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Autore: Agatha Orrico
Stracci di vita a New York
Narrativa Storico
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Stracci di vita a New York
New York 1935.

Maio.
Un freddo insopportabile penetrava in profondità insinuandosi come un serpente nelle trame dei vestiti; eppure Maio avrebbe dovuto essere abituato alla rigidità degli inverni newyorkesi. 
Gli angoli del Lower East Side erano un incrocio di gente solitaria con lo sguardo perso, coppie che camminavano spedite una accanto all'altra e gruppetti di giovani che scomparivano inghiottiti dalle porte dei club. 
Poi c'erano i tassisti e le volanti di polizia, che calcavano l'asfalto nero e freddo, protetti nei loro abitacoli dal chiasso che fuoriusciva dai locali.
Lungo la strada un poliziotto perlustrava la via in cerca di parchimetri scaduti, soddisfatto nel vedere aumentare il numero delle contravvenzioni. 
Ogni volta che Maio si allontanava, anche se solo di pochi isolati, dall'intimità dei suoi luoghi, provava una sensazione strana: gli sembrava che tutti lo fissassero. Talvolta si sentiva come se fosse seguito da una grossa cinepresa che riprendeva ogni suo movimento.
Quegli sguardi inquisitori non gli impedivano però di sentirsi desolatamente invisibile e puntualmente, al rientro da quelle escursioni, ritrovava centuplicato il malessere che lo aveva spinto a uscire.
Un taxi andò a occupare qualche metro più in là la strada davanti al marciapiede e scaricò una coppia dall'aria ricca e per questo felice. I due attraversarono velocemente per portarsi sul lato opposto. Maio li seguì con la coda dell'occhio, immaginando quanto dovessero costare gli abiti che indossavano, senza contare l'orologio che brillava nel buio al polso dell'uomo. Lei rise, sfoderando due file di denti perfettamente allineati, frutto sicuramente di sedute regolari da un costoso dentista, qualcosa che lui non avrebbe mai potuto permettersi.
Cosa sarebbe stato disposto a fare per raggiungere una posizione come quella, con una donna come quella? A che tipo di compromesso sarebbe andato incontro per stare al loro posto? Quanto valeva quella sensazione di potere e prestigio, sentirsi al di sopra di tutti gli altri? 
La risposta che si era dato era: tutto.
Sentendo che non ce l'avrebbe mai fatta, la rassegnazione tornò a prendere il sopravvento. In realtà desiderava solo inseguire quei due e prendere a calci i loro culi privilegiati per tutta la città. 
“Tutti gli uomini vengono al mondo con una parte assegnata, che sciocchezza credere di poterla cambiare!” pensò Maio.
In gioventù aveva pensato che fosse possibile: aveva sperato, si era lusingato; gli era parso di avere infinite possibilità, e dove era arrivato? 
A ventidue anni New York era l'unica immagine che avesse di casa. Ma la verità è che si sentiva un estraneo, quasi minacciato dalla città nella quale era nato. 
Aveva sempre vissuto la propria solitudine come una sorta di superiorità. Invece ora si accorgeva di essere disperatamente solo, incapace di uscire da quel dolore che a tratti lo lacerava; il guscio che si era creato per ripararsi dalle intemperie del destino non gli bastava più. Sentiva che c'era qualcosa in lui che gli altri non riuscivano ad accettare. Si sentiva diverso.
L'ennesimo brivido gli diede una sensazione di aghi conficcati nella pelle e lo spinse a cercare un riparo dal freddo.
Infilò la mano nella tasca destra e le dita, perdendosi in un grosso buco, sfiorarono la pelle nuda della gamba. Provò con la tasca sinistra e lì andò meglio: sul fondo giaceva qualche spicciolo. Accelerò il passo e si infilò nel primo locale che gli si parò di fronte.
*
Appena entrato nel club gli venne incontro una densa nube di fumo. Ancora infreddolito si strinse i lembi del soprabito attorno alle gambe facendo presa con le mani dalle tasche, quindi andò a sistemarsi in piedi in un angolo, dietro a una colonna, per avere una visuale completa. Ai tavoli contò cinque o sei donne, gli altri per la maggior parte erano uomini; di certo nessuno di loro veniva dalla parte lussuosa di Manhattan. Il pubblico era eterogeneo: afroamericani, portoricani, italiani, irlandesi e altri avventori, che probabilmente arrivavano in camicia e maglione e se ne uscivano indossando il cappotto di un altro. Minutaglia, proprio come lui. Qualcuno aveva un bicchiere davanti a sé, riempito di un alcolico scadente che sarebbe servito a rimpolpare le tasche del barista, accelerando la dipartita dei suoi clienti abituali. Su di un piccolo palco si esibiva una donna che portava una parrucca bionda, con una zazzera che le copriva uno dei due occhi pesantemente truccati.
