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Autore: Maria Eleonora Ratti
Sotto il glicine
Narrativa
Lettori 3200 37 45
Sotto il glicine
Un brivido, un altro, una sensazione di sgomento; giro piano gli occhi, stranita, per capire dove mi trovo e, mentre cerco di ricomporre le ossa doloranti, ricordo di essermi seduta sulla poltroncina di midollino, ormai sgangherata, di nonna Lia sotto il bersò di glicine.
Dalla borsa posata a terra un suono si libera nell'aria. Rispondo al cellulare. " Si, sono arrivata un po' prima, vi aspetto".
Guardo istintivamente verso il cielo, ma al suo posto trovo il glicine. Il mio glicine, leitmotiv di vita.
Ricordo di aver aperto gli occhi, a marzo, in carrozzina, e la prima cosa "memorizzata" è stato un colore tenuo, violetto, il colore del glicine (perdonami mamma, anche dei tuoi occhi). Da sempre il glicine è per me il fiore più bello, quello che sorrideva sopra di me mentre abbozzavo i primi compiti di scuola in primavera, le prime merende con le amiche, quello che se ne stava a far da scudo al mio primo appuntamento, sorvegliato dall'unico occhio aperto della nonna, fintamente sopita, in poltroncina.
Lui sempre lì, il suo mantello a proteggermi dalle insidie della vita. Gliene sono riconoscente, impresso indelebile nella memoria, forse ora produce qualche grappolo in meno ma il suo colore incantevole non è sbiadito, diversamente dai miei capelli, ove sono comparsi i primi fili grigi.
Ho ancora qualche minuto per cullarmi qui sotto e risvegliare per incanto i ricordi più belli dell'infanzia. Mi rivedo attorniata da fratelli e cugini, la domenica pomeriggio a far merenda, pane burro e marmellata della nonna. Le raccomandazioni della mamma erano sempre le stesse: "Sei la più grande, dai un occhio a tutti, non andate nei pericoli, portati un libro di fiabe, fai giocare tutti" e poi e poi... Io sapevo bene quello che sarebbe accaduto lontano dai loro sguardi: insomma eravamo in dieci, tra fratelli e cugini, di età compresa tra i cinque e gli otto anni. Tra tutti, io ero la maggiore, con i miei dieci anni compiuti con la neve! Pur tuttavia, non rammento alcuna differenza di ruolo, ci consideravamo indistintamente fratelli.
Ciò premesso, figuriamoci quanto stessero ad ascoltarmi, non ero la mamma o la nonna; e allora, su e giù dall'altalena, chi correva fino alla Madonnina, una nicchia di sassi con all'interno la statuina dove la nonna tutti i giorni si chinava a recitare il rosario, per portarle viole e margherite appena colte, chi mangiava le carote direttamente dalla terra, mentre urlavo di lavarle, chi si arrampicava sul gelso per mangiarne i frutti succosi, delle more bianche dolcissime. Ero io quella che apriva la gabbia del coniglio nero del cugino più piccolo, per poi rincorrerlo nel prato assieme a tutti gli altri. Quanti quadrifogli traditori ho raccolto.
Tutti sudati e felici, stesi in mezzo all'erba fresca di aprile, non ancora tagliata, ci toglievamo calze e scarpe ed il piacere era infinito. l'Annina si addormentava, era una peperina da sveglia, ma troppo piccola per i giochi dei maschi, a Francesco veniva restituito il coniglietto, vivo ma stranito, destinato ad essere rinchiuso ben bene nella sua gabbietta fino alla prossima. A quel punto, domandavo con la sacralità di un rituale: "Vi va una storia?". Grazie al libro di fiabe, ottenevo dieci minuti di tranquillità, poi via di corsa scalzi a farci male sulla ghiaietta, una sfida per dimostrare chi tra noi era il più resistente. Eravamo liberi e felici come lo sono solo i bambini.
Verso le sei del pomeriggio, qualche adulto contava i feriti: tra i sopravvissuti c'era chi era stato punto da un insetto, chi aveva l'allergia e starnutiva, chi era un po' troppo accaldato subito si prendeva una sberla, dopo che la mamma amorevolmente gli aveva sentita la fronte febbricitante; i graffi non si contavano mai, le ginocchia nere sbucciate e i bei vestitini della festa, coi volants, finivano dritti in lavatrice. E tutti noi sotto la doccia.
