Writer Officina - Biblioteca

Autore: Mara Richiedei
La ninna nanna dei segreti
Thriller
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La ninna nanna dei segreti
Trentasei anni prima.

Afferrò il gancio della botola e tirò con tutte le sue forze così da richiuderla. Rimase in ascolto, ma non percepì alcun rumore di passi, neppure i colpi alla porta che aveva diligentemente chiuso con il chiavistello facendolo scorrere nella serratura. Socchiuse gli occhi mantenendosi in equilibrio sulla stretta scala a chiocciola. Quella era l'unica soluzione possibile, soprattutto, quella che avrebbe creato meno problemi, lo sapeva, ma era tutto così difficile, complicato, iniquo.
Lei l'avrebbe odiata con tutta se stessa.
Ida Arrigucci si abbandonò a un sospiro.
Chi voglio prendere in giro? pensò digrignando i denti aggrappandosi alla scala.
Diletta non era mai stata la figlia che aveva sperato di poter far nascere, non era mai assomigliata neppure a suo fratello Erik. Lui perfetto fin dal primo giorno, forte e agguerrito, lei timida e sofferente, sempre stretta alla sua gonna e con gli occhi abbassati. Era dipeso dal parto o dal destino, ma era comunque un'ingiustizia. Eppure, lei li aveva amati entrambi perché erano figli suoi, e così sarebbe stato in eterno se solo il suo amore non fosse stato tradito. O forse era stata tutta colpa sua? Come aveva potuto non rendersi conto di nulla, lei che era la loro madre? Doveva capirlo subito che quel legame che li aveva sempre uniti fin dalla nascita era malsano. La timidezza di Diletta non dipendeva da null'altro che dalla sua malattia, ma da sola non era stata in grado di prendersene cura. Ora che il danno era fatto, ora che stringeva fra le braccia quella creatura doveva porvi rimedio. Fare in modo che sua figlia non soffrisse ancora, che dimenticasse la notte in cui l'aveva data alla luce e soprattutto che si scordasse per sempre di suo fratello. Lei l'avrebbe aiutata. Si sarebbe occupata di Diletta amorevolmente, per ripagare al suo peccato e per far sì che nessuno scoprisse il loro segreto.
Ida discese la stretta scala raggiungendo la tata Teodora che l'attendeva con il cappotto infilato sulle spalle. Le consegnò la bambina, guardandola per l'ultima volta. Era uguale alla madre. Aveva quelle stesse fossette ai lati della boccuccia e il nasino piccolo, e anche lei sarebbe cresciuta con la stessa malformazione. Distolse lo sguardo.
Teodora scostò la coperta di lana.
- È così piccola - sussurrò.
- Sai cosa devi fare! - la raggelò la voce di Ida.
- Ne è sicura, signora? È così bella e dolce. -
- È sicuramente malata. Forse non sopravviverà alla fine di questa settimana. Non posso occuparmi anche di lei - rispose gelida la padrona di casa.
- Potrei pensarci io. Sa che ci so fare con i bambini. Mi ha assunto come cameriera, ma... -
- Come ti sei occupata dei miei figli in questi ultimi mesi? - sibilò a denti stretti Ida. - Tutti sono bravi a prendersi cura dei bambini degli altri solo per guadagnarsi lo stipendio, ma poi, a conti fatti, non si accorgono neppure che sono cresciuti e ci sono altre priorità che lavare, stirare i loro vestiti e imboccarli. -
- Con Diletta e Erik ho fatto del mio meglio... -
- Ah sì? Allora spiegami perché mia figlia ha partorito due bambini? - Ida serrò forte le palpebre, portandosi la mano alla gola.
Avrebbe mai dimenticato? Sarebbe mai stata perdonata per il male che aveva inferto? Scosse il capo. Non era quello il momento di lasciare che i sentimenti e le emozioni avessero il sopravvento.
- Ti era stato ordinato di occuparti dei gemelli come se fossero figli tuoi, e neppure ti sei accorta che...che... - tacque, spaventata che qualcuno potesse udirla. - Mia figlia non può prendersi cura di questa creatura, e non voglio che nessuno scopra cos'è accaduto in questa casa - sibilò fra i denti. - Mio marito non mi deve accusare di aver macchiato la sua discendenza. Mi ha già incolpato per la disgrazia di aver avuto una figlia malata, e di non aver badato ai suoi eredi. Poi ora c'è Bice. Lei non dovrà mai sapere nulla. -
- Vuole veramente che venga adottata? - chiese ancora Teodora stringendo a sé la piccola.
- Quando ti ho chiesto se fossi disposta a occuparti di tutta questa faccenda non hai vacillato - le ricordò Ida. - Ora cosa c'è? Ti preme la sua sorte solo perché hai paura di perdere il tuo posto in questa casa? Ti assicuro che il lavoro non mancherà mai, soprattutto quando Diletta scoprirà di aver perso entrambi i figli. Io da sola non posso pensare a tutto. -
- Sì, ma... -
- Vuoi altri soldi? È questo che cerchi? - Ida afferrò la tata per il braccio.
- No, non voglio approfittarne, ma fare adottare una bambina senza documenti è illegale - sussurrò Teodora.