Altre ciocche se ne andavano per conto loro, inseguite da goccioline di sudore che le rigavano il viso. Era parecchio alta e, a occhio e croce, avrà avuto una trentina d'anni. Cantava con tutta l'energia che aveva in corpo urlando nei polmoni il pezzo jazz Sing, Sing, Sing di Benny Goodman; quell'anno andava talmente di moda che sicuramente tutti lo avevano già sentito altre mille volte, come a sottolineare il fatto che poco o niente di nuovo succedeva da quelle parti. 
Dopo un giro di applausi svogliati fu il turno di una nenia ripetitiva, che la cantante cantò tenendo gli occhi socchiusi.
Il suono della musica arrivava disturbato, intervallato da quello di una sirena dell'ambulanza. Sempre meglio che ad Harlem dove certi giorni, tra disordini, pestaggi tra bande e gli sbirri a riportare il loro perverso concetto di ordine nelle strade, era impossibile vivere sereni. 
“E pensare che c'è gente che sogna di venirci da tutta una vita in questa fottuta città... Nessuno di quelli che abitano a New York avrebbe scelto di viverci, se non costretto dalle circostanze” rifletté Maio.
Era in giro da ore e aveva una gran sete. Conosceva l'effetto che gli faceva l'alcol - certe sere aveva fatto la fortuna di parecchi baristi - ma questa consapevolezza non gli impediva di bere; era un modo come un altro per non pensare troppo, specie quando certi ricordi del passato riaffioravano.
La sbronza della sera prima lo faceva sentire una merda, ma l'impulso era troppo forte per riuscire a frenarlo. Si diresse verso il bancone del bar e, indicando una bottiglia con l'etichetta grigia, ne ordinò un bicchiere al barista. Accanto a lui un uomo dall'aria stanca beveva e tossiva, Maio lo fissò con disprezzo.
- Ehi tu - disse una voce alle sue spalle. Era il barista che gli allungava il bicchiere. Il liquido era denso e aspro, ma andava giù bene e mantenne la sua promessa, inondandolo con una sensazione di calore. Maio pagò e si allontanò dal bancone per lasciare spazio agli altri clienti.
Nel frattempo il posto accanto alla colonna che prima era suo era stato occupato da un tizio alto e smilzo, con una barba sfatta di qualche giorno e un soprabito lungo fino ai piedi che sembrava fatto di carta. Maio sentì un peso alle gambe e decise di sedersi; guardandosi intorno lo sguardo cadde su di un tavolo laterale con una sedia vuota. L'altra seduta era occupata da un ragazzo che avrà avuto più o meno la sua età. Aveva basette ordinate e capelli pettinati all'indietro, leggermente impomatati; indossava una camicia bianca, delle bretelle sopra a un paio di pantaloni grigi e teneva la giacca appoggiata di traverso sulle ginocchia.
Dall'aspetto doveva essere irlandese... o italiano forse. Ai suoi occhi i due ceppi erano indistinguibili. Maio vi si diresse e, anche se controvoglia, gli chiese il permesso di sedersi.
Quello lo guardò appena di striscio e alzò le spalle, gesto che Maio interpretò come un sì. L'altro sorseggiava una birra e inalava una sigaretta che creava sopra di lui dei grossi anelli di fumo. Trascorse una mezz'ora, durante la quale tra i due non ci fu nessuno scambio di battute, salvo alcune occhiate di sbieco da parte di Maio verso il suo vicino di tavolo, che era totalmente assorto nella musica. A volte socchiudeva gli occhi e muoveva leggermente il capo, picchiettando gli indici sul tavolo per tenere il ritmo, poi abbozzava un vago sorriso in segno di apprezzamento. 
Ci fu un timido applauso e la cantante, sorridendo compiaciuta, fece un mezzo inchino per congedarsi, segno che lo show era terminato. La donna, con grande sorpresa di Maio, si diresse verso il suo tavolo. Il tizio si alzò di scatto e con un gesto fulmineo afferrò una sedia dal tavolo vicino per farla sedere. 