Il mio ruolo decadeva una mezz'ora dopo, passavo le consegne ai rispettivi genitori, i quali avevano ovviamente da ridire perché i pargoli puzzavano molto (una visita guidata a mucche e cavalli di soli cinque minuti lasciava una tangibile impronta olfattiva, ahimé); mi prendevo la colpa, sempre.
Poi, finalmente sola, sdraiata sulla panchina di pietra, le braccia incrociate dietro la nuca, ammiravo il glicine tutto mio, fino all'ora di cena.
Temevo che i temporali di notte potessero fargli del male, lo salutavo prima di andare a dormire e prima di andare a scuola; anche se la nonna raccoglieva nella paletta qualche fiore caduto, lui era sempre tutto intero.
Anche il giorno del mio matrimonio gli ho chiesto in prestito qualche grappolo, per il bouquet, e lui mi ha accompagnata all'altare.
Ora arriveranno tutti, li ho convocati senza troppe spiegazioni, qualcuno ha azzardato proferire la domanda: "Non sarai ammalata vero?!?!". Eccome no, come nei film che piacciono a me.
La verità è più concreta e reale. La casa, lasciata in eredità a noi nipoti da nonna Lia, necessita di restauri costosi e si deve decidere all'unisono come agire, l'impianto elettrico per primo, poi il tetto che presenta qualche infiltrazione; insomma, avrei già una perizia tra le mani, una cifra che scotta, e sinceramente non avrei questa disponibilità per accollarmi tutte le spese. E' un problema da condividere e perciò li ho convocati.
Per averli tutti insieme, ho speso tre mesi tra messaggi, mail, telefonate, solo io ed il cuginetto più piccolo abitiamo nei paraggi, gli altri sono tutti più distanti e svolgono professioni impegnative: i bambini di un tempo si sono trasformati in due medici, un pittore famoso, uno sportivo estremo (mio fratello, quello con allergia a non finire, ha scalato la vetta più alta dell'Himalaia), l'Annina è indossatrice, sua sorella Beatrice è nel giro della moda, Cecilia a Roma frequenta l'accademia di arte drammatica, mio fratello Leonardo "disperso", temo da sorella maggiore si sia cacciato in qualche guaio finanziario, io ora pensionata e poi c'e il piccolo Francesco, il veterinario. Che famiglia di fratelli! tutti quanti abbiamo salutato, da tempo, i nostri genitori e tutti quanti, chi più chi meno, "teniamo famiglia". Questo è il nostro tesoro e solo noi decideremo le sorti.
Come no???
Eccoli. Sento le ruote sul ghiaietto, fuori dal cancello che vado subito ad aprire. Non ci si vede da almeno tre anni, il primo pensiero, mi ero preparata, sarebbe stato quello di cercare i loro occhi; macché, tutti con gli occhiali, chissà cosa mi passa per la testa? C'è che sono sempre la più grande, devo badare a loro, proteggerli, guardarli negli occhi come avevo insegnato loro. Gli occhi non mentono, sono lo specchio dell'anima, ricordatevelo.
Remember. Tutti allegri, felici di incontrarci, come alle prese di un bel gioco, l'inizio di una corsa a ruba bandiera o di una parita a palla avvelenata. "Allora non sei malata?" chiede il medico Michele, "Ma ti sei vista? Sempre più bella, la nostra Biancaneve coi suoi 9 nanetti, eh?” Da neurologo, Filippo fa diagnosi.
Via gli occhiali, ci sediamo sotto il glicine, giù gli occhi dal mio glicine! Avevo portato qualche bibita, ormai calda, perché, come spiego, l'impianto non è più a norma e non si può usare nessun elettrodomestico; niente caffè, the. "Non vi faccio perdere tempo prezioso". Presento subito la perizia preventiva e vedo sguardi un po' straniti. "Sono un sacco di soldi!" osserva Fabio il pittore. Gli altri zitti e pensierosi. Entriamo? Ma si entriamo! C'è ancora un po' di luce, se apriamo tutte le ante. Polvere, ragnatele, ruggine sui cardini.
Per me e non solo, lo sento dai respiri, eccoci a casa. Un giro di sguardo ed eccolo lì, tutto mio, non ho mai visto un divano simile, a fiorellini lilla, di cinz, che "un po' scivoli un po' t'attacchi", dicevo alla nonna. "Se stai composta non succede" rispondeva lei imperturbabile. Allora sistemavo la gonna ma le gambe nude con le calze corte si incollavano. Bei ricordi. Immagino cosa passi nelle teste degli altri, è come se la casa parlasse con noi, le pareti un po' sdrucite, i quadretti coi fiori di Fabio, quelli a mezzo punto di Annina, i paesaggi, le scene di caccia, quello con la madonna strana, vero Beatrice? la Monna Lisa!!!!