- Dovevi pensarci prima. Ora è nelle tue mani. Portala dove vuoi, basta che si allontani da questa casa per sempre - strinse con più forza le sue dita attorno al braccio della tata, - e bada bene, Teodora... quando tornerai non voglio che tu dica nulla a nessuno, neppure a Diletta, se dovesse chiedertelo. Hai capito? - la presa si fece più salda. - Accusa me se necessario, ma non lasciarti ingannare dalle sue lacrime. Se è accaduto tutto questo è anche colpa sua, non solo di Erik - serrò le labbra. - Non voglio sapere dove porterai questa bambina. Non è più affar mio, ma fa in modo che non mi crei problemi in futuro o sarai tu a pagarne le conseguenze. -
- Quale nome devo darle? - domandò ancora Teodora.
- Quello che preferisci. Io non voglio neppure conoscerlo! - ringhiò ancora Ida distogliendo del tutto lo sguardo.
- Certo, signora, certo - Teodora si divincolò dalla presa delle dita della padrona di casa. - Voglio solo il suo bene e che trovi due genitori che possano amarla come una figlia. -
- Non dimenticarti di fare in modo che quel bene sia anche il mio e della mia famiglia! - abbaiò Ida raggiungendo la sua camera da letto, e chiudendo la porta dietro di sé.



Capitolo 1


Socchiuse gli occhi, cercando di rilassarsi, lasciandosi cullare dal silenzio, ma le sue dita continuarono a tamburellare sulla pelle nera del lettino, scandendo quasi il tempo.
- Sbaglio o questa mattina mi sembra più agitata del solito? - domandò la dottoressa Lombroso Amanda, scostandosi dal viso una ciocca ribelle.
Accavallò le gambe, mostrando una porzione di coscia abbronzata, risultato di quindici giorni di ferie a Fuerteventura per dimenticarsi del freddo di un inverno lungo e rigido che aveva attanagliato Firenze fino ai primi giorni di marzo.
- Direi quasi elettrizzata - aggiunse. - Pare abbia altro in mente che restare qui nel mio studio. -
La donna distesa sul lettino girò la testa dalla sua parte, mentre le sue dita smisero di muoversi. La mano si rilassò sul bracciolo.
- Non sarei mai mancata, ma... -
- Ma? - la psichiatra inarcò un sopracciglio senza staccare gli occhi dal taccuino.
- Essere qui e fingere con lei mi sembra quasi di tradire la sua fiducia e tutto il lavoro che abbiamo fatto insieme - ammise Amelia Landi, raccogliendo i capelli rossi e ricci, e sistemandoli dietro la nuca, così da formare un cuscino morbido che le teneva sollevata la testa.
- Tradire? - corrugò la fronte la dottoressa Lombroso, deponendo il quadernetto sul tavolo, ma trattenendo la matita fra due dita. - Cosa intende per tradire? -
Amelia Landi balzò a sedere come se fosse stata percorsa da una scossa elettrica. Batté le mani come una bambina, e scoppiò a ridere.
- Non vedevo l'ora di dirglielo dottoressa: ho trovato lavoro! - saltellò sul lettino, lasciando che il tacco degli stivaletti colpissero il pavimento di parquet un paio di volte. La gonna a pieghe sobbalzò, sollevandosi per poi ricadere morbida sulle gambe. Lei la trattenne con una mano. - Un fantastico lavoro! -
- Ma lei ne ha già uno - rispose pacatamente la psichiatra deponendo anche la matita accanto al taccuino. Sul suo volto non apparve alcuna espressione. - Non lavora nella Biblioteca Nazionale Centrale da tre anni? -
- Sì, e infatti non ho alcuna intenzione di lasciare il mio impiego, ma ho chiesto un periodo di aspettativa di un mese, e ho accettato un incarico speciale. -
La dottoressa Lombroso incrociò le braccia al petto.
- Credevo di averle spiegato che in questo momento difficile della sua vita fosse meglio non affrontare drastici cambiamenti, soprattutto fare in modo che lei si senta oppressa da nuovi impegni. Tutto questo potrebbe dare vita a nuovi attacchi di panico e aumentare la sua ansia - liberò le gambe.
- Lei mi ha insegnato a gestire le mie emozioni. Da quando vengo qui mi sento meglio. Non ho più avuto alcun problema, e quando mi sento sopraffatta dall'agitazione mi impongo di calmarmi, respiro come mi ha insegnato, e tutto passa - schioccò le dita, - come per magia - rise divertita dalla scelta delle parole.
- La respirazione la può aiutare a ritrovare un certo equilibrio e anche a rallentare il suo malessere, ma non sicuramente a toglierla dalle difficoltà - la contrastò la psichiatra. - Non è ancora pronta per affrontare un drastico cambiamento. Ricorda come si sentiva quando era presa alla sprovvista da uno di questi attacchi? Tremori, nausea, tachicardia, senso di soffocamento - elencò scandendo le parole lentamente. - Tutto questo, se vissuto in un ambiente che non conosce e soprattutto da sola, potrebbe portare a fobie incontrollate - si sporse in avanti, e sussurrò quasi: - La parola fobia deriva dal greco phobia, e significa paura. Il suo stato mentale non è ancora pronto, signorina Amelia. Soffre di un disturbo post traumatico da stress, sicuramente accentuato dall'aggressione avvenuta un anno fa. Anche se, come le ho già ripetuto più volte, credo dipenda da una situazione che la turbò durante la sua infanzia, e che dunque vada ricercata più nel suo profondo. Non possiamo abbandonare adesso la strada che abbiamo intrapreso, altrimenti non farà altro che tornare indietro, e ricadere in quello stato catatonico. -
- Sì, ne sono cosciente - ammise Amelia imbronciandosi.
