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Autore: Alfonso Santamaria
A Dio per sempre
Narrativa
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A Dio per sempre
16 aprile 2016.

Le palpebre si alzano lente.
Lento è anche il battito del mio cuore.
Ruoto gli occhi, ma è come averli ancora chiusi.
‘Dove mi trovo? Cosa mi è successo?'.
La polvere, giù per la gola, provoca un colpo di tosse che mi ridesta dai residui di incoscienza.
Cerco di sollevare la testa per capire cosa sia il peso sul petto che mi blocca a terra. Ma ho una vertigine, e il capo ricade pesantemente all'indietro.
Darei qualunque cosa per un bicchiere d'acqua, anche solo un goccio per bagnarmi le labbra. L'unico liquido a lambire la mia bocca è invece un rivolo denso. Lo sento scorrere giù dall'arcata sopraccigliare.
Sangue! Sono ferita! Ho paura!
Stordita, non ho il senso della prospettiva. Fatico a capire se lo spiraglio luminoso che scorgo alla mia sinistra sia un bagliore lontano al di là di un'ampia fessura, oppure se si tratti di una luce vicina che filtra da una piccola fenditura.
Però quella luce dilata le mie pupille.
Riesco ora a vedere una sagoma che penzola a pochi centimetri dal mio naso. Toccarla, capire di cosa si tratta, forse mi aiuterebbe a scavare nella memoria. Il braccio pesa come piombo, ma riesco a sollevarlo.
Adesso, però, avrei voluto non capire! La mia manica si incastra alla croce appesa al collo di un corpo a testa in giù!
‘Oh mio Dio!'
Ansimante, strattono una, due, tre volte il braccio! Non solo continuo a restare impigliata al cadavere, mi cade anche in faccia un misto di polvere e detriti.
Ma detriti di cosa?
A questa mia domanda interiore fa eco una voce cavernosa, che scuote il pavimento dissestato su cui poggia il mio corpo: “Il tuo dio ti ha abbandonato, cagna! Tagliati i polsi con uno di questi cocci intorno a te e metti fine alla tua sofferenza!”
In un attimo, quella voce demoniaca mi porta a ricordare tutto...