Il tavolone da dodici posti! Vedo la mamma, le zie, la nonna ad apparecchiare per tutti i grandi. Belle tovaglie ricamate, belle stoviglie di cristallo; noi bambini mangiavamo in saletta, sul tavolo ovale, per starci in dieci. Inverno e primavera con Natale e Pasqua.
Guardate la madia per la farina, "Annina ti ricordi quando l'hai aperta ed è uscito il topolino????" Che ridere!!!! La nonna non era felice davvero! Lei era la nostra babysitter ufficiale, anche se negli anni sessanta i bambini erano già grandi, non appena sgambettavano. Però che responsabilità, aveva cresciuto cinque figli da sola, vedova a quarant'anni ed una cascina da gestire con mucche, polli, cavalli e prati; tanti prati di frumento e granoturco. Una donna forte!!!!!
“Vi ricordate la merenda con la polenta fredda avanzata e la marmellata? E quella con le zampe di gallina cotte nel pentolone?” chiedo.
Arriva il buio e noi stiamo ancora rammentando, seduti sulla polvere, senza più pensare ai lavori da fare in casa.
Nella penombra i nostri visi, i nostri occhi sono gli stessi dei bambini di allora, limpidi, sereni. Gli occhi non mentono.
Buio. Mio fratello, col senso pratico dell'uomo di montagna, ci invita ad accendere le torce dei cellulari. Non l'avesse mai fatto! Tante lucciole, come quelle che rincorrevamo di sera d'estate. E via altri ricordi. Non finiranno mai.
E così, luccicando, usciamo dalla casa, io chiudo. Ci abbracciamo nel punto dove abbiamo parcheggiato le automobili. "Alla prossima!". "A presto!".
Siamo tutti concordi nell'asserire che la casa di nonna Lia sia il miglior elisir di lunga vita, invecchierà con noi e noi con lei, insieme al mio glicine.Amici lettori, vi propongo un piccolo racconto
"GLICINE" che sa di me
Buona lettura

Un brivido, un altro, una sensazione di sgomento; giro piano gli occhi, stranita, per capire dove mi trovo e, mentre cerco di ricomporre le ossa doloranti, ricordo di essermi seduta sulla poltroncina di midollino, ormai sgangherata, di nonna Lia sotto il bersò di glicine.
Dalla borsa posata a terra un suono si libera nell'aria. Rispondo al cellulare. " Si, sono arrivata un po' prima, vi aspetto".
Guardo istintivamente verso il cielo, ma al suo posto trovo il glicine. Il mio glicine, leitmotiv di vita.
Ricordo di aver aperto gli occhi, a marzo, in carrozzina, e la prima cosa "memorizzata" è stato un colore tenuo, violetto, il colore del glicine (perdonami mamma, anche dei tuoi occhi). Da sempre il glicine è per me il fiore più bello, quello che sorrideva sopra di me mentre abbozzavo i primi compiti di scuola in primavera, le prime merende con le amiche, quello che se ne stava a far da scudo al mio primo appuntamento, sorvegliato dall'unico occhio aperto della nonna, fintamente sopita, in poltroncina.
Lui sempre lì, il suo mantello a proteggermi dalle insidie della vita. Gliene sono riconoscente, impresso indelebile nella memoria, forse ora produce qualche grappolo in meno ma il suo colore incantevole non è sbiadito, diversamente dai miei capelli, ove sono comparsi i primi fili grigi.
Ho ancora qualche minuto per cullarmi qui sotto e risvegliare per incanto i ricordi più belli dell'infanzia. Mi rivedo attorniata da fratelli e cugini, la domenica pomeriggio a far merenda, pane burro e marmellata della nonna. Le raccomandazioni della mamma erano sempre le stesse: "Sei la più grande, dai un occhio a tutti, non andate nei pericoli, portati un libro di fiabe, fai giocare tutti" e poi e poi... Io sapevo bene quello che sarebbe accaduto lontano dai loro sguardi: insomma eravamo in dieci, tra fratelli e cugini, di età compresa tra i cinque e gli otto anni. Tra tutti, io ero la maggiore, con i miei dieci anni compiuti con la neve! Pur tuttavia, non rammento alcuna differenza di ruolo, ci consideravamo indistintamente fratelli.