Durante le precedenti sedute, la dottoressa Lombroso le aveva spiegato accuratamente cosa significasse soffrire di PTSD, il disturbo post traumatico da stress, che nel suo caso avrebbe anche potuto sfociare in un disturbo ossessivo compulsivo. Nel primo caso, il problema era legato a circostanze traumatiche vissute. Poteva trattarsi dell'aggressione che aveva subito in strada, e che aveva prodotto una reazione intensa da farle scattare una risposta dissociativa che corrispondeva, in qualche modo, a uno stato di trance. Dopo quella notte, ogni qual volta si era sentita in pericolo, era stata costretta a lottare contro un improvviso attanagliamento, una sensazione di impotenza che l'aveva obbligata a fermarsi e a ritrovare il suo autocontrollo, che comunque non era sempre riuscita a recuperare facilmente. Poteva accadere all'improvviso, mentre si trovava davanti alla porta che conduceva nelle cantine della palazzina in cui abitava in via Mario Fabiani, oppure quando, camminando lungo la strada di sera, avvertiva dei passi alle sue spalle o ancora salendo le scale che conducevano al suo appartamento. Era sempre accaduto di notte, raramente di giorno, e anche se nelle immediate vicinanze c'erano altre persone alle quali poter chiedere aiuto. Quando quel disturbo aveva la meglio su di lei, il suo corpo si pietrificava, rendendola incapace di qualsiasi azione, costringendola a vivere uno stato confusionale e di stordimento. Il disturbo ossessivo compulsivo si scatenava invece con una costrizione passiva, costante e incontrollata di pensieri o comportamenti fastidiosi e ansiogeni. La psichiatra le aveva anche spiegato che nel suo caso questo problema si era fino a ora sviluppato in forma lieve, sfociando in piccoli manierismi, come sentirsi sporca, quasi come se avvertisse su di sé ancora le mani dell'aggressore, e dunque era costretta a strofinarsi la pelle per levarsi di dosso quella sensazione.
- Anche lei, la settimana scorsa, ha ammesso che con quella seduta di ipnosi mi sono liberata in parte dalle mie paure - le ricordò Amelia. Questa volta toccò a lei stringere le braccia al petto e fissare con insistenza la donna che le sedeva dinanzi. La mano sinistra scivolò delicatamente sul braccio destro, accarezzando il tessuto morbido della camicetta bianca.
- La seduta di ipnosi è stata una sua libera scelta, signorina Amelia, e le ricordo anche il motivo: cercare nel suo subconscio la vita precedente che lei crede di aver vissuto. -
- Sono sicura di non essere stata sempre così - ribatté Amelia Landi stringendo ancora di più le braccia attorno al busto. - Ognuno di noi ha vissuto una vita passata che non può ricordare, ma che lascia dentro di noi alcune tracce che possiamo ricercare e seguire. -
- L'idea della trasmigrazione delle anime, detta anche metempsicosi, è ben diffusa in molte religioni - l'assecondò la dottoressa. - In alcune come l'ebrea, la cristiana e l'islamica, è prevista la reincarnazione, ma solitamente nel senso di un ricongiungimento materiale con un corpo dell'anima trapassata, e la si pospone alla fine dei tempi. -
- Quella induista invece prevede una reincarnazione continua, dove l'anima occupa un corpo nuovo ogni volta che viene a mancare l'involucro in cui momentaneamente si trova - sbuffò Amelia, agitando la mano, ma senza staccarla dall'abbraccio. - Me lo ha già spiegato, ma come cerco di ripeterle dal primo momento che sono entrata in questo studio, ciò che sento io è ben diverso. Non sto dicendo che la mia anima si è incarnata in un altro corpo, ma che sono sicura di ricordare qualcosa della mia vita passata. -
- È stata abbandonata davanti al portone di un convento che aveva solo cinque giorni di vita - le ricordò la dottoressa. - Come può ricordarsi qualcosa dei suoi genitori, della casa in cui è nata? - scosse il capo energicamente.
- E quel fiocco rosa? La paura per il temporale? L'ultima volta lei mi ha spiegato che potrei aver vissuto un trauma da piccola tale da destabilizzare il mio subconscio e dunque permettermi ora di ricordare molto altro di ciò che identifico come una vita già vissuta. Durante la seduta di ipnosi ho avvertito qualcosa... - farfugliò Amelia Landi indispettita.
- Se vorrà appureremo con un'altra seduta - concordò la dottoressa Lombroso anche se il suo modo di fare pareva quasi una conciliazione, come se volesse interrompere quel discorso che non le interessava particolarmente, infatti continuò: - Comunque, tornando al suo nuovo incarico... Dai suoi gesti posso capire che questo cambiamento le sta molto a cuore. Ma anche che parlarne, e soprattutto ascoltare le mie disapprovazioni, le crea parecchia ansia. -
- Quali gesti? -
- Ha stretto le braccia attorno al busto, e questo è un evidente segno di chiusura - spiegò ancora la psichiatra - ma non ha fatto solo quello. Si è accarezzata anche il braccio. -
- Dunque? - si accigliò Amelia, fermando la mano, e stringendola a pugno.
