino da poterlo sfiorare.
L'uomo si accostò al letto. - Sono riuscito a trovare solo questo in cucina. È il brodo che danno a noi soldati. È caldo e nutriente. Bevi, ti prego. -
Erano anni che Olga non udiva più parole che avessero un briciolo di umanità e quel modo gentile proveniva da un aguzzino, da un uomo che dileggiava, picchiava e forse anche uccideva le sue vittime. Pure lei era una vittima, non c'era dubbio. Allora perché le stava manifestando la sua compassione?
Forse un attimo di tregua prima della morte? Non reagì e rimase immobile, senza proferire parola. Lui
si avvicinò ancora di più e, sedendosi sul bordo del letto, le passò un braccio dietro la schiena per sollevarla un po' dal materasso. Poi le avvicinò la tazza alla bocca.
- Sei bella, molto bella. Il destino purtroppo ci sta riservando momenti tragici. A te, ma anche a me, credimi. - Si rivolgeva a lei, a un'ebrea. - Bevi, ti prego, non lasciarti andare. Sei troppo giovane per morire e io non voglio che tu muoia. -
Sembrava sincero.
Oh, Dio, se solo non avesse addosso quell'uniforme! Se avessimo potuto incontrarci lontano da qui, pensava Rebecca. Fuori da questa guerra infinita e disumana.
Un biondo giovane dagli occhi azzurri e una fanciulla che sognava il turchese del cielo e il verde dei prati. Ma lei ora non era più quella fanciulla. Era cresciuta fin troppo in fretta sotto la mannaia di una guerra infame, di un destino crudele, e lei, ora, era capace solo di odiare. Con tutta se stessa.
Lui e la sua divisa.
Chiuse gli occhi, avvicinò le labbra al bordo della tazza e bevve un lungo sorso. Sentiva il caldo liquido ristoratore scorrerle attraverso la gola, scendere giù fino allo stomaco e poi ancora più in basso, al ventre così dolorante. Afferrò la tazza e sentì una mano sovrapporsi alla sua. Un brivido le
corse lungo la schiena e lei alzò gli occhi.
Lui la stava fissando e il suo sguardo esprimeva desiderio e non solo compassione. - Mi chiamo Helmut. Ho ventidue anni. Da dove vieni? -
- Vengo da Berlino - rispose Olga con un filo di voce. - Sono a Ravensbrück da quasi un anno. Mi chiamo Olga Zimmermann, sono la matricola 8277, ho quindici anni. E sono ebrea. -
Quest'ultima frase, la pronunciò quasi volesse gettargliela in faccia, come uno sputo. Per la prima volta lo vide abbassare lo sguardo. Rimasero così per un tempo indefinito.
Poi lui si sollevò dal letto e, allontanandosi, le disse: - Chissà se un giorno potrete mai perdonarci! - .

Giampiero Momi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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