Ciò premesso, figuriamoci quanto stessero ad ascoltarmi, non ero la mamma o la nonna; e allora, su e giù dall'altalena, chi correva fino alla Madonnina, una nicchia di sassi con all'interno la statuina dove la nonna tutti i giorni si chinava a recitare il rosario, per portarle viole e margherite appena colte, chi mangiava le carote direttamente dalla terra, mentre urlavo di lavarle, chi si arrampicava sul gelso per mangiarne i frutti succosi, delle more bianche dolcissime. Ero io quella che apriva la gabbia del coniglio nero del cugino più piccolo, per poi rincorrerlo nel prato assieme a tutti gli altri. Quanti quadrifogli traditori ho raccolto.
Tutti sudati e felici, stesi in mezzo all'erba fresca di aprile, non ancora tagliata, ci toglievamo calze e scarpe ed il piacere era infinito. l'Annina si addormentava, era una peperina da sveglia, ma troppo piccola per i giochi dei maschi, a Francesco veniva restituito il coniglietto, vivo ma stranito, destinato ad essere rinchiuso ben bene nella sua gabbietta fino alla prossima. A quel punto, domandavo con la sacralità di un rituale: "Vi va una storia?". Grazie al libro di fiabe, ottenevo dieci minuti di tranquillità, poi via di corsa scalzi a farci male sulla ghiaietta, una sfida per dimostrare chi tra noi era il più resistente. Eravamo liberi e felici come lo sono solo i bambini.
Verso le sei del pomeriggio, qualche adulto contava i feriti: tra i sopravvissuti c'era chi era stato punto da un insetto, chi aveva l'allergia e starnutiva, chi era un po' troppo accaldato subito si prendeva una sberla, dopo che la mamma amorevolmente gli aveva sentita la fronte febbricitante; i graffi non si contavano mai, le ginocchia nere sbucciate e i bei vestitini della festa, coi volants, finivano dritti in lavatrice. E tutti noi sotto la doccia.
Il mio ruolo decadeva una mezz'ora dopo, passavo le consegne ai rispettivi genitori, i quali avevano ovviamente da ridire perché i pargoli puzzavano molto (una visita guidata a mucche e cavalli di soli cinque minuti lasciava una tangibile impronta olfattiva, ahimé); mi prendevo la colpa, sempre.
Poi, finalmente sola, sdraiata sulla panchina di pietra, le braccia incrociate dietro la nuca, ammiravo il glicine tutto mio, fino all'ora di cena.
Temevo che i temporali di notte potessero fargli del male, lo salutavo prima di andare a dormire e prima di andare a scuola; anche se la nonna raccoglieva nella paletta qualche fiore caduto, lui era sempre tutto intero.
Anche il giorno del mio matrimonio gli ho chiesto in prestito qualche grappolo, per il bouquet, e lui mi ha accompagnata all'altare.
Ora arriveranno tutti, li ho convocati senza troppe spiegazioni, qualcuno ha azzardato proferire la domanda: "Non sarai ammalata vero?!?!". Eccome no, come nei film che piacciono a me.
La verità è più concreta e reale. La casa, lasciata in eredità a noi nipoti da nonna Lia, necessita di restauri costosi e si deve decidere all'unisono come agire, l'impianto elettrico per primo, poi il tetto che presenta qualche infiltrazione; insomma, avrei già una perizia tra le mani, una cifra che scotta, e sinceramente non avrei questa disponibilità per accollarmi tutte le spese. E' un problema da condividere e perciò li ho convocati.
Per averli tutti insieme, ho speso tre mesi tra messaggi, mail, telefonate, solo io ed il cuginetto più piccolo abitiamo nei paraggi, gli altri sono tutti più distanti e svolgono professioni impegnative: i bambini di un tempo si sono trasformati in due medici, un pittore famoso, uno sportivo estremo (mio fratello, quello con allergia a non finire, ha scalato la vetta più alta dell'Himalaia), l'Annina è indossatrice, sua sorella Beatrice è nel giro della moda, Cecilia a Roma frequenta l'accademia di arte drammatica, mio fratello Leonardo "disperso", temo da sorella maggiore si sia cacciato in qualche guaio finanziario, io ora pensionata e poi c'e il piccolo Francesco, il veterinario. Che famiglia di fratelli! tutti quanti abbiamo salutato, da tempo, i nostri genitori e tutti quanti, chi più chi meno, "teniamo famiglia". Questo è il nostro tesoro e solo noi decideremo le sorti.