- Quando si è stressati, l'atto di incrociare le braccia consente di posizionare i palmi in maniera tale da darsi confortanti carezze per tranquillizzarsi in modo dissimulato. Sentire questo contatto ci calma e ci tranquillizza, un po' come quando si sfregano le mani. In questo caso il gesto non ha a che vedere con chiusura o comodità, bensì con l'ansia. Si sente ansiosa, signorina Amelia? -
- Potrebbe evitare di continuare a chiamarmi signorina? - domandò invece Amelia.
- La infastidisce? - domanda a trabocchetto, seguita da un sopracciglio alzato.
- Non mi piace - replicò lei distogliendo lo sguardo, come era solita fare da piccola quando veniva rimproverata. - Sembra quasi che voglia mantenere un certo distacco. So di essere una sua paziente, e che non sarebbe opportuno diventare amiche e uscire a cena insieme, ma se sono qui è perché nutro molta fiducia in lei e nel suo lavoro. -
- Da oggi, allora, la chiamerò solo con il suo nome - acconsentì la psichiatra annuendo.
- Comunque, anche lei l'ha fatto - mosse le mani. - Anche lei, non appena le ho detto di aver trovato un nuovo lavoro, ha stretto le braccia al corpo - volle puntualizzare.
- Auto-abbraccio - semplificò la psichiatra. - Il mio è stato un gesto che non ha nulla a che fare con l'ansia o lo stress e che siamo abituati a compiere di più quando siamo in pubblico che in privato. Quando ci si trova in situazioni in cui si è esposti davanti a più persone, il gesto assume il più semplice significato dell'abbraccio verso se stessi, poiché aiuta a sentirsi a proprio agio in qualsiasi momento. -
- Non si sente a suo agio con me? - domandò Amelia Landi puntandosi il dito al petto.
- Cercavo solo un po' di confort, per essere certa di essere pronta a recepire la sua richiesta, e soprattutto di riuscire a comprendere e approvare, se necessario, le sue motivazioni - spiegò ancora la psichiatra, - ma torniamo a noi, Amelia. Il nostro rapporto è unicamente di paziente e medico, ma questo non vuol dire che io non tenga a lei. Ma questa sua necessità di cominciare un'amicizia con me mi fa sorgere qualche perplessità - tacque, restando a fissare la paziente, per poi domandare: - Negli ultimi giorni, il suo rapporto con Camilla ha subito qualche cambiamento? -
- No, perché? - domandò sorpresa Amelia.
- Ciò che ha detto prima mi ha quasi fatto credere che lei abbia bisogno di una persona intima più che una psichiatra, e volevo essere sicura che... -
- No, no - agitò le mani Amelia, - con Camilla tutto okay. Lei è molto dolce e mi è sempre stata vicino. Ora che è diventata commissario ci vediamo raramente, soprattutto adesso che la figlia è un'adolescente e deve starle appresso, ma se la chiamo mi risponde subito. Resta sempre la mia unica migliore amica - volle precisare.
- Questo mi fa molto piacere - annuì ancora la dottoressa. Tornò ad afferrare la matita e il taccuino, ma non lo aprì, bensì depose entrambi in grembo. - Mi stava parlando di questo magnifico incarico che l'ha portata addirittura a saltellare dalla gioia, nonostante io fossi certa che l'attuale occupazione come accademica nella biblioteca la soddisfacesse. Non ha forse studiato per questo? Per poter restare immersa fra i libri e sfogliare le pagine che profumano di inchiostro e di carta invecchiata? - mosse le mani lentamente mentre aggiungeva quelle ultime parole. - Adora i suoi due colleghi. L'altra settimana è incappata in un manoscritto che risale all'Ottocento e il direttore l'ha incaricata di tradurne il contenuto. Cosa l'ha spinta a cercarsi un'altra occupazione? -
- Se le dicessi che si tratta di soldi? - borbottò solo Amelia chinando il capo e abbassando gli occhi.
Liberò le braccia dal busto e con un gesto rapido raccolse i lunghi capelli. Tornò a distendersi sul lettino, lasciando che la chioma rossa e ondeggiante sporgesse dal divanetto di pelle. Le punte sfioravano quasi il pavimento.
