Salvo incidenti, morirò di empatia
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Intanto io e Arturo, il professore di musica, facevamo i primi passi nella costruzione di un'amicizia; quasi ogni volta che aveva lezione veniva a farmi un saluto in segreteria, le prime volte con qualche scusa, poi senza più sentirne il bisogno. Andammo a un concerto, una domenica mattina, musica classica in quello che allora si chiamava Palasport e aveva un'acustica terribile, ma noi eravamo cinguettanti e contenti lo stesso. Poi cominciammo a invitarci nelle rispettive case, la sua era orribile, non la casa ma l'aspetto: una freddezza che dopo poco che eri lì ti veniva da chiedere se potevano accendere il riscaldamento anche se era estate. Erano tutti maschi e questo di certo aveva la sua influenza sull'arredamento, ma ero stata in altri appartamenti abitati da maschi e lo squallore non aveva mai raggiunto livelli simili. Non un soprammobile, un quadro, un poster che so, una cartolina o una foto da qualche parte. Solo i letti, un tavolo, le sedie, i fornelli e il frigo. Lui però suonava, aveva i suoi strumenti ed era bravo, davvero tanto. A volte, camminando nel viale Volta, se le finestre erano aperte, si sentiva la sua musica volare. Sempre più spesso quella Giulietta blu brillante era parcheggiata sotto casa mia, indubbiamente facendoci guadagnare punti. Lui con gli altri, i miei amici che via via gli presentavo, era educato e gentile, ma rimaneva quasi sempre in silenzio e loro, i miei amici, erano incerti sul giudizio, difficile averne su qualcuno ostinatamente imperscrutabile, difficile averne di diversi da una sensazione di lieve disagio. Con me parlava, molto e mi raccontava sempre un po' di più della sua vita, della sua famiglia che al confronto la mia diventava quella del Mulino Bianco, del significato di nascere e crescere in una regione chiusa e fermamente arroccata al passato. Abruzzesi forti e gentili, già. Presuntuosa per quello che sapevo di psicologia pensavo di aver trovato la fonte di tutti i suoi problemi, scambiando la psicologia per la matematica, invece due più due non fa quattro, non sempre. La sindrome della Florence Nightingale fece il resto. E finalmente ci baciammo. Il primo bacio dovrebbe essere il momento romantico per eccellenza, ma per me fu scioccante. Lingua non pervenuta, la sua, mentre la mia incerta ravanava senza trovare altro che il vuoto, ricordo che mi venne in mente la bocca della balena di Pinocchio. Ricordo perfettamente il punto della mia camera dove eravamo e altrettanto bene ricordo il mio sbigottimento, non mi era mai successa una cosa del genere. O le labbra non le apri e allora il bacio è dolce, tenero, amichevole, ma se apri la bocca e poi rimani lì con le due bocche appiccicate e aperte ma senza che le lingue si cerchino e si trovino e ballino, o che lavoro è? I baci che vennero in seguito furono normali, ma quel primo mi rimase in testa come una specie di ossessione. Che significava? Perché? Con me lui era gentile, poco affettuoso nel senso che non c'erano mai gesti affettuosi in pubblico e pochi quando eravamo da soli. Mi cercava molto, parlava molto, non si negava mai quando gli proponevo di andare da qualche parte o semplicemente a cena da amici, continuando però a partecipare solo con sorrisi o qualche risata, ma senza prendere parte alle discussioni o raccontare qualcosa di sé. Dai suoi studenti era molto amato, era un docente attento, sensibile, comprensivo, paziente, uno che non aveva bisogno di strillare o minacciare note sul registro per ottenere attenzione e silenzio. Però entrava in crisi quando arrivava il momento di preparare i giudizi da presentare ai consigli di classe per confrontarsi con i colleghi, con i quali peraltro, a parte buongiorno e buonasera, non aveva rapporti. A volte quasi improvvisamente si alterava parlando con me della scuola, dei colleghi, delle regole assurde, della burocrazia, a volte raccontando della sua famiglia invece piangeva. Ridevamo anche molto, andavamo al cinema, a fare passeggiate, insomma le cose che fanno due che stanno insieme. Però io non ero sicura stessimo insieme, avevo la sensazione, spesso, quando ad esempio eravamo insieme ad altri, che lui recitasse il ruolo