Come no???
Eccoli. Sento le ruote sul ghiaietto, fuori dal cancello che vado subito ad aprire. Non ci si vede da almeno tre anni, il primo pensiero, mi ero preparata, sarebbe stato quello di cercare i loro occhi; macché, tutti con gli occhiali, chissà cosa mi passa per la testa? C'è che sono sempre la più grande, devo badare a loro, proteggerli, guardarli negli occhi come avevo insegnato loro. Gli occhi non mentono, sono lo specchio dell'anima, ricordatevelo.
Remember. Tutti allegri, felici di incontrarci, come alle prese di un bel gioco, l'inizio di una corsa a ruba bandiera o di una parita a palla avvelenata. "Allora non sei malata?" chiede il medico Michele, "Ma ti sei vista? Sempre più bella, la nostra Biancaneve coi suoi 9 nanetti, eh?” Da neurologo, Filippo fa diagnosi.
Via gli occhiali, ci sediamo sotto il glicine, giù gli occhi dal mio glicine! Avevo portato qualche bibita, ormai calda, perché, come spiego, l'impianto non è più a norma e non si può usare nessun elettrodomestico; niente caffè, the. "Non vi faccio perdere tempo prezioso". Presento subito la perizia preventiva e vedo sguardi un po' straniti. "Sono un sacco di soldi!" osserva Fabio il pittore. Gli altri zitti e pensierosi. Entriamo? Ma si entriamo! C'è ancora un po' di luce, se apriamo tutte le ante. Polvere, ragnatele, ruggine sui cardini.
Per me e non solo, lo sento dai respiri, eccoci a casa. Un giro di sguardo ed eccolo lì, tutto mio, non ho mai visto un divano simile, a fiorellini lilla, di cinz, che "un po' scivoli un po' t'attacchi", dicevo alla nonna. "Se stai composta non succede" rispondeva lei imperturbabile. Allora sistemavo la gonna ma le gambe nude con le calze corte si incollavano. Bei ricordi. Immagino cosa passi nelle teste degli altri, è come se la casa parlasse con noi, le pareti un po' sdrucite, i quadretti coi fiori di Fabio, quelli a mezzo punto di Annina, i paesaggi, le scene di caccia, quello con la madonna strana, vero Beatrice? la Monna Lisa!!!!
Il tavolone da dodici posti! Vedo la mamma, le zie, la nonna ad apparecchiare per tutti i grandi. Belle tovaglie ricamate, belle stoviglie di cristallo; noi bambini mangiavamo in saletta, sul tavolo ovale, per starci in dieci. Inverno e primavera con Natale e Pasqua.
Guardate la madia per la farina, "Annina ti ricordi quando l'hai aperta ed è uscito il topolino????" Che ridere!!!! La nonna non era felice davvero! Lei era la nostra babysitter ufficiale, anche se negli anni sessanta i bambini erano già grandi, non appena sgambettavano. Però che responsabilità, aveva cresciuto cinque figli da sola, vedova a quarant'anni ed una cascina da gestire con mucche, polli, cavalli e prati; tanti prati di frumento e granoturco. Una donna forte!!!!!
“Vi ricordate la merenda con la polenta fredda avanzata e la marmellata? E quella con le zampe di gallina cotte nel pentolone?” chiedo.
Arriva il buio e noi stiamo ancora rammentando, seduti sulla polvere, senza più pensare ai lavori da fare in casa.
Nella penombra i nostri visi, i nostri occhi sono gli stessi dei bambini di allora, limpidi, sereni. Gli occhi non mentono.
Buio. Mio fratello, col senso pratico dell'uomo di montagna, ci invita ad accendere le torce dei cellulari. Non l'avesse mai fatto! Tante lucciole, come quelle che rincorrevamo di sera d'estate. E via altri ricordi. Non finiranno mai.
E così, luccicando, usciamo dalla casa, io chiudo. Ci abbracciamo nel punto dove abbiamo parcheggiato le automobili. "Alla prossima!". "A presto!".
Siamo tutti concordi nell'asserire che la casa di nonna Lia sia il miglior elisir di lunga vita, invecchierà con noi e noi con lei, insieme al mio glicine.

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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