- Un fattore economico, allora? -
- Non solo - ammise Amelia. - Oltre a ottenere cinque mila euro in un solo mese potrei restare a contatto con un'enorme biblioteca, e dunque continuare a esercitare il lavoro che amo - sospirò girandosi a fronteggiare la psichiatra. - Al lavoro non hanno fatto storie quando ho richiesto un periodo di aspettativa. Ho ancora centocinque ore di ferie arretrate. Posso usufruirne come voglio. -
- Sapere che è venuta qui stringendo fra le mani già ogni opzione di successo mi fa pensare che aveva deciso ancora prima di incontrarmi, e che qualunque cosa le consiglierei ora accetterebbe comunque questo nuovo incarico - la dottoressa si sporse in avanti, e domandò: - Perché ha voluto raggiungere il mio studio ugualmente questa mattina, se sapeva che non avrei approvato? Ha già deciso. Le interessa veramente il mio giudizio? -
Amelia sbuffò stringendo forte le palpebre. Sapeva fin dal principio che avrebbe dovuto annullare quella seduta o almeno rinviarla al mese successivo, ma non se l'era sentita di raccontare una bugia alla dottoressa Lombroso. Menzogna che comunque la psichiatra avrebbe scoperto nel giro di due minuti. Era esperta nel leggerle nel pensiero, soprattutto era brava a trovare dentro di lei ciò che la turbava, ma quel nuovo lavoro era un'occasione, forse l'unica che avrebbe avuto in tutta la sua vita. Non aveva certamente intenzione di lasciarsela scappare solo perché la sia psichiatra sosteneva che non era ancora pronta ad affrontare la possibilità di staccarsi dalle sue certezze e dalle sue abitudini. Dalla notte dell'aggressione erano già trascorsi tredici mesi. Non poteva continuare a vivere nella paura e nell'ombra. Era stata aggredita mentre camminava per la strada da sola e di notte, ma non era stata violentata, non era stata picchiata e tanto meno uccisa. Il maniaco l'aveva solo spinta contro il muro e le aveva infilato le mani sotto la gonna, minacciandola, ma le grida di un passante l'avevano costretto alla fuga. Non era successo nulla, era questo che continuava a ripetersi ogni qual volta avvertiva quel fastidio strisciare lungo la schiena e risalire fino alla nuca. Poteva farcela. Forse cambiare vita per un mese e abbracciare la novità del momento le avrebbe fatto bene. Dunque, perché aveva ugualmente raggiunto lo studio? Per sentirsi dire che aveva scelto per il meglio e che era libera di cominciare nuovamente a vivere la sua vita? O solo perché voleva che la dottoressa non si sentisse tradita, ma che fosse sicura delle sue scelte e delle sue decisioni?
- Non volevo che lei pensasse che me ne fossi andata senza neppure salutarla - ammise Amelia.
Riaprì gli occhi e li fissò al soffitto. Rimase a guardare una crepa che ogni volta pareva essersi allungata. Forse era solo la sua impressione, ma restare immobile con gli occhi spalancati e seguirne il percorso la rilassava più di qualunque altro oggetto lì dentro. Era come se riuscisse a staccarsi dal mondo reale a sollevarsi in aria e parlare liberamente di sé senza essere interrotta, lasciando sfogare le sue emozioni, e soprattutto evitando di tenerle costantemente sotto controllo. Poteva essere se stessa, cosa che in compagnia di estranei le veniva difficile.
- Dunque, mi vuole spiegare di quale incarico si tratta? - la distolse dai suoi pensieri la psichiatra. - Si allontanerà da Firenze? -
- Non andrò troppo lontano. Solo a Settignano. Del resto, non riuscirei mai a lasciare le mie amicizie e cambiare città neppure per una settimana, figuriamoci per un mese. Sa come la penso al riguardo: qui sono nata e qui voglio morire. -
- Pensa spesso alla morte, Amelia? - il taccuino venne aperto e il silenzio fu rotto dalle pagine che venivano sfogliate.
- Dopo la notte dell'aggressione ci ho pensato - ammise lei.
- Ora? -
Amelia restò in silenzio. Alla morte ci pensava tutti i giorni. Aveva paura di addormentarsi e non svegliarsi più, aveva paura di essere nuovamente aggredita e di restare uccisa. Addirittura, aveva timore di scendere in cantina e incontrare qualche mostro della sua infanzia o un serial killer che l'avrebbe fatta a piccoli pezzetti. La morte le faceva paura, ma non aveva intenzione di fermarsi e aspettare che sopraggiungesse. Voleva vivere e guadagnarsi ciò che era suo, ciò che era riuscita a stringere fra le dita fino a quel momento. E quel nuovo lavoro era la sua unica possibilità che aveva ancora di dimostrare che aveva superato l'aggressione, che era capace di gestire i suoi attacchi di panico e il suo stress. Era la sua unica chance di provare alla dottoressa Lombroso che il suo aiuto era stato fondamentale per lei, soprattutto in quei mesi in cui attorno scorgeva solo il buio di quella strada e il volto di quell'uomo, ma che ora, se lo avesse incontrato ancora, sarebbe riuscita ad affrontarlo.
- Non ho intenzione di morire giovane, ma se deve accadere voglio poter chiudere gli occhi pensando di non aver né rimpianti né rimorsi - rispose schietta Amelia, concedendosi un sospiro pesante, e liberatorio.
- Rifiutare questo lavoro vorrebbe dire provare dei rimpianti? - domandò ancora la psichiatra.
- Tanti - annuì lei. - Se vuole la verità non credevo neppure di essere presa in considerazione per questo incarico. -
- Chi l'ha proposta? -
- Ho trovato un annuncio su una rivista che riceviamo in biblioteca. Cercavano una laureata in letteratura antica per valutare alcuni manoscritti conservati in una villa, ma il proprietario vuol scegliere una persona libera da impegni famigliari, che abbia la possibilità di abitare nella sua casa con vitto e alloggio pagato - rivelò tutto d'un fiato lei.
- Mmm - grugnì la psichiatra, tornando ad accavallare le gambe.
- Ci pensa? Un mese servita da una cameriera e con il solo obbligo di valutare alcuni manoscritti e accertarne l'autenticità e la provenienza - elargì ancora Amelia.