Mi restavano due mesi di vita. Tre al massimo. Così mi avevano detto i medici. Certe notizie non leggono la carta d'identità prima di fare irruzione nella vita di qualcuno, e così capita che arrivino anche il giorno del tuo ventiduesimo compleanno.
Quando stai per lasciare questo mondo, ti passano tante cose per la testa.
I pensieri, le azioni, le re-azioni variano in base al modo in cui ognuno di noi è fatto.
Una volta, in un bar, lessi su una tazzina del caffè: ‘La stessa acqua che permette alle patate di ammorbidirsi indurisce le uova. Dipende da cosa sei fatto, non dalle circostanze'.
E io? Di cosa ero fatta? Ero a bagnomaria nel cancro da troppo poco per capire se mi avrebbe reso forte come un uovo o molle come una patata.
Del resto, fuor di metafora, non che mi intendessi poi tanto di cucina alla fine. Non ero mai stata una brava cuoca, né una grande amante del cibo. Il mio fisico smilzo d'altronde parlava chiaro. Non era il nutrimento del corpo a interessarmi, quanto piuttosto quello dell'anima. Suonare i canti sacri con la chitarra, pregare, leggere, fermarmi a guardare la rugiada su un fiore di ritorno dalla messa mattutina: questo era per me il nutrimento più importante.
I miei genitori mi definivano una sognatrice. I miei insegnanti riferivano che ero una ragazza molto diligente. I ragazzi, per adularmi, sostenevano che nei miei grandi occhi scuri e brillanti si celasse un mondo misterioso tutto da scoprire, che ero un angelo, salvo poi definirmi una bigotta quando li rifiutavo.
Di certo non mi sentivo nulla di tutto questo, ma più di ogni altra cosa non mi sentivo ‘un angelo'. Al di là di ciò che dicevano gli altri di me, io mi sentivo ancora un nulla, una personcina piccola così, che ambiva a piacere soltanto a Dio, ma arrancava sulla strada della santità, ancora lontana mille milioni di chilometri da essa.
Mi sentivo semplicemente 'Chiara'.
E, dopo la diagnosi dei medici, 'Chiara-la-giovane-predestinata-ad-una-prematura-dipartita-che-avrebbe-riempito-di-gente-il-suo-funerale-e-fatto-versare-fiumi-di-lacrime-incredule'.
Quel che è certo, è che l'intera prospettiva sulla mia vita era cambiata da un momento all'altro, un giorno mentre ero al mare.
Anche quell'anno, come tutte le estati, io e miei genitori ci eravamo spostati sul Gargano, lasciandoci un centinaio di chilometri più a sud la nostra amata-scellerata Torre Brada. La mia famiglia aveva una casa vacanze in un residence a Vieste. Per due settimane ci saremmo dimenticati del tanfo criminale della nostra città e l'avremmo lasciata poltrire nella sua indolenza, adagiata alle pendici del promontorio come una regina bellissima e malvagia.
La scoperta dei miei problemi di salute arrivò al secondo giorno di ferie. Tornavo verso il bagnasciuga, quando le gambe si fecero ad ogni passo più pesanti. All'improvviso i bagnanti cominciarono a girarmi intorno. Lo stabilimento davanti a me si dissolse. Il sole d'un tratto si spense. E, per qualche minuto, mi spensi anch'io.
Mi risvegliai sulla sabbia, circondata da un capannello di persone in costume da bagno che mi guardavano con apprensione. I miei genitori, inginocchiati accanto a me, chiamavano il mio nome, percuotendomi piano le guance.
Il bagnino mi fissò negli occhi, serio in viso.
“Come ti senti?”
“Bene” risposi. Ma lui diede uno sguardo preoccupato ai miei genitori. Suggerì che sarebbe stato meglio fare un salto in ospedale.
I miei genitori chiamarono l'ambulanza prima ancora che lui lo proponesse.
Non lo ritenevo necessario, ma decisi di accettare per tranquillizzarli.
Il resto della storia è presto detto: pronto soccorso, pressione alta e conseguente controllo dei bulbi oculari per escludere danni dovuti ad un'eventuale ipertensione.
Alla fine degli accertamenti, si scoprì che lo svenimento era dipeso solo dal caldo, così come la pressione alta. Di conseguenza, danni all'occhio per la pressione non ce n'erano stati.
Tutto è bene quel che finisce bene, dunque.
E invece no. Perché un danno all'occhio venne fuori comunque, di altra e ben peggiore natura. Le visite mediche per quel malore da niente evidenziarono casualmente un melanoma della coroide: un tumore dell'occhio, che generalmente si sviluppa senza sintomi specifici, ma se non viene diagnosticato in tempo può portare alla morte.
Nel mio caso, stando ai medici, di tempo sembrava esserne passato ormai troppo. La TAC evidenziò che le metastasi si erano già diffuse al cervello. In una zona interna, non operabile. Si decise di rimuovere quantomeno il ceppo principale, quello all'occhio, ma più come atto dovuto che per reali scopi terapeutici.
Otto giorni dopo, il tumore alla coroide era stato rimosso d'urgenza con una tecnica chiamata ‘brachiterapia', ovvero una radioterapia che elimina il tumore in una settimana. Per le metastasi al cervello fu invece necessaria la chemio, che sapevamo tutti sarebbe servita a poco, ma acconsentii ancora una volta più che altro per i miei genitori.
Non sapevamo ancora che, di lì a poco, la chemio avrebbe orientato la mia vita verso strade ancor più inimmaginabili del fatto che stessi per morire. O che così sembrava.

Mentre mi preparavo ad accogliere la morte, colui che avrebbe cambiato la mia vita si apprestava a dare la morte ad altri.
Il suo nome: Paolo Piperno.
Età: ventisette anni.
Professione: mafioso.
Scopo della sua vita: sterminare la famiglia Ceratolo.
Piperno e Ceratolo si contendevano l'egemonia a Torre Brada da ormai vent'anni. Paolo aveva trascorso gli ultimi nove a scuola di mafia, sotto il manto della cosiddetta ‘Società' foggiana. Torre Brada rappresentava una delle ramificazioni di questa rete criminale poco conosciuta, ma tra le più violente e pericolose d'Italia, con i suoi trecentosessanta omicidi negli ultimi trent'anni, una rapina al giorno, un'estorsione ogni quarantotto ore, un solo collaboratore di giustizia.
Paolo era soprannominato ‘L'avvocato', perché, quando non era in palestra a praticare la boxe, fagogitava tomi di Diritto e parlava come un libro stampato.
‘Se conosci la legge, sai come fregarla', diceva, lui che la legge l'aveva infranta già tante volte.
Per l'apprendistato mafioso, a Paolo era stato assegnato un tutor: Gerardo, detto ‘U'sfrggiot' (‘Lo sfregiato').
Si trattava di un trentaduenne entrato nel clan poco più che adolescente anche lui, ma ora uomo di fiducia del boss Luigi 'Gin' Piperno, prozio di Paolo.
Negli anni, era stato Gerardo ‘U'sfrggiot' a testare, se così si può dire, le doti criminali di Paolo. Le prove di affiliazione erano state nell'ordine: i pestaggi dei coetanei più violenti e grossi; il trasporto della droga; fare da sentinella in una piazza dello spaccio. Quando giunse alla riscossione del pizzo, questo significò già godere di un riconoscimento importante da parte del clan.

Alfonso Santamaria

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