- Brava Jamilah! -
- Ti sono piaciuta? - disse quella con fare provocante. - Ti sei accorto che ho inserito nel repertorio Whatwillwe do? -  
- Come no! - esclamò quello, aggiungendo uno sbuffo di sigaretta all'aria già viziata del locale. - Se avessi alzato lo sguardo dal palco ti saresti accorta che la stavo canticchiando. Lo sai che ho un debole per te, vero? -
La donna, aggiustandosi il ciuffo ribelle, prese a ridere a squarciagola sfoderando le gengive. 
- Gesù! Certo che voi italiani ci sapete fare coi complimenti - . Poi allargò lo sguardo e si accorse di Maio. - E lui chi è? -  
Questi, senza guardare l'ospite, disse: 
- Uno che si è seduto al mio tavolo, ma non ha detto nemmeno una parola - .
- Gesù! Mi stupisco di te Alberto: la parlantina non ti manca. Potevi chiedergli come si chiama, no? -  
A quel punto Maio, sentendosi invisibile in quella conversazione dove si parlava di lui, estrasse dal soprabito la mano destra e la aprì al centro del tavolo. 
- Piacere. Il mio nome è Malcolm, ma gli amici mi chiamano Maio - disse lentamente, come se lui stesso non fosse convinto della sua presenza lì. 
Scoprendo appena i denti in un sorriso Jamilah ricambiò il saluto stringendogli la mano. L'altro invece, dopo essersi presentato come Alberto, continuò a ignorarlo dedicandosi esclusivamente alla cantante. 
- Jamilah, se vuoi venire al ristorante nella East 7th ti organizzo qualcosa. Il proprietario è un amico di famiglia, se gli parlo di te sono sicuro che ti farà cantare - .
- Ma quelli vorranno canzoni italiane - disse Jamilah ridendo come una pazza. - E da quando la star della canzone italiana è nera? Sai bene che tra immigrati non vi sopportate, specie fra maschi: ognuno marca il proprio territorio. E poi basta localini, voglio fare il salto di qualità. Non ho più l'età per essere una sprovveduta, ho superato i trent'anni ormai. Ora ti racconto questa: il mese scorso cantavo al The Track ad Harlem; un tizio che poteva essere mio nonno si avvicina e si china verso di me. Credevo volesse farmi i complimenti, invece il porco mi mette una mano nel reggipetto - . 
- Sono gli inconvenienti del mestiere! -  
- Eh no, bello, decido io chi mi deve toccare! Sono una donna, ma non per questo sono stupida, anche se in giro c'è chi lo pensa. Siamo negli anni Trenta, non nel secolo scorso! - disse quella indispettita scuotendo più volte la testa da destra a sinistra. - E comunque ti volevo vedere perché ho messo in piedi un business... - disse girandosi dalla sua parte e abbassando il tono della voce per renderlo più confidenziale. - Devo procurare clienti a un indiano... affitta agli immigrati - . 
- Che tipo di appartamenti? -  
- Te lo spiego un'altra volta. Vedi quel tizio laggiù? Quello coi baffi e l'aria impettita... Mi dicono faccia parte di una band, magari posso cavargli un ingaggio e sia mai che faccio il salto col loro produttore... canto al Bull la prossima settimana. Ci si vede lì, così ti spiego tutto. Ciao Alberto. E ciao anche a te, signor qualcosa - .
*
La strada si era svuotata e i rumori della città andavano calando. Le tinte accese delle insegne sbiadivano in una specie di nebbia sottile. Maio alzò il bavero del soprabito e mise le mani in tasca, sentendo di nuovo il freddo penetrargli nella carne. Il puzzo di fumo aveva impregnato la trama dei vestiti. Da un vicolo sentì provenire un rumore: era un cane che si avventava sugli scarti di una cena lanciata da qualcuno dal retro di un ristorante; si fermò a guardarlo e il cane fissò lui, gli pareva che anche quello gli ringhiasse contro. Lui almeno aveva ottenuto ciò per cui era venuto lì. 
Il morale era a terra. Aveva fatto su e giù tutta la settimana cercando lavoro: era stato in un'officina, in un paio di ristoranti, in una concessionaria, in un mattatoio anche, ma quelli lo avevano squadrato con commiserazione. Perfino il proprietario di un lurido emporio dove era stato quella mattina, un uomo cinese sulla sessantina, lo aveva guardato con supponenza, senza immaginare che, se lo avesse saputo prima, non ci sarebbe nemmeno entrato. Tra i quindici e i sedici anni aveva abitato sopra un loro ristorante respirando l'odore di fritto, l'aria densa e acre di quelle spezie sconosciute. Tutta la via era appestata da quel tanfo, in inverno si sopportava ma col caldo i residenti si lamentavano. 