- Interessante. Perché per forza deve restare in questa casa? Non può fare ritorno al suo appartamento la sera, e raggiungere Settignano il giorno dopo? Non credo che dovrà lavorare ventiquattro ore consecutive. La notte le permetteranno di riposare. -
- Sulla lettera che ho ricevuto due giorni fa si faceva esplicita richiesta di privacy - si girò a guardarla, ma la dottoressa Lombroso stava scarabocchiando qualcosa sul taccuino. - Il proprietario non vuole che nessuno sappia del mio arrivo. Non vuole la stampa tra i piedi, e soprattutto che qualcuno pensi di introdursi nella casa e rubare quei manoscritti - abbassò il tono di voce, e aggiunse: - Si parla di libri che risalgono al Seicento e alcuni potrebbero essere ancora più datati. -
- Un lasciato testamentario? - domandò quasi con aria di indifferenza la dottoressa Lombroso.
Quello di fingersi disinteressata dopo aver posto una domanda era il suo modo di fare, ma Amelia, che la conosceva da parecchi mesi, sapeva che le sue orecchie erano ben tese e che non le sfuggiva mai nulla. Se poneva un quesito era perché voleva ricevere una risposta veritiera e soprattutto sincera.
- Se le confido un segreto lei mi promette di non rivelarlo a nessuno? - domandò Amelia.
La mano della dottoressa Lombroso si fermò e la matita smise di lasciare il tratto sulla pagina. Alzò gli occhi fissandoli in quelli della paziente che ancora la guardavano.
- Ogni seduta è vincolata dal segreto professionale, Amelia, e qui dentro ogni mio paziente gode della propria privacy - le confermò, come se fosse necessario precisare che il suo lavoro era una professione seria e che anche lei si riteneva tale.
- Questi volumi potrebbero essere stati acquistati - Amelia Landi sottolineò l'ultima parola simulando delle virgolette con le dita, - per così dire, durante la Seconda guerra mondiale. -
- Come, scusi? -
- Dopo aver ricevuto la lettera ho fatto un giretto in Internet e ho scoperto che la Galleria degli Uffizi venne svuotata dopo l'entrata dell'Italia in guerra, e molte opere d'arte furono trasferite in rifugi ritenuti sicuri, come nella Villa medicea di Poggio a Caiano. Si trattava di 550 dipinti e di 11 sculture antiche, fra cui la Venere de' Medici. Anche le opere d'arte di maggior pregio vennero ricoverate presso Palazzo Pretorio di Scarperia, ma molte altre furono trafugate dai tedeschi, e più ritrovate. Certamente per la maggioranza si parla di dipinti, di vere e proprie opere d'arte, ma qualcuno ha accampato anche l'ipotesi che fra questi cimeli antichi ci fossero alcuni volumi che vennero nascosti qui a Firenze, e dimenticati. -
- Lei crede che questo signore li abbia recuperati e conservati fino ad oggi nella sua biblioteca personale? - domandò perplessa la dottoressa Lombroso.
- Potrebbe essere, ma le mie sono solo supposizioni. Non è stato precisato nulla nella lettera - si agitò Amelia.
- Ricorda che non deve fidarsi delle sue convinzioni fuorvianti, vero? O al massimo prima verificare ciò che crede di aver visto. -
- Sì, lo so - si afflosciò nuovamente sul lettino Amelia.
- L'ultima volta che ha permesso al suo subconscio di avere la meglio, e alle sue paure di impossessarsi di lei, ha quasi fatto arrestare il suo vicino di casa dopo averlo accusato di aver ammazzato la madre e trasportata avvolta in un tappeto nel bagagliaio della sua auto - le ricordò.
- Quel tappeto aveva la stessa forma di un cadavere - puntualizzò la paziente piccata, - e la madre del mio vicino di casa è all'improvviso scomparsa. -
- Per poi riapparire in una casa di riposo a Milano - puntualizzò la dottoressa Lombroso.
- Il mio vicino poteva dirlo subito quando è arrivata la polizia e non tenere nascosto il ricovero della madre fino alla fine - s'impuntò Amelia. Abbassò gli occhi. - Lo so. In quel periodo vedevo cose che non esistevano - si giustificò.
- Se questi manoscritti sono così rari e se fanno parte di un patrimonio che appartiene a Firenze, il suo nuovo datore di lavoro non potrebbe rischiare mostrandoglieli? -
- Per questo motivo ha richiesto espressamente che io alloggi nella sua casa fino al termine dell'incarico. Dovrò firmare un contratto in cui accetterò di non rivelare nulla di ciò che troverò in quella biblioteca - il tono della sua voce divenne ancora più basso, e aggiunse: - Certamente, se dovessero risultare tutti originali non li donerebbe alla Biblioteca Centrale Nazionale della città, ma contatterà dei compratori, collezionisti privati che pagheranno milioni di euro pur di impossessarsene. -
- Signorina Amelia... - la dottoressa Lombroso tacque, scosse il capo, ma decise di continuare: - Amelia, cosa c'era scritto in quel contratto? Lo ha letto? - sollevò gli occhi puntandoli in quelli della paziente.
- Lo farò domani, appena arriverò in quella casa - chiarì lei.