dell'amico, non del fidanzato. Non so spiegarlo bene ma avevo l'impressione che stesse attento a non far trapelare niente, né in gesti né in parole o sguardi, che potesse testimoniare senza ombra di dubbio la natura del nostro rapporto. Questo al di fuori del lavoro, intendo, dove peraltro aveva un senso non manifestare troppo apertamente i rapporti personali. Ricordo che quando arrivarono le prime vacanze da scuola, a Natale, lui se ne andò via senza salutarmi in maniera particolare, senza un “ci rivediamo tra quindici giorni” o un “ti telefono”. Sparì. Pensai che forse aveva voluto approfittare di quella separazione per riflettere, per capire la natura dei suoi sentimenti, non voleva impegnarsi subito. Ma non fu piacevole. Quando a fine vacanze la scuola ricominciò, riprendemmo a vederci, ancora più di prima, lui mi pareva un po' più disinvolto anche in situazioni dove erano presenti altre persone. A me dedicava concerti meravigliosi con il suo strumento del cuore, il flauto traverso, con quelle note dolci che perforavano l'anima. Ma sapeva suonare molto bene anche il pianoforte, come scoprii l'anno seguente. Stavo bene con lui anche se... piccole sfumature, repentini cambi d'umore, qualche frase difficile da interpretare, mi lasciavano un vago senso d'inquietudine. Era come se, a volte, mentre era con me e parlavamo, oppure avevamo fatto l'amore, lui fosse anche altrove, o almeno una parte della sua mente e delle sue emozioni lo fossero, per cui improvvisamente prendeva e se ne andava e io rimanevo alla finestra a guardare quella Giulietta che rombando si allontanava. Arrivò la Pasqua e lui di nuovo sparì, non solo dalla mia vista andando al suo paese, ma del tutto: non un cenno, non una telefonata. Ero così arrabbiata e demoralizzata che decisi di accogliere l'invito di Laura, la mia amica del cuore, ad andare con lei a Santo Domingo. Lei fu così insistente e io così desiderosa di levarmi dal capo e dal cuore il professore di musica che vinsi anche il terrore che da sempre nutrivo nei confronti degli aerei. Come per tutti i terrori irrazionali a niente erano mai serviti i ragionamenti logici, le statistiche, il fatto provato che morivano molte più persone in incidenti d'auto che d'aereo. Dove non poté nulla la logica, poté la rabbia. Però quell'inaspettato coraggio fu messo a durissima prova, prima ancora che il volo avesse inizio. Perché era sempre in ritardo, sul tabellone della sala dell'aeroporto di Milano veniva aggiornato di tanto in tanto l'orario di partenza senza spiegazioni. Verso mezzanotte le persone in attesa, come noi, iniziarono ad agitarsi e a richiedere con insistenza spiegazioni al personale. Finalmente le spiegazioni arrivarono e non furono simpatiche: l'aereo non sarebbe partito causa un'avaria, ma ci avrebbero imbarcati la mattina seguente su un altro aereo e avremmo passato la notte in un hotel di Bruzzano che avremmo raggiunto con un pullman messo a disposizione dalla compagnia aerea. Laura dormì come un ghiro, io no, sempre più agitata. Quando finalmente la mattina dopo salimmo sull'aereo, io trangugiai tutto quello che le hostess gentilmente ci offrivano e, grazie a quel po' di alcool in corpo, almeno riuscii a non alzarmi in piedi e gridare ai passeggeri: “Ma che cazzo c'avete da muovervi di continuo? Ma non potete stare fermini ai vostri posti che rischiate di far ribaltare l'aereo?” Laura dormiva tranquilla e non mi spiegavo come facesse, io, nonostante tutto quello che avevo bevuto, ero di legno, con le mani che stringevano forte i braccioli del sedile mentre maledicevo il professore di musica che con il suo comportamento mi aveva costretta ad affrontare tutto ciò. Quel volo però non era diretto, ma prevedeva uno scalo a New York dove avremmo preso un altro aereo della Domenicana de Aviacìon, peccato però che nessuno dei passeggeri avesse un visto... quindi fummo accolti da un plotone di militari armati fino ai denti che ci scortarono fino a una specie di sottoscala dal soffitto bassissimo dove ci intimarono di non muoverci. New York non ce la fecero vedere manco dalla finestra, che peraltro in quel bugigattolo neppure c'era. E finalmente fummo portati davanti alla scaletta per salire sull'aereo che ci avrebbe portati a