Cercò di allontanare quel senso di disgusto tornando a pensare alla cantante e al tizio seduto accanto a lui che l'aveva snobbato tutta la sera. Del resto lui aveva fatto lo stesso. 
*
Ormai le insegne lungo la via erano quasi tutte spente. A occhio e croce erano le tre del mattino, anche se in giro non c'erano orologi per controllare. Ogni tanto si udivano voci provenire da qualche gruppetto sparuto di ragazzi dall'aria poco raccomandabile. A quell'ora la parte onesta di mondo sicuramente dormiva, in giro c'erano solo derelitti e delinquenti.
Maio tentò di sondare con lucidità la ragione dell'inquietudine crescente che pervadeva il suo animo. Passò mentalmente in rassegna gli aspetti problematici della sua vita, che non erano mancati – la morte prematura di sua madre, la durezza di suo padre, la precarietà nel lavoro, la sua solitudine ‒ ma non erano sufficienti a giustificare quel nervosismo che gli cresceva dentro. 
Appena uscito dal club si era reso conto di dover urinare. 
“Perché accidenti non sono andato al cesso quando ero al club?” si ripeté mentre il bisogno diventava sempre più impellente. Svoltò in un vicolo, aprì velocemente la patta dei pantaloni, appoggiò una mano contro il muro e schizzò l'urina contro la pietra fredda, liberandosi con un gran sospiro. 
Passato qualche istante, il silenzio tombale della notte fu interrotto all'improvviso dalla sirena di una volante. Tutto avvenne nel giro di pochi secondi: l'auto si fermò davanti al vicolo e ne scese un agente in uniforme con un manganello in mano, che faceva roteare passandolo da una mano all'altra. 
- Ehi tu. Che fai qui? Metti le mani in alto, svelto! -  
Maio tentò di far salire rapidamente la cerniera dei pantaloni che faticava a chiudersi, forse a causa del freddo, poi portò le mani sopra la testa unendo gli indici tra loro. Un brivido gli attraversò la schiena.
- Agente, mi scusi, non facevo niente di male - . 
- Che ci fai in questa zona? Fammi vedere i documenti, una mano sola o ti prendo a manganellate! -
- Stavo solamente rientrando a casa - . 
- Mettiti in ginocchio! -
- Ma... -
- Ho detto in ginocchio. Svelto! - disse quello scandendo bene le parole.
Maio obbedì inginocchiandosi sull'asfalto gelido.
- Siete tutti uguali voi altri, vi credete sopra la legge. Apri le gambe devo perquisirti. Sei un tossico, vero? -  
- No, agente, per favore... -
- Puzzi da fare schifo, sembri una distilleria di whiskey. Ora ti porto in centrale, così ti schiarisci le idee e la prossima volta girerai al largo da questo quartiere - .
- Ma non ho fatto niente... -
- Chiudi quella bocca del cazzo, mi hai capito? - gli urlò l'agente.
- Mi lasci andare... sono un cittadino americano! - urlò a squarciagola Maio, ma sul finire della frase, mentre tentava di raddrizzarsi, sentì il tacco della scarpa di quell'altro colpirlo sulla bocca.

JAMILAH
Dopo essersi pitturata le unghie e aver aspettato qualche minuto che lo smalto asciugasse, Jamilah si trascinò verso la doccia sperando che il proprietario di casa avesse riparato la perdita e che ci fosse abbastanza acqua calda. Si soffermò davanti allo specchio toccandosi i capelli che avevano bisogno di una lavata. La colla delle parrucche li stava rovinando, formando una leggera stempiatura lungo l'attaccatura dei capelli. Toccò l'acqua con la punta del piede e quando la sentì calda entrò nella doccia. Una volta uscita andò a sedersi sul divano. Il suo vicino di casa teneva il volume della televisione talmente alto che poteva seguire i suoi stessi programmi.
Jamilah era poco più che adolescente la prima volta che era stata al cinema a vedere un film di Hollywood. La pellicola si intitolava Metropolis e le era rimasta impressa nella memoria la scena nella quale l'attrice bionda porgeva la mano al suo cavaliere, avvolta in un lungo guanto...

Agatha Orrico

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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