- Non lo trova un tantino insolito? -
- Credo che sia necessario per proteggere la privacy del proprietario di quel volumi - parve sicura di sé Amelia. - Forse è come dico io: quei libri sono stati acquistati illegalmente e potrebbe avere problemi con la giustizia se venissero alla luce all'improvviso e senza accertarne la provenienza. -
- Era quello che volevo dire - confermò la dottoressa Lombroso. - Tutta questa faccenda non mi pare sicura per lei, e il suo stato mentale non c'entra. Non consiglierei a nessuno di assolvere a un incarico di questo genere, tanto meno a lei che si troverebbe per un mese a non poter avere rapporti con le persone che fino a questo momento le sono state vicine e indispensabili per uscire dall'incubo che ha vissuto, e soprattutto per stabilizzare la sua psiche. Cosa farà se fosse assalita da un attacco di panico, se dovesse sentirsi sotto pressione o se, peggio, dovesse soffrire ancora di allucinazioni? -
- Sono settimane che non accade più nulla - rispose schietta la paziente.
- Sbaglio o venti giorni fa ha ammesso di aver chiamato nel cuore della notte la sua amica Camilla perché credeva di aver visto fuori dalla finestra alcune ombre sinistre che si muovevano nel giardino condominiale? - la imbeccò la dottoressa Lombroso. - Soffre quando è costretta a restare in luoghi troppo chiusi e affollati, e... -
- Il mio lavoro si svolgerà in una biblioteca immensa, e sarei isolata - la contraddisse prontamente Amelia.
- ...e ha ammesso di chiamare Camilla tre volte al giorno o di avere necessità di dialogare con i colleghi per non sentirsi troppo sola - continuò l'altra.
- Posso chiamarla al cellulare - la contrastò ancora la paziente, incrociando nuovamente le braccia al petto. Questa volta in un completo e totale gesto di chiusura.
- Chi abita in quella villa? Oltre al proprietario, intendo? - domandò ancora la psicologa.
- Non lo so. -
- Lei non lo sa... - si arrese la dottoressa. - Amelia, è sicura di ciò che sta facendo? -
Lei annuì, senza volgere la testa, e guardarla negli occhi.
- Lo devo fare - dichiarò alla fine come se fosse necessario che la dottoressa comprendesse la necessità impellente della sua scelta. - Quei soldi mi servono e poi voglio dimostrare di essere in grado di superare tutto da sola. Non voglio più avere paura. Sono brava nel mio lavoro e questa è l'occasione per dimostrare che i miei studi non sono serviti solo per catalogare libri in una biblioteca. -
- Lei non fa solo quello, ma si occupa anche della valorizzazione dei libri antichi prodotti dalle origini della stampa al 1500. Non è un lavoro che si affida a una sprovveduta senza esperienza. Si è laureata con ottimi voti, e se mi permette, non è stato facile con la sua condizione di vita. -
- Lo ammetto, sono stata brava e mi sono impegnata al massimo, soprattutto non avrei mai creduto che una povera orfanella sarebbe riuscita a permettersi di terminare l'università e trovare anche questo incarico - ammise Amelia. - Ma sa anche che senza l'aiuto della madre di Camilla in quella biblioteca non ci sarei mai entrata. -
- È questo che crede veramente? Che la madre della sua migliore amica abbia messo qualche buona parola per lei per farle avere quel posto? - storse il naso, ma preferì abbandonare quel discorso e continuare: - Ora non è più una povera orfanella, ma una donna che ha lavorato e sudato per permettersi tutto ciò che ha. Ero convinta che questa parte della sua infanzia l'avessimo anche superata. -
- È stata lei a ricordarmela - mentì spudoratamente Amelia.
- Non aveva deciso di cominciare anche un corso di scrittura? - domandò all'improvviso la psicologa. - Diventare scrittrice è stato uno dei suoi sogni chiusi nel cassetto fino a qualche mese fa. -
- Sì, infatti. Un sogno - commentò amaramente Amelia. Si mise seduta e affondò le mani in grembo. - Seguendo una trentina di lezioni non si diventa scrittrice di romanzi rosa, dottoressa, ma ci si illude solo di riuscire a costruire una storia che abbia un inizio e una fine, e di lasciare che la vita dei personaggi si mischi con quella dell'autore. Lei mi ci vede a pubblicare un vero romanzo? Chi editerebbe mai il libro scritto da una perfetta sconosciuta, che si imbottisce di ansiolitici e che ha paura di scendere in cantina? -
- Credevo avesse preso molto sul serio questo suo nuovo progetto, e le posso assicurare che anche Stephen King non è nato scrittore, ma c'è diventato con impegno e devozione. Proprio cercando di realizzare quel suo stesso sogno - le ricordò la psicologa, e aggiunse: - Sa cosa diceva Marie Curie? -
- Chi? -
- Maria Salomea Skłodowska, in verità. Fu una chimica e fisica polacca naturalizzata francese nel 1903 e decorata del premio Nobel per la fisica, insieme al marito Pierre Curie e ad Antoine Henri Becquerel, per i loro studi sulle radiazioni. Nel 1911 ottenne da sola il premio Nobel per la chimica, per la sua scoperta del radio e del polonio, il cui nome venne scelto dalla scienziata proprio in onore della sua terra. Marie Curie fu l'unica donna tra i quattro vincitori di due Nobel, e anche la sola ad aver vinto il Premio in due distinti campi scientifici. -
- Cosa c'entra con il mio romanzo? - chiese Amelia che non aveva compreso il collegamento fra quella donna e il corso che aveva cominciato due mesi prima, e che ora avrebbe dovuto sospendere, rischiando di perdere i soldi versati in anticipo.