destinazione; quando arrivammo all'altezza del posto che ci era stato assegnato appoggiai la mano sullo schienale del sedile davanti per riuscire a infilarmi nel piccolo spazio esistente tra quello e il mio posto. Quasi cascai perché lo schienale si piegò e il sedile cadde. E io gridai. Una hostess arrivò di corsa e tutta sorridente rimise a posto il sedile come fosse tutto normale, anzi facendomi quasi sentire un po' impedita. Volevo scendere, Laura rideva come una matta. Del resto del volo ricordo solo che mangiai, di tutto, finii il mio vassoio, quello di Laura che non aveva fame e quando la hostess passò a ritirare i vassoi le chiesi se potevo prendere anche quello, intatto, che stava sul carrellino. Senza vergogna proprio. Questo strano e accidentato volo aveva fatto saltare tutti i nostri orari e di conseguenza i programmi. Ci saremmo trovate ad arrivare alle due e mezzo di notte a Santo Domingo, o meglio all'aeroporto (distante parecchio dalla città), e a quell'ora non avremmo potuto chiamare un contatto che Laura aveva per farci venire a prendere visto che distava un paio di ore buone. Accidenti a me e quando avevo deciso di partire. Mentre eravamo in fila per le operazioni di sbarco sentimmo qualcuno parlare in italiano dietro di noi, era un gruppetto di ragazzi, un loro amico all'ultimo momento non era potuto partire, pertanto avevano la prenotazione di una camera in più e se volevamo ce la davano. Prendemmo un taxi, degno compare dell'aereo da cui eravamo appena scese: un vecchio macchinone americano di quelli che negli States non usavano più manco per le scene degli sfasciacarrozze nei film, i finestrini laterali erano tutti rigorosamente senza vetri, per aprirci la portiera il taxista fece forza puntellando un piede contro la fiancata e tirando la maniglia fortissimo. Comunque finalmente eravamo a bordo con quasi tutti i bagagli, quasi perché quello di Laura s'era perso chissà dove e saremmo dovute tornare il giorno dopo a ritirarlo, sempre se fossimo state fortunate. Stavo cominciando a rilassarmi quando improvvisamente... SBAM... il cofano si alzò ostruendo completamente la visuale all'autista che inchiodò tirando giù tutti i santi, almeno l'impressione fu questa. Ormai ero oltre la paura, direttamente nell'isteria e cominciai a ridere come una pazza sfranta e finii solo quando il taxi si fermò davanti all'hotel. I ragazzi italiani erano già nella hall per la registrazione dei documenti, io che avevo appena smesso di ridere, ricominciai alla vista dell'impiegato: un signore cicciotto che scriveva a tempo di musica, quella che un altoparlante diffondeva per tutto l'albergo alle quasi quattro di notte. Scriveva e ballava, muovendo quel suo grande culo e interrompendosi ogni due parole per ballonzolare su e giù davanti al bancone ondeggiando e facendo piroette. Non so chi avesse architettato tutto quel piano per farmi smettere di pensare al mio professore di musica, alle sue paturnie, ai suoi comportamenti e alla sofferenza che mi procuravano, so che comunque si è dato da fare parecchio, ma alla fine è riuscito nel suo intento. Se poi fu solo il caso, il risultato riuscì comunque bene anche a lui. Fu un viaggio fantastico, un altro mondo, caos, traffico, la musica sempre a ogni ora del giorno e della sera sparata da altoparlanti posizionati agli angoli delle strade, vigili che dirigevano il traffico ballando come l'impiegato dell'hotel. La frutta più buona del mondo, roba che ti faceva dire: “Ma quindi le banane hanno questo sapore qui? Ma io che ho mangiato finora?” E diventò ancora più fantastico quando arrivammo al piccolo villaggio, nostra meta finale, ancora un ulteriore altro mondo, dove l'alberghetto era di legno, il letto aveva la zanzariera che lo copriva tutto, le finestre non avevano i vetri, si chiamava “Da Dino” e ci fece mangiare “da Dio”. E soprattutto il mare e la spiaggia erano da favola, da cartolina, da Paradiso, non so più come dire. Tanti bambini, tante persone, case poverissime ma dignitose, tutte le sere una festa di paese, tutti abitanti del villaggio e noi due, uniche straniere, uniche con la pelle bianca, accolte e rispettate ovunque e da chiunque.
Lisabetta Mugnai
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