Ma in cuor suo, anche quella sera, mentre gettava in una valigia qualche abito e i suoi effetti personali, senza dimenticare un paio di thriller appena acquistati, ci aveva sperato e quei cinquemila euro le sarebbero serviti proprio per dare un sospiro alle sue finanze.
- Nulla, ma era solita asserire che la vita non è facile per nessuno, ma che bisogna credere alla propria vocazione per qualcosa e bisogna dunque raggiungerlo questo qualcosa e a qualunque costo - recitò a memoria l'analista. - Lei, Amelia cosa vuole raggiungere? Vuole veramente diventare una scrittrice, scrivere un romanzo tutto suo, oppure vuole andare in questa casa e guadagnare cinquemila euro rischiando anche di compromettere tutto il nostro lavoro? -
- Vorrei entrambe le cose - dichiarò decisa Amelia.
La dottoressa Lombroso annuì, lasciando apparire un sorrisetto incerto sulle labbra. Si alzò dalla sedia.
- Dunque, fino al suo ritorno non potremo rivederci - confermò sicura che le sue opposizioni non avrebbero fatto desistere la paziente nell' accettare quel nuovo incarico, e catapultarsi in una situazione che avrebbe potuto portare più rischi che giovamenti.
Sarebbe stato inutile tentare di farle cambiare idea e lei non sarebbe stata certamente la persona più adatta a svolgere quel compito. Il suo lavoro era permettere alla paziente di trovare il coraggio di dimenticare l'aggressione subita un anno prima e soprattutto di renderla responsabile dei suoi limiti, delle sue paure, ma anche della sua forza, e fino a quel momento aveva fatto un buon lavoro. Ora stava ad Amelia continuare a percorrere quella strada. Forse era stata troppo dura e drastica con lei in quei quaranta minuti di seduta. Forse un cambiamento radicale l'avrebbe aiutata a comprendere cosa volesse raggiungere nella vita e soprattutto dove fermarsi. Prima o poi tutti pervenivano a uno stop che stabilivano quando avevano toccato i punti cardinali della loro esistenza. Amelia Landi aveva vissuto per diciotto anni in un orfanotrofio accudita dalle suore, era stata costretta a lavorare di giorno e studiare la notte per mantenersi all'università nonostante la borsa di studio privandosi così dei piaceri e dei divertimenti della sua giovane età, e ora che aveva un lavoro stabile e una vita apparentemente tranquilla, aveva bisogno di togliersi un capriccio, di provare a giocare con il suo destino. Quei cinquemila euro guadagnati in trenta giorni sfogliando alcuni manoscritti inoculabili potevano essere investiti nel suo futuro. Del resto, avrebbe svolto lo stesso lavoro solo in un posto diverso. Questa nuova avventura l'avrebbe anche distolta dal cercare quel passato che le mancava, quel tassello del suo personale puzzle in cui si rivedeva ogni giorno come la figlia di una donna che aveva deciso di abbandonarla, piuttosto che prendersi le sue responsabilità e crescerla, mettendola al centro della sua vita come ogni madre aveva il diritto, ma anche il dovere di fare. Dalla prima volta che era entrata nel suo studio e aveva chiesto il suo aiuto, la psichiatra aveva compreso che il vero problema dipendeva proprio da quell'abbandono. Nonostante fossero trascorsi trentasei anni da quel giorno, Amelia si sentiva ancora un nessuno, la figlia di nessuna madre, e questa era una condizione di vita che avrebbe dovuto accettare o per la quale trovare una soluzione, e la psichiatra era più propensa a prendere in considerazione la prima ipotesi.
- Se avrò bisogno di lei prometto che la chiamerò subito - si alzò anche Amelia.
- Se avrà bisogno di me sarà già troppo tardi - chiarì la dottoressa Lombroso, ma aggiunse subito dopo: - Comunque, io sarò qui ad aspettare la sua telefonata, anche solo per sentirla esultare e per sentirmi dire che ho sbagliato a giudicare male questa sua decisione. Mi prometta solo che continuerà ad assumere regolarmente il farmaco che le ho prescritto, e che si terrà in contatto almeno con la sua amica Camilla. -
- Ovviamente, dottoressa - annuì Amelia.
- Non mi resta che augurarle buona fortuna - si congedò la dottoressa Lombroso.
- Secondo lei posso farcela? - chiese Amelia afferrando la borsa e infilandola a tracolla.
Non aveva neppure slacciato l'impermeabile. Nello studio la temperatura era sempre di un grado in meno che nelle altre stanze. Quando alla seconda seduta la psicologa l'aveva vista rabbrividire, le aveva steso una coperta sulle gambe, asserendo che un luogo troppo confortevole e caldo avrebbe stimolato solo il troppo rilassamento. Amelia sospettava lo facesse per ridurre le spese di riscaldamento, ma con quello che le pagava ogni volta che la raggiungeva avrebbe potuto saldare almeno due mesi di fatture.
- Credo che lei abbia lo spirito giusto per cominciare questa nuova avventura - ammise la psichiatra.
- Non era quello che volevo sentirmi dire - borbottò Amelia.
- Creda nelle sue capacità e ce la farà - l'assecondò la dottoressa Lombroso, - e se non dovesse accadere avrà almeno la sicurezza di averci provato, e soprattutto di non aver rimpianti. -

Mara Richiedei

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